Solennità di Tutti i Santi – Anno B
(Ap 7,2-4.9-14; Sal.23; 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12)
La festività di tutti i Santi è una celebrazione molto antica, sorta quando la Chiesa, dopo le persecuzioni, sentì il bisogno di dire, nella liturgia solenne, la gratitudine al Signore per aver comunicato a tanti nostri fratelli la sua santità.
Nei primi tempi la testimonianza era stata prevalentemente quella dei martiri (martire, in greco, significa testimone), che avevano dato la loro vita al Signore fino al dono del sangue. Ma poi la Chiesa si è resa conto che vi sono altre possibilità di testimonianza radicale, quella dei Vescovi, dei sacerdoti, delle vergini, degli sposati, dei bambini, dei militari, dei politici. Il Vangelo tocca ogni sfaccettatura del vivere umano: non c’è esperienza umana che non possa essere raggiunta dal lieto annuncio del Dio con noi. Nella persona di Gesù ogni uomo, toccato da lui, può diventare santo e la Chiesa esulta.
Oggi contempliamo la molteplicità delle sfumature della santità che confluiscono nel diamante immenso del Paradiso. L’Apostolo Giovanni, nel libro dell’Apocalisse, la vede nella moltitudine sterminata che ha seguito Gesù nell’obbedienza al Padre, vivendola nella quotidianità responsabile, anche se a volte essa sembra priva di senso. Nella seconda lettura Giovanni collega questo futuro al nostro presente. “Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio” egli dice: lo siamo nel tempo della vita come dinamismo spirituale in cui la fede ci aiuta a crescere nel progetto di Dio. All’inizio è il dono dell’amore gratuito di Dio, che fonda la nostra relazione con il Padre, nella persona di Cristo premurosa, orante, provvidente. La santità è la libera accettazione, da parte dell’uomo, di questo dono, di questa proposta di santità. La libertà è facoltà e rischio permanente per l’uomo, cui è sempre aperta la possibilità della povertà personale e della solitudine.
Nella sua lettera Giovanni ci rassicura dicendoci che anche se corriamo questo rischio siamo realmente figli di Dio. La povertà del presente non cancella il dono di Gesù che un giorno ci permetterà di vederlo “così come egli è”. Ma questa manifestazione di Dio nel futuro è già qui, oggi, nella storia umana dei fratelli e delle sorelle che chiamiamo santi perché hanno creduto e si sono impadroniti dell’amore di Dio. Guardando loro ci rendiamo conto di quello che Giovanni, il cantore della promessa del Signore, intende dicendo che realmente siamo figli di Dio. Ci aiuta a comprendere questa realtà il Salmo 24, che abbiamo letto: “Chi salirà il monte del Signore? … Chi ha mani innocenti – agisce, cioè giustamente – e cuore puro – agisce all’esterno così come è nell’interiorità del suo cuore – chi non pronunzia menzogna – è nella sua vita come nella sua parola …”.Non si tratta qui di un elenco moraleggiante, è l’annuncio che il futuro è già qui, nel presente di quanti accolgono e vivono l’amore.
Questo è l’annuncio che il Signore ci dà nelle Beatitudini: ora sono beati i poveri di spirito, ora i perseguitati per la giustizia … Beatitudine è la pace che viene all’uomo inserito nell’amore della Trinità. Troviamo qui l’invito ad una meditazione profonda sul cammino della nostra storia personale, la risposta alla domanda sul senso della vita: chi sono, da dove vengo, dove vado, che faccio…? Che senso ha la storia della comunità umana che sembra avvolgersi su se stessa? Quale è il punto verso cui andiamo? Andiamo verso il giorno indicato dallo Spirito, giorno della realizzazione piena della beatitudine, pienezza per tutto l’uomo, per tutto il cosmo. È il giorno in cui percepiremo l’energia che ci viene dalla schiera numerosa dei santi. Comprendiamo così la ragione di tutte le canonizzazioni e beatificazioni pronunciate da Giovanni Paolo II: sono fratelli e sorelle di ogni razza, di ogni luogo, sono numerosi e diversi, sono creativi, perché nessuno di loro ha detto: “Per me è impossibile essere santo!” Il loro cuore immerso in Dio li ha resi capaci di conoscere la verità dell’uomo, di conoscere il destino dell’umanità e quindi di intercedere per noi, di aiutarci. Il popolo cristiano sa di poter contare su di loro in maniera personale. Questa è la Comunione dei Santi.
