Anno 1971
Battesimo – Quaresima
BATTESIMO DEL SIGNORE – Anno C
(Is 42,1-4.6-7; Sal. 103; At 10,34-38; Lc 3,15-16.21-22)
Festa del Battesimo di Gesù: abbiamo sentito dare questo titolo alla nostra celebrazione di questa domenica, ma immediatamente, credo, dobbiamo compiere lo sforzo di liberare la nostra mente dall’assimilare il battesimo di Gesù al nostro battesimo, al battesimo dei nostri bambini, per lo meno nel modo con cui, generalmente, siamo portati a pensarlo: un rito più o meno obbligatorio che si compie più o meno presto, dopo la nascita dei nostri bambini. Ci sarà un legame, certamente, tra il battesimo di Gesù ed il nostro batte situo ma non sarà di questo tipo. Spostando, quindi, la nostra idea dal rito del battesimo, cerchiamo di entrare veramente in quello che la Chiesa cerca di farci comprendere del mistero di Cristo, Questo Cristo che vive nella oscurità della famiglia di Nazareth la sua condizione umana fino a non manifestare affatto il mistero della sua persona. Di Lui certamente si potrà dire che è un bravo ragazzo, che è un bravo scolaro, che è un bravo apprendista, che è un bravo aiutante del Padre, ma niente di più; veramente uomo tra di noi colui che nell’intimità più affettuosa con Maria, Sua Madre, e con Giuseppe, che nella realtà della vita viveva nei confronti di Lui una vera. e trepidante paternità, avrà vissuto una realtà di vita, veramente fatto in tutto simile agli uomini. Ricorderete la frase del Vangelo: ‟cresceva in sapienza, in età, in grazia″. Di tutti questi anni non sappiamo nulla. Il Vangelo non ci ha dato particolari, se non quello che conosciamo della salita al Tempio di Gerusalemme, all’età di dodici anni, in cui già Cristo dà una di quelle risposte che fanno intravedere la linea della Sua vita. A Maria trepidante e addolorata per non averlo trovato nel giro di tre giorni, risponde: ‟Perché ti addolori, non sai che mi devo occupare delle cose del Padre mio?″
Il Cristo, dunque, che si reca al Giordano dove Giovanni battezza, è uomo tra gli uomini che va a compiere, nel suo stesso atteggiamento penitenziale, un gesto con il quale si riconosce uomo e bisognoso della grazia di ilo, vera mente mescolato a questa folla dì peccatori che nel lavacro dell’acqua che non è un lavacro sacramentale, nel lavacro dell’acqua vuole appunto significare di aver bisogno della grazia di Dio. Ed è, mentre realizza questo suo gesto penitenziale, che succede qualcosa di sconcertante, qualcosa che capovolge la situazione. Il Cristo che va a Dio per manifestargli l’esigenza di penitenza dell’umanità, viene come preso, viene come rapito da Dio e viene presentato da Dio all’umanità come il Suo servo, come il Suo inviato, e più ancora come il Suo figlio, come Dio stesso che ha preso carne in mezzo all’umanità.
Ed è in questo momento in cui il Padre interviene, con la Sua voce, dal Cielo sulle rive del Giordano, per dire che questo Cristo, questo uomo che si è mischiato agli altri uomini, è il Suo figlio. In quel momento in cui lo spirito di Dio scende addirittura visibilmente, sull’umanità di Cristo, si realizza l’incontro nuziale tra Dio e l’umanità, un incontro indissolubile, quell’incontro che era stato previsto dai profeti già da secoli lontani e che adesso comincia a realizzarsi. In quel momento l’umanità incomincia ad appartenere a Dio nel tempo.
In questo Figlio che si rende visibile, che viene a dare nella propria vita e nella propria missione la testimonianza di come si è figli e di come si possa essere l’oggetto della compiacenza del Padre, in questo Figlio gli uomini sono salvi, gli uomini non sono più soli. In questo Figlio viene data la possibilità all’umanità di rivolgersi al Dio inaccessibile e trascendente chiamandolo padre. S. Paolo dirà addirittura di poterlo chiamare con un nome ancora più dolce, se volessimo intendere la parola ‟Padre″ come un po’ generica e un po’ fredda, Cristo ci insegnerà a chiamarlo ‟Abba″ che vuol dire ‟Babbo″, che vuol dire ‟Papà″, che è qualche cosa, come una specificazione, più dolce dello stesso nome di padre. In Gesù, dunque, nella Sua persona, si compie il Mistero dell’amore di Dio e dell’incontro di Dio con l’umanità. È da questo momento che ogni persona che voglia, per la chiamata della Fede incontrare e realizzare il suo disegno nella propria esistenza, ogni persona che voglia farlo, deve incontrare Gesù. Deve incontrarlo non soltanto come uno che sta lì e una volta per tutte storicamente ci ha dato la possibilità di rivolgerci a Dio, ma deve incontrarlo come uno che occorre rivivere, cui essere unito in una profonda unità di pensiero e di esistenza, perché su di sé si possa realizzare quella stessa compiacenza che si va realizzando su Gesù.
Dal momento che l’incontro di Dio con l’umanità si realizza nella persona e nell’obbedienza di Gesù, nel modo con cui Gesù si mette davanti a Dio, da questo momento questa obbedienza, questo modo di mettersi davanti a Dio, passano in coloro che con Gesù sono chiamati alla stessa vocazione di vivere nell’eternità beata di Dio.
