XXXII DOMENICA T.O. – Anno B
(1Re 17,10-16; Sal.145; Eb 9,24-28; Mc 12,38-44)
Marco riferisce l’insegnamento di Gesù nel tempio, la casa del Padre suo e nostro: il clima è solenne e segnato dalle realtà essenziali nell’imminenza della passione. La solennità dell’insegnamento è espresso da Marco con la costruzione del discorso.
L’insegnamento positivo ha una premessa critica. Critica dell’ambizione che ricerca il riconoscimento pubblico, visibile in chi si avvolge nell’abito sontuoso per evidenziare la propria dignità. Critica dell’avidità del danaro, anche in chi opera nel tempio: “divorare le case” equivale alla appropriazione illecita del patrimonio altrui. Infine critica del pregare a lungo per farsi vedere: la sapienza rabbinica invitava a pregare brevemente quando si è nella comunità, lungamente quando si prega da soli.
La critica è necessaria per purificare la mente e il cuore ed aprirsi all’ascolto dell’insegnamento positivo che è il centro di questa pagina di Marco. È cosa da ricordare perché sta a cuore al Signore, ed egli lo sottolinea anche attraverso la solennità dell’atteggiamento di Gesù, seduto ad osservare. “Chiamati a sé i suoi discepoli” è lo stesso verbo di autorità e di amore della prima chiamata (Mc.3,13). Anche ora vuole che essi imparino. Che impariamo anche noi oggi.
Molti ricchi offrono molto, forse anche con compiacimento. Le due monetine della vedova indicano la povertà, ma anche la generosità: avrebbe potuto darne una. Gesù lo nota e lo comunica ai suoi con autorevolezza di Maestro: “Seduto di fronte al tesoro… ‘in verità, in verità vi ‘dico’…”. A dare valore al gesto della donna non è il distacco dal possesso, condiviso da tante culture, ma l’amore a Dio che si esprime nel donare il necessario per vivere quel giorno. Marco vuole dire che, davanti a Dio, non conta l’entità di quello che si compie, ma l’autenticità del sentimento. Perciò la tradizione ricordava il rimprovero del Signore al sacerdote che disprezzava la piccola offerta di una donna povera: “Non disprezzarla, perché è come una che ha sacrificato se stessa”.
Marco sa che nella comunità cristiana in Palestina e a Roma vi sono i poveri e possono venire respinti e disprezzati: vuole ammonire che i ricchi, che donano il loro abbonante superfluo, conservano il loro conto in banca che da sicurezza, ma i poveri che accantonano la preoccupazione di sé, abbandonandosi alla provvidenza, hanno Dio come sicurezza. Perciò sottolinea l’eroicità del gesto della vedova come segno della fede capace di abbandonarsi completamente alla certezza dell’amore, fino ai piccoli gesti, che diventano luminosi e preziosi, perché rivelatori di una paternità che accompagna l’uomo nel suo cammino, per quanto insignificante possa apparire.
Comprendiamo che nella carità, che è lo spazio di incontro dato da Dio all’uomo, la quantità non è l’essenziale: quello che conta non è l’entità dell’opera materiale, ma l’amore che la abita, la vita che contiene, anche se si trattasse di un bicchiere d’acqua o di una stretta di mano. Allora beati i poveri che hanno solo se stessi da dare: in loro l’esempio di questa vedova diventa parola di Dio e dice che nessuno ha una vita così insignificante e piccola, talmente povera e forse persino sporca di cattiveria e gelosia, da non poter tirare fuori dall’intimo di sé un piccolo atto di benevolenza, di condivisione, di tenerezza, che sia segno non delle cose, ma della sensibilità e della compassione.
Questo è l’ultimo insegnamento del Signore prima del discorso sulle ultime cose e del racconto della passione. San Paolo poi scriverà per la memoria dei credenti: “Conoscete la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per noi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2Cor.8,9).
Perciò Gesù non è solo un esempio di vita sobria e totalmente donata, ma è modello e sorgente perché la sua via possa essere percorsa dagli uomini in ogni tempo. Chi lo segue non è tanto uno che crea eventi storicamente significativi – anche se ve ne sono stati -, ma uno che vive in pace la quotidianità, là dove Dio lo ha voluto. Per la modernità può apparire una visione di vita rinunciataria, impastata di passività, proprio opposta, perciò, a quanto esige oggi la logica di vita con la spinta al protagonismo e alla spettacolarità vissuti senza soste. Il mondo non ama la vita perdente, la considera addirittura un ostacolo sulla strada dello sviluppo umano. Forse c’è proprio questa diffidenza, con il rifiuto che ne segue, dietro all’insistenza ostinata per ottenere l’abolizione dell’immagine del Crocifisso, quasi che la sua povertà radicale e il dono di sé fino alla fine fossero un freno per la libertà e la dignità dell’uomo. Lascia disorientati che questa ostinazione si riproponga proprio mentre la crisi economica denuncia il fallimento del capitalismo e mentre la crisi del pensiero mostra la solitudine disperante dell’individualismo.