Chiediamo al Signore di raggiungere questo giorno in cui tutto in noi sia pieno di Spirito Santo, chiediamo di riuscire sempre meglio a credere nell’amore e a vivere in esso.
Amen!
“Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre”
Queste parole ci vengono in aiuto per comprendere la profondità della celebrazione e coglierne il contenuto. Cominciate a guardare, oggi, nel presente! È questa l’intenzione della liturgia di tutti i santi.
Guardiamo intensamente a quello che il Signore Risorto concede di contemplare a Giovanni apostolo, autore del libro dell’Apocalisse, per poterlo trasmettere alle generazioni di cristiani di ogni tempo, come ultime parole di Dio.
Giovanni vede, ripetutamente, per grazia particolarissima, nell’esilio di Patmos, come una serie di quadri che si confermano reciprocamente. Vede come un luogo il Paradiso di Dio, anche se il Paradiso non può dirsi un luogo, ma piuttosto una condizione di vita di Dio con l’umanità e dell’umanità con Dio, eternità senza luci né tempo, perché condizione di luce perenne. Vede persone e persone, una grande folla che si può riconoscere e numerare; hanno un segno di appartenenza al Signore, sono figli di Israele, sono centoquarantaquattromila. È un numero, ma all’ennesima potenza simbolica: dodici – il numero delle tribù di Israele, degli apostoli – moltiplicato per dodici e per mille! … È una partecipazione grandissima: sono coloro che portano il segno dell’Agnello. Ed ecco il quadro successivo: “una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo, lingua”. Il dono di Dio è dato a tutta l’umanità
Giovanni, nella luce della visione, vede che questa folla immensa, che pure è passata per la grande tribolazione della violenza, della morte, è fatta di persone vive: “tutti stavano in piedi, avvolti in vesti candide e palme nella mano, e cantavano”, in atteggiamento di estrema vitalità. Per conseguenza di quanto ha visto, scrive ai primi cristiani: “noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato… saremo simili a Lui, lo vedremo così come egli è!”. Il Paradiso non è il luogo dell’appagamento di quello che non si è avuto sulla terra, ma è condizione di vita grata e riconoscente, dove chiamiamo Dio “papà”.
Giovanni, nell’Apocalisse, vede anche la possibilità dello “stagno di fuoco”, destinato alla morte e agli inferi. Ma quello che racconta di aver visto e affida alla memoria riconoscente e gioiosa dei cristiani – quasi manifestando la fiducia che quello stagno possa rivelarsi inutile e vuoto – è che il Paradiso è la patria a cui tutti gli uomini sono chiamati e giungeranno, perché per tutti Gesù è morto ed è risorto, e con tutti vuole vivere la sua pienezza di vita. La descrizione di Giovanni è perciò la radice della nostra speranza, la sorgente che dà forza per il cammino di fede.
I primi cristiani hanno imparato a cercare la forza per alimentare la speranza e per sentirsi sostenuti nella fatica della vita e della fede, custodendo la memoria di quelli che sentivano vivi davanti a Dio perché fedeli e testimoni di Gesù, fino al martirio. Hanno capito che la “comunione dei Santi” lega i credenti con Gesù Risorto e tra loro, al di là dei meriti…
C’è stata quasi una inversione di tendenza: a Roma i cimiteri erano lontani dalle città, come accade oggi nei grandi centri urbani. I primi cristiani hanno desiderato persino di essere sepolti nei luoghi dell’Eucarestia, e dei corpi dei morti, posti sotto gli altari, accanto ai santi noti e a quelli anonimi, per non sentirsi soli nella morte. Come per dire al Signore: “Non vengo da solo, sarei troppo povero per arrivare a Te. Vengo nella comunione dei santi e, con loro che sono vivi in Te, non ho paura”. E neppure soli nella vita, perché l’insieme unisce. Questo continua ad essere vero anche oggi, dove si vive uniti nel nome di Gesù e ci si ama reciprocamente. Quest’estate ho trascorso dei giorni in Svizzera, dai Cappuccini, dove le tombe erano accanto al convento. Uno di loro era morto da pochi mesi, ma i confratelli dicevano di continuare a pregare, a riunirsi insieme a lui.