Di qui, fratelli miei, il battesimo di Gesù diventa esemplare del nostro battesimo.
Io spero che questa riflessione non sia troppo lunga per le nostre anime, troppo difficile da seguire, ma bisogna che noi facciamo un discorso che non sia soltanto un discorso moraleggiante, cioè il discorso che ci faccia dire: ‟Il battesimo ci impegna ad essere cosi, cosi e cosi, perché ogni giorno dobbiamo cominciare ad essere cosi, cosi e cosi.″ L’abbiamo detto già nelle domeniche precedenti, nelle feste della Natività. Il Signore non è venuto a cercare delle brave persone, il Signore non è venuto per fare di noi dei perfetti nel senso morale della parola, il Signore è venuto per fare dell’umanità il suo Figlio e per questo ci ha dato Gesù, perché dall’unità con Lui noi possiamo diventare il Suo popolo, la continuità della Sua persona, della Sua missione, della Sua prolificazione del Padre. Ma questo non ci può bastare per comportarci bene. La nostra vocazione non è essere delle brave persone, la nostra vocazione è ad essere Gesù ed ora l’atteggiamento di obbedienza, l’atteggiamento di umiltà, l’atteggiamento di ascolto del Padre, l’atteggiamento di compimento della Sua volontà nell’annunciare la buona novella ai poveri, deve passare in noi proprio perché chiamati a queste vocazione ad essere il Cristo spiegato nel tempo che compie la Sua missione di evangelizzazione dei poveri, di salvezza dell’umanità. Ed allora è bello rileggere quello che il Profeta Isaia ci ha fatto sentire del servo Ihavè, che è detto di Gesù, ma per il fatto che è detto di Gesù, è detto anche del Suo Corpo Mistico, della Chiesa, cioè di noi: ‟Ecco il mio servo; ho posto il mio spirito su di lui; egli proclamerà il diritto alle nazioni, non griderà né farà chiasso, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino; ma con fermezza proclamerà il diritto, non verrà meno né si ……. finché non avrà stabilito il diritto sulla terra.
La vocazione ad essere non soltanto di Cristo, la vocazione ad essere Cristo che ci è stata data nel battesimo e di cui ci viene data la possibilità nell’Eucarestia che celebriamo quando, mangiandolo e bevendolo, ci è data la possibilità di avere nuovi sensi, nuova esistenza che sono i sensi del Cristo stesso, l’esistenza del Cristo stesso, per cui alla nostra povera vita è data la possibilità di essere il figlio di Dio eletto, chiamato per essere il segno del Suo amore per l’uomo.
Questa chiamata, dunque, fratelli miei, dobbiamo aiutarci a viverla, aiutarci con la preghiera e non è casualmente che Luca, l’Evangelista, dice che lo spirito scende su Cristo mentre prega. E per questo dobbiamo fare in modo che le nostre adunanze di preghiera siano sempre più veramente tali.
Adunanze di tale preghiera che lo Spirito di Dio possa inondarle sempre della Sua presenza e aiutarci attraverso quella carità scambievole che ci permetta di essere in continuazione il Corpo di Cristo, il corpo cioè di coloro che, essendo uniti nel Suo nome, lo rendono umilmente ma chiaramente presente perché possa continuare la Sua missione.
Oggi vogliamo riflettere su questo e pregare.
III DOMENICA T.O. – Anno C
(Ne 8,2-4.5-6.8-10; Sal. 18; 1Cor 12,12-30; Lc 1,1-4; 4,14-21)
Oggi, radunati intorno all’Altare del Signore per prendere coscienza, nella parola e nella grazia, di questa vocazione ad essere il popolo di Dio; un corpo solo, quella realtà che Dio aveva promesso all’umanità da secoli e secoli attraverso la voce dei profeti, attraverso l’attesa dei patriarchi e che Cristo è venuto ad inaugurare ed a rendere possibile. “Sappiate = diceva alla sinagoga che l’ascoltava = che oggi la promessa di Dio si è realizzata”. Dopo di Cristo dunque non bisogna più cercare, non bi sogna pii attendere una nuova parola, ma bisogna accogliere la parola che Dio stesso ci ha rivelato in Cristo. Accogliere questo Cristo che è la manifestazione del disegno di Dio, per realizzare la parola, per realizzare Lui, Cristo. Ed ecco che noi, come S. Paolo ci ha spiegato, siamo molti, siamo diversi, ma siamo chiamati proprio per questo nella Comunità dei credenti per realizzare la parola di Dio viva che è il Cristo. Questo Cristo totale che è Colui che ricapitola in sé tutta la creazione, questo Cristo totale che è il figlio del quale il Padre dei Cieli si compiace, questo Cristo totale che dovrà come prendere in sé, nella Sua glorificazione eterna, tutta l’umanità ed a Cui noi, per la grazia della fede che ci è stata data nel battesimo e per la grazia della vita che ci viene data nel l’Eucarestia, potremo, non soltanto nel futuro, ma possiamo oggi partecipare; fino al punto che, se veramente questa fede e questa grazia