Come i discepoli chiamati una seconda volta, noi credenti siamo invitati non alla passività inattiva, ma a testimoniare impegno terreno e pace interiore, responsabilità nel presente, sovente disorientante, e abbandono fiducioso al disegno di Dio su ciascuno.
Il che non è pane per persone deboli e paurose.
Alla conclusione del viaggio verso Gerusalemme, nel clima carico di tensione per quello che dovrà accadere, nel tempo che si fa sempre più breve, Marco nel capitolo 12 evidenzia la dialettica con scribi e farisei, presenti nella zona del tempio. Gesù continua a manifestare il proprio pensiero sui grandi problemi del rapporto con Dio e dei comportamenti umani che derivano da quel rapporto.
Seduto davanti al tempio nello spazio dove venivano poste le tredici grandi ceste per la raccolta delle offerte a seconda delle diverse motivazioni, Gesù mostra ai discepoli il suo profondo malessere, il suo giudizio negativo per la vanità e la boria di “tanti ricchi che gettavano molte monete” nel tesoro, con la pretesa di venire onorati, di avere posti privilegiati nei luoghi pubblici. Giudizio ancora più negativo per l’ostentazione della preghiera che non intende raggiungere Dio, ma prolungata solo al fine di “farsi vedere”. L’ambizione è proprio l’opposto di quello che il Signore andava insegnando ai suoi, con una continuità impressionante nei quattro testi del Vangelo, fino ad ammonirli nella cena di addio (Lc.22, Gv.13), perché non si lasciassero catturare dalla ricerca di onori e riconoscimenti. Gesù vede l’ambizione negli scribi, maestri della Scrittura: la sente come un’offesa della santità del Padre. La strumentalizzazione del ministero della Parola, studiata ed insegnata per il bene del popolo, gli appare come una vera dissacrazione perché vissuta per il proprio prestigio, una bestemmia verso il Dio che parla senza alcun ritorno personale, per solo amore. Ancora più corrotta e ripugnante gli appare la condotta di quanti allo sfruttamento cercano di dare copertura con una preghiera ostentata nella frequenza e lunghezza ipocrite.
Questo gli ebrei lo sapevano perché i profeti lo avevano annunciato con forza, ma ora Gesù vede in quel piazzale vesti sontuose in cui i maestri si avvolgevano e si pavoneggiavano sotto i suoi occhi, nel cortile dedicato alla sola gloria di Dio.
Marco vuole segnalare il pericolo che corre la sua comunità, per la quale scrive il vangelo: il pericolo di cercare cariche di prestigio dentro la comunità cristiana, quella di allora e quella di oggi. Un pericolo sempre presente, perché la natura umana resta sempre esposta al fascino del narcisismo, dell’idolatria del proprio io.
Gli ebrei sapevano. Al tempo di Gesù era riferito di un maestro della Parola, il rabbi Aqiba, di cui si diceva che quando pregava con la comunità lo faceva brevemente per non cadere nell’ambiguità, quando invece lo faceva da solo vi dedicava molto tempo. E i discepoli sapevano perché Gesù ne aveva parlato, come riferisce Matteo nel discorso del monte. Sapere, perciò. non è sinonimo di vivere, mettere in pratica. Si può sapere e dimenticare che il Signore non condanna il pregare a lungo, ma chi prega per farsi vedere.
Se per gli scribi vanitosi il giudizio di Gesù è severo, la sua ammirazione è grande per il gesto della donna povera. A Gesù appare chiaro che il suo piccolo gesto, umile e rapido, è un gesto eroico perché la donna non offre quello che le avanza, ma “tutto quanto aveva per vivere”. Il suo è non un gesto che venga scritto nell’albo dei benefattori, non si tramanda con le lapidi. Ma il Signore che ha seguito e letto la donna dentro, chiama i suoi e li istruisce direttamente: “In verità io vi dico”. È un solenne giudizio di Dio, è l’indicazione di cos’è il Regno suo. E Gesù pronuncia questo giudizio nella sua intima possibilità di comprendere il valore vero del comportamento umano. A dare valore all’atto non è la libertà interiore dal possesso, che si può raggiungere anche con l’allenamento alla sobrietà; ma è l’amore a Dio, l’abbandono totale a Lui. La vedova di Marco e quella di Elia si incontrano nell’esperienza di una vita impensabile: “La farina nella giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì”. E al nostro scetticismo ammantato di razionalità viene detta la parola della tradizione ebraica: “non disprezzare la vedova, il suo povero dono, perché è come una che ha sacrificato se stessa” (cit. in Gnilka). Davanti a Dio non è decisiva la grandezza del dono, ma l’autenticità del sentimento dell’anima.
Questo è il giudizio che oggi la Parola ci da come una grazia purificatrice. La pagina di Marco invita a valutare la realtà con lo sguardo purificato dalla Parola. Invita a scoprire la mano del Padre nell’esperienza della Provvidenza, fidandoci di Lui, abbandonandoci a Lui, nella certezza della fede.