Perciò i cimiteri cristiani non sono le grandi città dei morti, frutti dell’urbanizzazione, ma dei giardini, luoghi di pace nel mondo senza pace, piccoli paradisi, luoghi di speranza, che resta viva anche nella sofferenza della separazione e del lutto. Così erano i piccoli cimiteri parrocchiali, fino alle leggi napoleoniche.
Non dovrebbe tramontare il sole tra il giorno dei santi e quello dei morti: sono un solo giorno! Perché la morte senza Paradiso è la disperazione, il Paradiso senza quelli che “sono passati attraverso la grande tribolazione”, una favola.
Nella tensione tra il già dell’Apocalisse reale e il non ancora del cammino di fede, chi accoglie il dono del Risorto si impegna a camminare nella speranza per crescere in quella qualità di vita che gli permetterà di stare con il Signore per sempre. È la coscienza della vocazione alla santità. Perciò è vigilante perché le sue vesti siano costantemente purificate dall’amore di Cristo, crocefisso e risorto, tanto da poter dire come Paolo: “per me vivere è Cristo” (Fil.1,21)
Ma non gli basta la vigilanza sul negativo da evitare, perché essere “come Lui è” comporta vivere come Lui, e Lui è amore che si comunica e questo impegna come atteggiamento di fondo nella tensione per l’amore scambievole: perciò le beatitudini.
Esorta s. Ambrogio:
“ Lava la tua veste, entra nella città… dove Dio ha la sua tenda… dove non sono il sole e la luna a dare luce; ma il Signore stesso è la luce che illumina tutta la città: è infatti ‘la luce del mondo’”
(Ambrogio; ep,29,20)
Finché il Signore non ci dirà:
“Ora basta volerci bene da lontano, vieni a volerci bene da vicino!”.
“Oggi ci dai la gioia di contemplare la città del cielo”
È una liturgia di contemplazione quella che la Chiesa propone, alimentando nei credenti il ricordo e il desiderio.
“La moltitudine immensa”, che l’Apocalisse mostra nello sguardo attento di Giovanni, è la porzione di Chiesa in cui il dono della fede ha raggiunto il suo scopo, la sua maturità, conoscere Dio in modo diretto, non nell’oscurità della fede, ma “faccia a faccia”. Il battesimo ha pienamente realizzato in loro la somiglianza con Gesù, il primo tra i figli di Dio, il modello e il realizzatore della santità partecipata agli uomini. La moltitudine appare “in piedi”, in un rapporto di intimità, condivisione e riconoscenza verso l’Agnello. I fratelli, che pensiamo distesi nella tomba, sono in realtà viventi: “In piedi” significa viventi e lo si è per l’appartenenza a Lui, primo testimone, seguito sulla strada dell’incomprensione e del rifiuto – che il testo indica con “la grande tribolazione” – lasciandosi purificare dal suo amore.