sono vitali in noi, cioè se il Cristo veramente può vivere in noi attraverso la Sua parola ed attraverso la Sua stessa vita, allora noi siamo il Cristo, noi siamo il figlio di Dio. Ed è per questo che la salvezza è già cominciata, per questo che la vita di Dio in noi è già iniziata, per questo che la promessa dei secoli passati è già compiuta, come Gesù ha detto nella sinagoga che Lo ascoltava quel sabato lontano. Tutto il problema, dunque, fratelli miei, è dell’accoglienza della parola di Dio viva che è Cristo. Per questo mi piace tanto la pagina che abbiamo letto, anche se apparentemente un po’ strana, in Neemia che racconta come il popolo che ritornava dall’esilio babilonese, nel momento in cui si ristrutturava, sentì il bisogno di raccogliersi intorno al libro sacro, per ascoltare la parola di Dio e per rinnovare l’alleanza in base a questa parola, assumendo questa parola non come un fatto intellettuale da pensare a da studiare per poi ricavarne dei punti, ma come la stessa rivelazione di Dio, per cui il popolo sentiva di poter incontrare Dio in quella parola e per questo si rendeva disponibile all’ascolto. Vi dico la verità: mi piace tanto questa pagina, mi piace per l’atteggiamento del popolo che sta ad ascoltare la lettura che il Sacerdote fa per ore ed ore, senza stancarsi, perché nella fede crede al valore di quella parola. Mi piace l’attenzione di questo popolo; veramente in questo popolo esiste una consapevolezza che la propria esistenza intanto sarà valida in quanto l’alleanza che viene resa possibile con Dio attraverso l’accoglimento di quella parola, in quanto l’alleanza sarà realizzata. Mi piace la disponibilità di questo popolo che, di fronte all’annunzio della verità, alza le mani per dire: “Amen! Amen!” “Sia cosi”, che dice il suo “si” con pienezza di adesione e di disponibilità. Mi piace il dolore di questo popolo che, scoprendosi peccatore, non realizzatore della parola e non fedele al patto, piange. Fratelli, chiamati ad essere popolo di Dio, il corpo vivo del Cristo, quel corpo che è vivificato dallo Spirito Santo, che è quindi realizzato quotidianamente dalla parola di Dio vivo che viene donata a noi, attraverso i sacramenti, io credo che noi dobbiamo stamattina specchiarci in questa pagina della Scrittura e domandarci quale sia il nostro atteggiamento di fronte alla parola di Dio. Verrebbe forte forte la tentazione di cominciare a studiare le sfumature di questa pagina, di capire come veramente certe nostre indolenzete, certe nostre negligenze, certi nostri ritardi, certo nostro star fermi a sostenere le colonne, certo nostro pensare ad altre cose, quel nostro stare un po’ dentro ed un po’ fuori, sotto le porte, mi sembra che siano già il segno di una mancanza di totalità, di adesione e di ascolto. Tante volte il nostro amen non si può pronunciare, il nostro “si” non lo si può dire, forse proprio perché manca questa parte umana di ascolto, di attenzione, come se non fossimo pienamente convinti che la Parola di Dio ci viene data per salvare le nostre vite. Ancora capita con grande frequenza, diciamoci la verità, di ascoltare con una specie di rassegnazione forzata la lettura della parola di Dio e dell’Omelia che tenta di spiegarla. Ancora ci mettiamo di fronte ad essa, non con l’umiltà di chi sente di doverla innanzi tutto accoglierla, ma forse con il giudizio, per cui a volte ci sentiamo disposti e lo facciamo, a volte non ci sentiamo disposti e non lo facciamo; se c’è quel sacerdote, lo facciamo, se non c’è quel sacerdote, non lo facciamo: cioè ci permettiamo di giudicare la parola di Dio a seconda delle nostre condizioni psicologiche, a seconda del nostro buono o cattivo umore, a seconda dei nostri gusti o disgusti. Questa è mancanza di fede. Ma al di là delle sfumature, io credo che stamattina, dobbiamo uscircene dalla celebrazione dell’Eucarestia, con la convinzione profonda che noi siamo vivi davanti a Dio per quanta parola di Dio è viva dentro di noi, che la nostra vita di fede e la nostra possibilità di essere corpo di Cristo, dipende proprio da questo nostro incontro che è personale e comunitario, nello stesso tempo, con la rivelazione di Dio. Di fronte a questo, fratelli miei, non ci sono né devozioni, né abitudini, né opere buone che tengano. Io credo che noi dobbiamo chiedere profondamente e personalmente coscienza di questa responsabilità. Non sì può essere cristiani, non si può essere altro “Cristo”, senza conoscere quello che, di Cristo, Dio ha detto; quello che di Dio Cristo ha detto; senza conoscerlo di quella conoscenza di riflessione, di meditazione, di preghiera e di sforzo di vita che fa veramente un cristiano.
