XXXI DOMENICA T.O. – Anno B
(Dt 6,2-6; Sal.17; Eb 7,23-28; Mc 12,28-34)
I giorni di Gesù a Gerusalemme, nel racconto di Marco dei capitoli 11,12 e 13, sono densi di discussioni, in modo particolare con i tre gruppi che costituiscono il Sinedrio: sacerdoti, scribi e anziani, attenti custodi del culto e della tradizione.
Questi episodi servono a Marco per mostrare concretamente la verità di ciò che al capitolo 8, iniziando il suoi viaggio, il Signore aveva predetto su quanto lo attendeva. Queste discussioni appaiono suggerite da intenzioni malevole: “per coglierlo in fallo” (Mc.12,13), ma le risposte sono limpide ed autorevoli, secondo la verità degli uomini e di Dio. Perciò la domanda di uno degli scribi, che troviamo oggi nella liturgia e sembra suggerita dalla ricerca sincera della verità – come era stata la domanda del ricco al capitolo 10 – a cui Gesù risponde con grande attenzione, ha altrettanto grande rilievo nel Vangelo. La risposta di Gesù è fondamentale per la vita religiosa dell’uomo, domanda attenzione adeguata al rapporto tra religione e morale, alla condotta individuale e sociale: alla luce del suo insegnamento possiamo vivere un rapporto armonioso fra condotta morale e religiosa.
La domanda sul più grande tra i comandamenti era frequente tra gli ebrei, soprattutto per il moltiplicarsi delle regole di comportamento tanto numerose da soffocare l’uomo desideroso del rapporto con Dio, al punto da indurlo a domandare una sintesi possibile da ricordare e da praticare, un riassunto concreto. Per questo il celebre dottore della legge Hillel, prima di Cristo, proponeva la regola d’oro: “Ciò che dispiace a te, non farlo agli altri: questa è tutta la Torà; il resto è interpretazione”. L’attenzione al prossimo aveva dunque una tradizione nell’ebraismo.
Ma qui Marco ci induce a moltiplicare l’attenzione: è Gesù che opera la saldatura tra amore di Dio e del prossimo. La sua persona divina si esprime attraverso la sua umanità. Egli parla con sicurezza ed autorità, che si direbbe solenne: come di chi è il “Logos”, la Parola che si dice rivelandosi nella sua persona, mette insieme due brani della Bibbia, che, nel Pentateuco si trovavano in due libri diversi. Il primo, nel capitolo 6 del Deuteronomio, è l’inizio dello “Shemà” – parola che significa “ascolta!”; è la professione di fede monoteista che gli ebrei osservanti recitavano al mattino e alla sera. È una professione di fede che invita all’impegno di servire il Signore praticamente, con una misura di coinvolgimento della persona intera. Il termine “tutto”, ripetuto, fa capire che il rapporto con Dio è un rapporto che ha l’unicità dell’assoluto. Ma esso prende tutta la persona, ha una “carnalità” (parola che il dialetto napoletano esprime con il termine “amore carnale”) che ha la sua analogia nell’amore filiale, espresso nel Deuteronomio, e in quello coniugale del profeta Osea. Marco mette sulla bocca di Gesù anche “con tutta la tua mente”, come per sottolineare l’importanza e la forza dell’intelletto per crescere nella conoscenza di Dio e nella comunione con Lui. È un invito alla “responsabilizzazione degli intellettuali”: mettere Dio al primo posto significa mettere al servizio del prossimo intelligenza, conoscenza, cultura. Oggi a Napoli non basta il culto: se sei insegnante, imprenditore, professionista, domandati quale è la causa del degrado della nostra città e rendi visibile con l’impegno il primo posto che dai al Signore nella tua vita.
Gesù definisce “primo” l’impegno per l’amore di Dio, ma gli collega subito il “secondo” con il passo tratto dal Levitico, quello dell’amore del prossimo (Lev.19,18). Nell’Antico Testamento si considerava “prossimo” il correligionario, poi anche lo “straniero” che veniva ad abitare in Israele, in particolare quando faceva propria la fede ebraica (“i proseliti”); più raramente prossimo indica tutti gli uomini. Gesù prelude un chiaro atteggiamento universalistico – che in Luca è descritto nella figura del Samaritano – chiedendo ai suoi di prendersi cura di chi è nel bisogno, indipendentemente da popolo o religione di appartenenza. Nell’amore al prossimo indica la verifica dell’amore a Dio: altrimenti il culto è solo devozione.
Si direbbe che il discorso è così diretto da non chiedere interpretazioni. È il punto centrale della dottrina di Gesù. Collocando l’episodio alla fine dei dialoghi di Gerusalemme, Marco accentua la significatività dell’amore di Dio e del prossimo, secondario anche al culto, al Tempio, e li presenta come sintesi dell’insegnamento religioso ed etico di Gesù, colto da Agostino nell’esortazione: “Ama e basta!”
L’atteggiamento dello scriba che ascolta con attenzione e accoglie la superiorità di questo amore unico, centrato in Dio e manifestato nella relazione sociale, riceve riconoscimento e lode dal Signore. Marco sembra dare un incoraggiamento alla presenza sociale dei cristiani e un invito “ecumenico “ a scoprire quanti si aprono all’insegnamento di Gesù, come aveva fatto al capitolo 9, esortando i discepoli a non proibire di fare miracoli a chi non “era dei nostri”. E invita allo stile di Gesù, che è quello della gratuità: il prossimo si ama realmente se si dà anche la vita.