Questo rapporto con Gesù è la santità cristiana ed oggi la liturgia ci dona la possibilità di contemplarla. Un rapporto in cui ognuno ha la sua storia, la sua sintesi, che perciò comporta strade diverse e manifestazioni personalissime per l’irripetibilità di ogni vita umana. Non c’è niente nella creazione che possa considerarsi totalmente uguale ad altro: in questa moltitudine, nell’unità del fine, Cristo Signore, c’è un varietà infinita di realizzazioni. La Chiesa dichiara ufficialmente santi alcuni, ma non dice che siano i più santi: questo solo Dio lo sa. Nell’infinita varietà dei doni dello Spirito, il criterio unico che definisce la santità cristiana è la carità, vissuta in ogni forma di vita: nell’amore del missionario, nel silenzio dei contemplativi, nella donazione reciproca degli sposi, nella gratuità di servizio delle persone vergini, nel rischio incessante di chi subisce persecuzioni, nella perseveranza di chi sceglie il bene comune come principio ispiratore della vita. Tutti sono segnati dall’appartenenza a Cristo, di cui fanno proprio lo stile di vita povero, mite, misericordioso, assetato di verità e giustizia, puro di cuore, operatore della pace, perseguitato per il vangelo. Il suo popolo è il popolo delle beatitudini.
Sono popolo, perché la santità cristiana non si manifesta come elitaria e perfezionistica, ma come santità collettiva di popolo, di gente che si fida di Dio, ne compie i desideri, nella fedeltà a Gesù, che, per primo ha vissuto le beatitudini. Un popolo che sa dirsi, in modo concreto e personale: “voglio pensare e agire come Gesù ha pensato e agito” e rende testimonianza di Lui nella gratuità e nella reciprocità dei rapporti fraterni. In questo modo la santità cristiana non è oppressa dalla preoccupazione della bravura personale, non è frutto dell’impegno individualistico, ma punta al dono della presenza di Gesù stesso, crocefisso e risorto, Lui che è il Santo in mezzo a noi, che si rende presente tra i suoi, in continuazione del suo cammino con gli uomini, in sempre nuove manifestazioni.
Perciò dei santi è detto che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti nel sangue dell’Agnello: seguire Gesù in tutta la propria vita è per i santi proposito tenace e impegno costante. C’è un legame stretto tra santità e sangue, tra beatitudini e sofferenza, perché la santità è quella di Cristo stesso che la dona a quanti lo seguono fedelmente.
Oggi, nella preghiera contemplativa, scopriamo con stupore che le cicatrici del Crocefisso Risorto risplendono per sempre e rendono “gloriose” quelle di quanti chiamiamo santi, facendone come dei fari che orientano e illuminano la storia che Dio porta avanti. Così, nelle nostre famiglie e nei luoghi più vari del mondo: chi ha il cuore più limpido vede più lontano e indica la strada, chi ha molto pianto diventa sorgente di conforto, chi è calpestato fiorisce come testimone di giustizia, chi è vittima di violenza si prodiga per operare la pace, chi ha avuto molta necessità di essere perdonato si spende per riconciliare. Non dimentichiamo di ringraziare il Signore per le cicatrici che portiamo.
Fatiche, speranze, lacrime, tutto il nostro pane quotidiano, tutto è glorioso! Nella folla dei candidati alle beatitudini ci siamo tutti: i poveri, i malati, i soli, quelli che hanno perduto il senso della vita, i falliti; e quelli che si sforzano di custodire lo sguardo puro, l’occhio buono, senza smanie di possesso delle persone e delle cose, i medici nella loro lotta contro il male, gli insegnanti nella loro fatica, i politici nella ricerca del bene comune, i tecnici, gli operai… tutti quelli che sanno entrare con rispetto nel cuore degli altri. Ognuno ha la propria strada ed un’unica santità, quella di Cristo, che continua a proporsi all’umanità nell’umile vita dei suoi discepoli, in una “cronaca bianca” che è fonte di energie, di speranza, di emulazione per tutti ed è segno già presente, nella durezza della storia, della ricapitolazione in sé di tutte le cose (Ef.1,10), che il Signore Risorto porta a compimento nella casa del Padre suo e nostro.
“Oggi ci dai la gioia di contemplare la città del cielo”
Le parole dell’introduzione alla preghiera eucaristica si esprimono in questi termini. È una gioia che scaturisce dalla certezza della fede e si alimenta di desiderio.
La sosta contemplativa della comunità cristiana, basata sulla visione di Giovanni nell’Apocalisse, va oltre le idee che accompagnano le figure dei santi nell’immaginario collettivo, oltre le deformazioni che frequentemente l’arte devozionale trasmette in modo leggendario e fantasioso. Chi sono i fratelli e le sorelle che chiamiamo “santi”?