Un cristiano non letterato cristianamente, ma un cristiano vivo, un cristiano operante, in cui viva ed operi Cristo stesso. Io credo che veramente dovremmo trovare lo spazio nella nostra vita per un incontro vero, per un’esperienza vera d’incontro con la parola di Dio. Io vorrei suggerire tante cose stamattina e non vorrei nello stesso tempo turbare le vostre anime, ma vorrei gridarVi: “Facciamo un’esperienza. Sospendiamo magari per un mese, per un anno, per quanto tempo volete; proprio come Comunità che prende coscienza di una realtà importante, sospendiamo tutte le pratiche di pietà a cui siamo abituati, impegnandoci soltanto a leggere una paginetta del Vangelo al giorno. Vorrei proporre ancora una volta a Voi di partecipare con responsabilità allo incontro del venerdì sera che teniamo in Parrocchia per accogliere nelle nostre anime quella parola che poi deve diventare la vita della nostra settimana: perché l’Eucarestia della domenica senza l’ascolto profondo e vero di questa parola è vuoto, è soltanto un rito e, dopo aver ricevuto la Comunione Eucaristica, noi torniamo fuori e siamo eguali a prima. Quella Comunione non ci dice niente perché non abbiamo accolto quello che deve preparare, quello che deve dare un contenuto a quella Comunione che è il messaggio, lo spirito del Cristo che si rivela nella tua parola.
Facciamo l’esperienza! Sarebbe meraviglioso!
Adesso che la chiesa ci dà tanti sussidi, è cosi facile avere un lezionario feriale, quello che porta la parola di Dio per tutta la chiesa per ogni giorno. Perché padri e madri di famiglia non cominciano a sperimentare di leggere la paginetta del Vangelo quando ci si ritrova a tavola per il pranzo o per la cena insieme, davanti ai figli, per spiegarsela magari un istante insieme, per potersi proporre come dover continuare la vita delle nostre famiglie, tante volte cosi lontana dal pensiero di Dio.
Tanti suggerimenti verrebbero,tanti propositi con i quali però io non voglio forzare le vostre anime; però vorrei concludere, oggi, proprio perché mi sembra che sia la necessità di questa nostra vita di comunità cristiana, vorrei concludere dicendovi: “Dobbiamo essere veramente convinti che siamo vivi cristianamente per quanta parola di Dio è viva in noi ed allora la preghiera al Cristo deve essere proprio che noi, nella convinzione di questa verità, siamo docili e che diciamo il nostro si con la gioia e con l’entusiasmo, con la pienezza con cui il popolo ebreo la diceva quel giorno davanti al sacerdote Esdra”.
VII DOMENICA T.O. – Anno C
(1Sam 26,2.7-9.12-13.22-23; Sal. 102; 1Cor 15,45-49; Lc 6,27-38)
Veramente le anime sentono, con immediatezza impressionante, che questa è la parola del Signore. Vogliamo accoglierla con tanta trepidazione e con tanta attenzione e per questo mi sembra di dover ancora fraternamente ricordare a tutti come sia importante che la liturgia sia la liturgia di tutto il popolo, come è veramente anche quella partecipazione fatta di attenzione, fatta di puntualità, fatta di partecipazione vera ai canti, per cui la Messa non è la Messa di un gruppo, ma di tutto il popolo.
La parola di Dio viene infatti per tutti perché la vita per ciascuno di noi sia da questa parola illuminata e modificata.
Oggi è l’ultima domenica di questo tempo cosiddetto di contemplazione; l’Epifania = ricordata = la manifestazione di Dio Iddio che si rivela, perché l’umanità possa, anche se nella propria povertà, conoscerlo cosi come Egli è ; Iddio che si rivela attraverso la voce dei profeti, attraverso le manifestazioni particolari che ritiene di dover fare di sé stesso durante la storia dell’umanità, Iddio che si rivela nella persona del Figlio Suo, incarnato. E tutto questo nostro tempo è stato tempo di illuminazione. La liturgia, di settimana in settimana, ci ha portato nell’approfondimento della conoscenza di Dio: Chi è, come pensa, come dice. Abbiamo scoperto che la conoscenza di Dio diventa vocazione per noi. Abbiamo scoperto che questa rivelazione di sé stesso diventa come una chiamata dentro ad essere come è Lui. E sta per cominciare quel tempo forte della Chiesa, il tempo della quaresima che comincerà = lo sapete tutti = con il giorno delle ceneri, il tempo che deve vedere tutto il nostro impegno responsabile di uomini che hanno preso coscienza di questa chiamata e che vogliono sinceramente e veramente rinnovare la propria vita, sicché la Pasqua ci trovi, con Cristo risorto, più fortemente, più realmente figli di Dio. La chiamata del cristiano, infatti, ad essere figlio come Gesù è figlio, non si realizza se non partendo da questo guardare in lato, ed oggi la liturgia ci invita, ancora una volta, a guardare in alto, a guardare la Misericordia del Padre.
Misericordia significa amore che trabocca, amore che va al di là della misura del giusto, del dovuto; significa misericordia che là dove è finito il diritto c’è sempre un qualche cosa in più ch’è questo amore per cui ti voglio bene al di là di qualsiasi risposta, al di là di qualsiasi merito o demerito, che mi spinge a continuare a volerti bene anche se tu hai infranto la giustizia, anche se tu hai pensato di pugnalarmi.
Cosi è l’amore di Dio per l’umanità.
In questi giorni, ed è un peccato che soltanto pochi lo possano fare, perché a pochi è data la possibilità di poter fare la liturgia nei giorni feriali, in questi giorni abbiamo riletto ogni mattina le grandi tappe del libro della Genesi; la creazione, il peccato, il perdono come nuova creazione, ancora il peccato; poi ancora il perdono, ancora il peccato. Veramente sembra una gara: da una parte l’umanità che si ribella e che cerca di realizzarsi in un autosufficienza senza Dio e dall’altra parte l’amore di Dio che ritenta sempre, ritenta sempre, ricomincia sempre e non si contenta mai fino al momento in cui l’amore di Cristo viene ad essere la testimonianza dell’amore di Dio per l’umanità. Cosi è l’amore ai Dio: non finisce mai, ed è nella contemplazione di questo amore che a noi è data la salvezza, a noi è data la speranza.