Nel 1957, anno difficile per l’Europa, dopo i fatti di Ungheria, difficile per l’Italia coinvolta sempre in mille beghe politiche, Igino Giordani, intellettuale e politico italiano, prima perseguitato dal fascismo e poi attivo all’interno della Democrazia Cristiana, scriveva così:
“Ho provato per decenni, senza scoraggiarmi, e riprendendo sempre alle origini, a donarmi a persone e a istituzioni, a ideali e servizi; e mi è parso di donarmi come consacrandomi, senza risparmio, in gioia. Ora mi pare, rivoltandomi indietro, di aver fatto una semina di fallimenti, una raccolta di sconoscenze, come se persone e cose, una dopo l’altra, mi abbiano sfruttato e deluso. Tutte han preso, poche han dato. Capisco e non mi stupisco. L’errore è di attendesi il ricambio dagli uomini, mentre esso viene da Dio. E Dio non mi ha deluso: mi alimenta quotidianamente il cuore di un giovane amore, pronto a ricominciare da principio. Non ho scritto più volte che servendo il fratello si serve il Padre? Che Dio si ama amando il prossimo? L’esperienza conferma la lezione, la quale è questa: che cose e persone si amano, non per sé, e meno ancora per me, ma per Idio. E Dio dà il centuplo in questa vita e la beatitudine nell’altra. È ciò che Dio sta facendo.” (Diario di fuoco,15-11-1956)
Forse è qui la chiave per dare spessore concreto alla parola del Vescovo: “ma Dio non ha voltato le spalle a Napoli”!
“Ascolta Israele…”
Gesù riconduce il comandamento e la sua osservanza alla relazione personale con Dio. Egli, il Signore, è il “filo d’oro” che lega la creazione con le iniziative che lo rivelano presente nella storia e con l’alleanza che propone al cuore di ogni uomo e va intesa come appartenenza nuziale. È Dio che ha scelto la storia e sceglie le singole persone e comunica se stesso attraverso di esse. I credenti non sono tali per il culto di un codice di leggi, ma sono quelli che credono nell’unicità, nella fedeltà, nella misericordia di Lui. Perciò il primo loro atteggiamento, domandato nella preghiera quotidiana ed attuato nei comportamenti con docilità ed umiltà, è l’ascolto; come di colui che sa di essere stato creato ed eletto, che perciò non inizia a parlare con Dio ma lo ascia parlare in sé, nell’intimo, perché il suo Spirito scriva le parole di Lui nella coscienza, generando comportamenti che corrispondano al suo amore.
Gesù introduce una nota di tenerezza, quasi come un’implorazione in quell’”ascolta!”. Gli ebrei pregavano due volte al giorno lo “shemà”, l’invito ad ascoltare, ma Gesù sembra andare oltre quella formula per dire ”ascoltami perché io ti voglio bene e ascoltami con l’udito di chi ama”. Sembra dire che non si possono amare due tavole di pietra, sia pure con le parole del Decalogo incise, non si può vivere per esse. Dice che la risposta all’attesa di Dio è l’amore. “Con tutto il cuore” significa con tutto l’essere, con le emozioni e con la razionalità, con tutto quello che fa vivere. È questa totalità di appartenenza la radice della libertà che attrae e armonizza tutto il desiderio di bellezza, di bontà, di gratuità che sta nel cuore umano con la concretezza della vita, trasformandola in un cammino di ritorno all’amore che la ha preceduta. È la bellezza dei santi.
Se la prima parola che Dio dice alla creatura è il gesto di darle la vita, nel desiderio che sia luogo in cui la Parola possa rivelarsi facendola vivere “ad immagine e somiglianza” di Lui, non significa una replica di Lui, ma che è interlocutrice libera di scegliere o di rifiutarsi alla relazione. Allora Dio non appare come un incubo che opprime e costringe a proprio piacimento, ma un amore che rispetta la sua creatura ed è disponibile all’attesa paziente della sua maturazione di pensare e amare quello che vale. Così nel 1300 Maestro Eckart scriveva: “Dio non fa altro che questo, tutto il giorno: sta sul lettuccio della partoriente e genera”.
All’inizio di questo tempo che, nell’intenzione della Chiesa nel mondo, vuole essere un tempo di riscoperta del modo in cui viviamo la fede, comprendiamo in questa pagina del vangelo di Marco che il comandamento fondamentale della reciprocità nella relazione con Dio non è la ritualità, ma il riconoscimento di Lui come di colui che dona la vita. In questo riconoscimento è impegnata la persona umana in tutte le sue qualità più alte: il pensiero, il cuore, la volontà. Tutto, nel credente, diventa tensione e motivo di gratitudine e di fiducia per Chi è l’iniziatore nel rapporto. Tutto è nella trepidazione di restare fedeli ad esso in quello che la Scrittura e la tradizione ebraica e cristiana chiamano “timore di Dio”, che è desiderio di non venir meno agli appuntamenti dell’amore, nel pensare, nell’amare, nell’agire, che è tutt’altra cosa dalla paura di Dio!
Non si tratta di un atteggiamento emotivo.
L’amore che è Dio, natura di Lui che si comunica, è il principio di ogni giustizia delle cose e tra le persone. Il “timore di Dio” è la trepidazione di non offendere questa giustizia del creato che Dio ama e di cui domanda ragione a chi schiaccia il debole e sfregia la sua opera. Non basta “sentirsi bene con Dio”. Bisogna “essere buoni” con gli uomini. Amore di Dio significa passione per la sua giustizia e rispetto e giustizia per l’uomo. Perciò il secondo grande comandamento è simile al primo; amore e timore sono come due facce dell’unico amore dell’unico Dio. Sono l’espressione della fede autentica.