La santità è il compimento del progetto di Dio per ciascun uomo. È il fine di chi, credendo a Gesù che ha mostrato la strada con la propria obbedienza di fede, si è lasciato trasformare dalla grazia dello Spirito Santo in immagine viva e credibile di Lui. Il fine raggiunto di chi ha desiderato vivere in corrispondenza a quello che interiormente gli è stato domandato per il bene della Chiesa e della società. È un’imitazione di Cristo, attuata con fedeltà e pazienza. “Questi sono quelli che vengono dalla grande tribolazione – dice Giovanni della moltitudine immensa – Hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello”.
La santità è perciò il frutto di un rapporto forte con Gesù morto e risorto, questa è la sua autenticità cristiana. Ognuno di quelli che chiamiamo “santi” ha la sua storia, la sua fisionomia interiore, la sua parola evangelica da incarnare in opere che la mostrino come “parola buona”, Vangelo per tutti. Le loro strade non sono identiche perché ogni uomo è un irripetibile dono di Dio al creato, sempre nuovo: perciò sono insieme, ma non in modo uniforme. Così la santità dei discepoli di Gesù nella storia è come un vangelo “dispiegato nei secoli” (Chiara Lubich), che può essere letto in ogni particolare nelle loro vite e nelle loro opere.
Ma la diversità di vocazione non significa possibilità di essere santi per vie che non siano quelle che Gesù ha proclamato e vissuto personalmente fino alla croce. Perciò loro è la via delle beatitudini. Nessuno può pensare di camminare in santità se non si fida di Dio, ascoltandone e vivendone la Parola, come Abramo, come Maria. Né può esserlo se è violento e senza misericordia, se si ritiene saziato dal possesso del danaro, se non sa vivere in cuore la rettitudine e coltivare l’amicizia con Dio e con i fratelli; se non assume le proprie responsabilità, quando è necessario, per il bene comune della società e della Chiesa.
Ma c’è un criterio unico che determina e definisce la santità cristiana, ed è la carità. Questo amore è diversamente esprimibile, può suscitare storie meravigliose e irripetibili, perché uniche sono le persone, e tuttavia è un amore che armonizza le caratteristiche differenti dei singoli, rendendole splendide non solo in quello che si fa, ma in quello che si è. Ed è la qualità cristiana della vita,
Così quelli che sono poveri in spirito, afflitti, miti, giusti, sono anche misericordiosi, puri di cuore, portatori di pace, incompresi e perseguitati. È una luce che dice il Vangelo della felicità a cui ogni uomo aspira. La parola “beati” premessa ad espressioni che dicono dolori, limiti, sofferenze, aiuta a relativizzare il presente, perché non è qui la dimora permanente, la patria dei figli di Dio; perciò i verbi della felicità sono al futuro. E, nello stesso tempo, la beatitudine spinge ad un amore vero per la terra e per il presente che Dio ci fa vivere, perché in essi il cristiano è già chiamato a rendere visibile la verità della beatitudine che annuncia. Tutti abbiamo nostalgia di qualità alta della vita, tutti siamo stanchi di una mediocrità che annoia e avvilisce nel suo non senso. Vivere il presente, il nostro personale e faticoso quotidiano, con amore, coinvolgendo quanti in qualche maniera ci appartengono, è dare spazio alla qualità della vita ed è santità non più relegata nel cantuccio del proprio perfezionismo, non intesa in senso individualistico, ma aperta ai fratelli desiderosi di respirare aria buona e pace nella fraternità. Una santità non di soli conventi, ma di popolo.
Così le beatitudini entrano nella vita concreta.
Quasi con una “nota di solennità”, la persona che vive bene il presente mostra una grandezza in sé che dice l’amore di Dio come fondamento di tutta l’esistenza e nello stesso tempo caratterizza in profondità ogni sua attività al punto di colorare tutto come una bellezza nuova.
È proprio in questa direzione che va coltivata la qualità alta che ci urge nel cuore.