Capite, fratelli miei, perché, già da qualche domenica, dicevamo che la speranza non viene dalle opere buone che facciamo noi, perché tutti i nostri Rosari, tutte le nostre Messe, tutte le nostre candele e tutte le nostre beneficenze non ci fanno muovere di un passo di fronte a Dio. Quello che è il motivo vero concreto, reale, della nostra speranza, è questo amore del Padre che non finisce mai e che ci perdona sempre, questo amore che non si scandalizza di niente, questo amore che, mentre è forte, della forza della verità che non si può tradire, è misericordia infinita nei confronti di Colui anche che ha perso la verità. Vi ricordate Gesù di fronte all’adultera; quel Gesù che aveva detto che chi guarda una donna, chi la guarda soltanto con un desiderio, ha già commesso adulterio, quando Gli portano una donna colta in flagrante adulterio, Gesù lascia che tutti se ne vadano e poi dice con uno sguardo ed una parole piena d’amore: “Va, io non ti condanno, perché il Padre ti ama”. Cosi è l’amore di Dio. E non soltanto teoricamente, ma lo è nei confronti di tutti noi e, se noi guardiamo bene alla nostra storia personale, scopriamo che cosi Dio è con me e con ciascuno di noi in particolare, per cui il primo, più grande sentimento che entra nell’Eucaristia nostra, stamattina, è quello della riconoscenza.
Veramente l’Eucaristia è dire Grazie a Dio perché ci ama e la presenza di Gesù che si fa cibo delle nostre anime è la testimonianza di questo amore.
Veramente per colui che crede a Gesù, Figlio di Dio incarnato, non esiste più la disperazione neppure di fronte ai fallimenti più grandi, neppure di fronte alle miserie più terribili, neppure di fronte a quello schifo di me stesso che delle volte ci prende per come siamo.
Ma oggi nella parola di Dio, come le altre volte c’è anche una vocazione, non soltanto una contemplazione da vivere. Se Dio ci si rivela cosi, se Dio si manifesta cosi a noi, nella Sua paternità, è proprio per realizzarci come figli di questa paternità, come persone, cioè, che portano il segno di questa misericordia, persone che, essendo state perdonate, diventano strumento di perdono, diventano segno vivo di misericordia nel loro tempo e nella loro storia. Perciò l’esempio di David che non si vendica di Saul che lo sta cercando a morte non é soltanto la figura del Cristo che deve venire, è anche l’esempio per noi. Saul lo sta perseguitando ingiustamente, lo cercava con tremila uomini; lo cercava per ucciderlo e David capisce che non può ucciderlo, non può ucciderlo perché è l’unto del Signore, non può ucciderlo perché è figlio di Dio e, pur trovandoselo vicino, disarmato, con tutte le circostanze favorevoli, con tutto il diritto dalla sua parte, sente che non si può vendicare.
Questo è il punto, fratelli miei. Dal momento che Dio ci ama anche quando noi ci comportiamo in un modo che ci impedisce quasi di guardarci dentro per lo orrore, dal momento che Dio ci ama cosi, gratuitamente, la nostra vocazione è ad essere figli di Dio nella misericordia, figli di Dio nel perdono, e noi non possiamo sottrarci a questa vocazione. Dal momento che diciamo il nostro si al Cristo, dal momento che ci facciamo una cosa sola con Lui nell’Eucarestia che celebriamo, da questo momento gli altri possono essere miei nemici ma io non posso essere nemico degli altri, gli altri possono non salutarmi ma io non posso non salutare gli altri. Veramente sono impegnato con tutto il mio essere a diventare l’uomo che ama con l’amore che, S. Paolo ha detto, non viene dal basso, ma viene dall’alto, sono impegnato con tutto il mio essere ad amare sempre, ad amare per primo, ad amare da stupido, se volete, secondo la menta lità umana. Ma questo è l’amore che non guarda ai meriti ed ai demeriti. Vedete, se noi volessimo fondare una chiesa con un amore che tenesse conto del giusto e del torto, dell’indovinato e dello sbagliato, del merito e del demerito, faremmo magari una bella società, ma terrestre, non la Chiesa che è l’adunanza della carità, di un amore che trabocca. Se noi vogliamo vivere veramente un’esperienza di Chiesa, se noi veramente vogliamo formare una Comunità di credenti, bisogna che entriamo in questa decisione di amarci al di là di tutto, come il Padre ci ama, come Cristo con la Sua morte ci ha dato l’esempio. Questo impegna tutta la nostra vita: io non mi posso scandalizzare, allora, del torto che il fratello mi ha fatto, io non posso dire, al momento della pace, “Non ti stringo la mano perché tu l’altra settimana non mi sei stato fratello”. Io non posso dire “Ho fatto la mia parte, adesso tocca a te”. Io non posso dire: “Tengo la parte forte, la posizione forte per farti capire che tu hai sbagliato”. Io devo mettere il fratello nella verità con un unico atteggiamento: l’amore di misericordia che, fedele alla verità, di Dio, ama senza misura, perché l’amore di Dio è di amare senza misura.
Fratelli miei, perdonatemi se ho insistito cosi. Ma una mentalità diversa da questa è una mentalità pagana, terrena, e non vale niente. L’unica mentalità che ci fa cristiani è la mentalità del Padre misericordioso che sta nel cielo.
II DOMENICA DI QUARESIMA – Anno C
(Gen 15,5-12.17-18; Sal. 26; Fil 3,17- 4,1; Lc 9,28-36)
Il dover essere qui alle nove a Messa può essere un po’ il simbolo di questa fatica grande che ci viene chiesta, della fedeltà a Cristo.
Vogliamo raccoglierci un momento per domandarci conto di questa nostra fedeltà, questa nostra accettazione della fede, non come gioia sentimentale, non come una risoluzione nelle difficoltà, ma come un’obbedienza difficile da vivere nei confronti del Dio che chiama.
………..
“Per la nostra riluttanza ad accogliere la sofferenza, quando Tu ce la mandi, come espressione concreta della fede in Te, Cristo, pietà”.
“Per la mancanza di testimonianza della Tua trasfigurazione nella nostra vita, di fronte al mondo, Signore, pietà”.
Ancora una volta voglio chiedere a tutti tanto impegno di raccoglimento, tanto sforzo di restar fermi, anche fisicamente, oltre che con l’anima, perché la parola di Dio sia presente in mezzo a noi, non tanto attraverso la mia parola personale, quanto attraverso l’azione dello Spirito Santo ed allora cominciare ad agire veramente, permeare della Sua luce le nostre anime, quando le nostre anime si rendono disponibili, attente.
Veramente mi sembra di dover, ancora, insistere, perché la nostra maturità di fede non è arrivata al punto di farci capire che l’Assemblea nella Liturgia deve essere un’Assemblea umanamente attenta. Ancora ci preoccupiamo di confessarci durante la Messa, ancora ci preoccupiamo di muoverci, magari di andare a vedere la persona o il fatto, ancora abbiamo delle parole da sussurrarci all’orecchio.
Questo ci impedisce di essere il popolo di Dio in ascolto. È una grossa responsabilità che ….. e dovremmo rifletterci. Responsabilità anche nei confronti dei fratelli che possono essere impediti nell’ascolto dall’irresponsabilità di alcuni.
Perdonatemi, se dico queste cose, ma sento tutta l’inutilità della mia parola di persona, se questa parola non è veramente l’espressione della presenza dello Spirito Santo.
Questo Spirito che, nella Liturgia di oggi, ci presenta Gesù, Gesù nella voce del Padre, Gesù nella nuvola, indice di quella luce che è manifestazione della luce eterna di Dio: “Questo è il mio Figliolo diletto: ascoltatelo”. E noi oggi vogliamo ascoltare l’insegnamento che ci viene dalla Trasfigurazione di Gesù che la Chiesa ci presenta nel mezzo di questo nostro itinerario quaresimale.
Dobbiamo stare attenti a non cogliere della trasfigurazione il fatto miracoloso, il fatto spettacolare.
Il punto, se abbiamo capito la pagina del Vangelo, è che, mentre Gesù si trasfigura e mentre sente nella propria persona tutto l’impegno di salvezza che viene dalla volontà d’amore della Santissima Trinità, Gesù si trova con Mosè e con Elia, con coloro cioè che erano stati i rappresentanti di Dio nel popolo del vecchio testamento, si trova a parlare del suo esodo personale, della sua passione prossima, della sua croce e Gesù viene a sperimentare nella propria persona, ad insegnare a noi, che non vi può essere trasfigurazione in Dio, non vi può essere glorificazione del Padre nella nostra vita e glorificazione nostra nel Padre se non nell’accettazione di quella sofferenza che la fede comporta.
Domenica scorsa abbiamo cominciato a parlare della fede come esigenza di intimità personale con Dio, come necessità di ascolto della parola di Dio. Dicevamo: “non si può essere nella fede, se non si esce da sé stessi, se non si è liberi dalle preoccupazioni della nostra vita materiale, dalle preoccupazioni della nostra stessa vita spirituale, se non si è liberi anche dalle preoccupazioni del bene da fare, per essere nell’ascolto di questo Padre, il quale ci propone un’iniziativa di salvezza e di amore e ci vuol parlare. Il primo momento della fede è proprio l’ascolto.
Vi ricordate: lo vedevamo tanto concretamente questo ascolto, domenica scorsa, anche come proposta di mettersi a leggere il Vangelo in questa quaresima, anche come proposta di fare delle riunioni nelle nostre case e, grazie a Dio, si stanno anche concretizzando nella nostra Parrocchia. Però c’è qualcosa che ci riguarda e che va ancora più e meglio approfondita, fratelli miei: é che, ascoltando la chiamata, l’iniziativa di Dio ci chiede di dare una risposta che sia veramente indipendente da qualsiasi garanzia, una risposta che vada al di là di qualsiasi cosa che a noi ne possa venire.
Ecco: ci è stato letto il brano della Genesi che parla di Abramo. Abramo, in fondo, è un uomo che sta bene, ha la sua terra, ha le sue greggi, la sua patria, la sua famiglia. Ad un certo tratto Dio lo chiama: “Esci dalla tua famiglia, esci dalla tua patria, vieni”. Ed Abramo lascia tutto, per fare che cosa? Non lo sa. Per realizzare che cosa? Non lo capisce. Gli sembra soltanto un fatto molto strano, che, vecchio com’è, Dio gli prometta che può diventare padre, s’ingarbuglia, se mi permettete l’espressione, quando Dio, dopo averlo fatto diventare padre miracolosamente, gli chiede di sacrificargli il figlio in una specie di contraddizione crudele. Eppure, non sono i ragionamenti che contano nella sua vita, non sono le verifiche che egli fa delle promesse di Dio che contano nella sua vita. Abramo non dice: “ah! Dio mi ha dato il figlio, perciò ora credo.” Abramo non dice: “Dio mi ha tolto il figlio, allora è inutile che io continui a credere”. Abramo continua a credere soltanto per il fatto che Dio è Dio e lo ha chiamato; veramente al di là di qualsiasi verifica personale, al di là di qualsiasi risultato che si possa misurare quantitativamente, materialmente nella propria esistenza e continua a credere e muore nella fede, senza vedere la promessa. Lo dice l’autore della Lettera agli Ebrei parlando di lui come degli altri Padri della fede i quali tutti credettero a Dio e tutti morirono senza vedere la promessa. Anche Mosè mori fuori della terra promessa; è perciò che Abramo è chiamato il padre della fede e quello che in simbolo era vissuto nella sua esperienza di fede, lo vediamo in Gesù. Gesù che crede all’amore del Padre, che viene ad insegnare all’umanità, attraverso la sua fede personale, come si deve credere, non in un successo, non nella realizzazione materiale del suo compito. La fede di Gesù è credere nell’amore del Padre anche quando di questo Padre non ha più la sensibilità della presenza, anche quando di questo Padre non ha più la certezza della presenza né fisica né spirituale, anche quando sente di questo Padre non la presenza, ma l’abbandono, sicché il momento culminante della Sua vita non è il momento di successo, ma un momento di fallimento. Guardate che la croce di Gesù non è un successo, è un fallimento pieno, totale. Gesù viene rifiutato dal popolo a cui era stato mandato, crocifisso dall’umanità a cui era stato mandato per essere annunciatore dell’amore del Padre, Gesù viene abbandonato anche dai suoi, ma si trasfigura nella gloria del Padre e la Sua umanità entra fin in fondo in Dio, perché, al di là del proprio successo e del proprio fallimento, continua a credere nel Padre. Quando la Sua carne ed il Suo Spirito saranno tutta una ripugnanza e tutta una ribellione fino a farlo gridare Quel: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”, in quel momento Gesù non rifiuta il padre ma raccoglie la Sua anima con uno sforzo tremendo di fede per dire: “Padre, nelle Tue mani raccomando lo spirito mio”. E continua a camminare e continua a morire. Ecco, fratelli miei, la riflessione che dobbiamo fare, credo, stamattina, è questa. Noi non possiamo pretendere di incontrare Dio dal di dentro della nostra situazione, non possiamo pretendere di fare di Dio Colui che viene a dare un carattere di sacralità e di benedizione alla nostra vita, cosi come noi ce la siamo concepita ed organizzata. Noi, se vogliamo scegliere Dio, dobbiamo avere la decisione della fede e la parola decidere viene da “decido” cioè tagliare. Non si può avere un rapporto con Dio condizionato dalla nostra vita, perché Dio condizionato è un idolo, non è Dio. Il nostro rapporto con Dio comincia ad essere vero, quando veramente di fronte a Lui anche nell’oscurità più nera, anche senza possibilità di avere un benché minimo programma, noi Gli diciamo di si, non perché sia chiaro, non perché sia bello, non perché sia avventuroso, ma perché è Dio e basta. È, questa decisione di fede che si vive nella sofferenza del rinnegamento di sé, nella sofferenza del saper perdere i propri programmi, i propri gusti, i propri attaccamenti, i propri affetti. In questa sofferenza di fede, noi siamo battezzati; perciò S. Paolo ci dice che noi siamo battezzati nella morte di Cristo. Forse per questo, più si va in profondità nel discorso della fede, più ci troviamo in pochi, perché è un discorso che spaventa, perché nessuno di noi, in questa atmosfera di esigenza di sicurezza, di cui in modo particolare il nostro tempo vive, nessuno di noi si sentirebbe portato a firmare una possibile cambiale in bianco. Eppure Dio è Colui che passa per dire “Vieni”, non per dire “Vieni e ti farò questo, questo e questo”, non per dire “Vieni, che se vieni ti regalerò, questo, questo e questo”, come facciamo noi con i bambini per incoraggiarli, ma soltanto “Vieni” ed è quello che noi sentiamo attuale e nostro mentre rileggiamo la pagina della Genesi e la pagina della trasfigurazione.
Fratelli, non è un discorso che ci deve annientare questo, è un discorso che ci deve mettere nella verità, una verità che è piena di luce perché in Gesù trasfigurato noi vediamo, noi sappiamo che l’uomo che accetta di vivere di fede è trasfigurato in Dio stesso, diventa Dio. Perciò può rivolgersi al cielo, al cielo di cui tante volte non si vede alcuna luce e dire, con estrema sicurezza, Padre nostro … sia santificato il Tuo nome, … dacci il pane quotidiano, … liberaci dal male.
Il pensiero e la decisione della fede devono essere, quindi, illuminati dal pensiero e dalla trasfigurazione di Cristo che sono l’inizio della nostra luce e della nostra trasfigurazione, se, come Lui, viviamo nell’obbedienza di fede al Padre, condotta fino all’estreme conseguenze.
In uno dei canti segnati sul nostro libretto noi diciamo “… e io ti seguo come fa un bambino, mettendo la “mia mano nella Tua”, ecco i bambini non si cercano nelle sicurezze personali, negli appoggi e danno la mano al padre, e basta quella sicurezza là: io vorrei pregare che veramente il Signore ci faccia diventare quei piccoli, quegli umili che dando la mano a Lui, decidono della fede nella loro vita.
III DOMENICA DI QUARESIMA – Anno C
(Es 3,1-8.13-15; Sal. 102; 1Cor 10,1-6.10-12; Lc 13,1-9)
È il discorso severo della fede, fratelli miei, che quasi mi fa paura cominciare a farvi e che tuttavia è la parola che ci viene da Dio nella liturgia di questa domenica a dare tono, a dare spinta al nostro cammino quaresimale, perché la nostra Pasqua non sia vuota. Cerchiamo di entrare con fiducia in questo discorso e, anche se i cuori tremano al pensare all’esigenza di giustizia di questa attesa di Dio che non ammette di andare delusa e che è decisa a tagliare da sé le sterilità spirituali, quello che non produce la crescita del suo regno. Però dobbiamo ravvisare proprio nell’Eucarestia che celebriamo, ravvisare la voce mediatrice e supplichevole di Cristo il quale prega il Padre di aspettare ancora, perché c’è una cura sua, una tensione sua nella nostra vita di fede, nella stessa liturgia che celebriamo, perché le piante delle nostre anime fecondate, concimate, mi passate l’espressione, dalla sua presenza possano finalmente portare frutto.
Ma la riflessione mi sembra che vada fatta ed è questa: questo Dio che qualche domenica fa, dicevamo, è un altro da noi, è l’altro che si rivela, Colui che sta fuori di noi, e che ha il diritto di rivelarsi a noi come Colui che è, come Colui dal Quale veniamo e verso il Quale andiamo, come Colui che ha nelle Sue mani il disegno di tutta la creazione, questo Dio entra nella nostra vita, come nella lettura dell’Esodo che abbia mo ascoltata, attraverso gli avvenimenti dell’esistenza stessa ed esige di essere riconosciuto, di essere ascoltato e di essere servito perché “IO SONO COLUI CHE SONO”.
Fratelli miei, la chiamata alla fede, questa chiamata alla fede, sulla quale stiamo riflettendo dall’inizio della quaresima, significa umile e sincera accettazione della realtà di Dio. Guardate che, nella chiamata alla fede non si può, senza presunzione sciocca, vorrei dire, parlare di dialogo con Dio, se non nella preghiera, se non nell’ascolto. Ma la presenza di Dio è lo Spirito Suo nella nostra vita. Dio è Colui che è, Dio non può essere messo in discussione dalla nostra testolina più o meno pazza, né tanto meno può essere messo in discussione dai nostri umori, dalle nostre categoria mentali, dai successi o dagli insuccessi della nostra vita. Se Dio si è rivelato alla nostra esistenza, allora noi non possiamo fare a meno di Lui e non possiamo vivere come se Lui non esistesse, non possiamo darlo per scontato e non possiamo accantonarlo in certi angoli del nostro tempo e della nostra esistenza come Colui al Quale si dà onore e si dà ascolto in certi momenti di questa esistenza, per esempio, la domenica mattina, perché una religiosità che pretendesse di fare di Dio, il Dio di certi momenti della nostra vita prescindendo dalla Sua presenza e dalla Sua signoria su tutto il resto della nostra esistenza, questa religiosità non sarebbe autentica. E impressionante quello che abbiamo letto nella scrittura, quello che S. Paolo dice ai Corinti, riferendosi all’esempio del Vecchio Testamento; tutto il popolo, battezzato nella nube e nel mare, cioè tutto il popolo attraversò il Mar Rosso, tutto il popolo assisté all’apparizione di Dio sul Sinai, tutto il popolo bevve la stessa bevanda spirituale, l’acqua uscita miracolosamente dalla pietra del deserto, e mangiò lo stesso cibo del miracolo, la manna che venne nel deserto a sostenere il popolo, ma non di tutti Dio si compiacque, perché alcuni, pur riconoscendo intellettualmente Dio come il Salvatore della propria esistenza, desideravano cose cattive, cioè, si organizzavano la vita paganamente, idolatricamente, non vivevano più un’attenzione costante a quella Sua presenza nella propria esistenza quotidiana e morirono nel deserto e non trovarono la compiacenza di Dio. Quindi, arguisce S. Paolo; chi crede di star diritto, guardi di non cadere.
Fratelli miei, pensavo con sgomento, come possa accadere a noi di credere di star diritti, perché ossequiamo ed onoriamo il Dio della domenica mattina. Veramente è con tanta trepidazione che oso dirvi questi pensieri che passavano nella mia anima ieri, stamattina mentre pensavo alla celebrazione di questa nostra Messa, perché il nostro comportamento mi fa pensare tanto a questa impazienza di Dio, il Quale viene a cercare i frutti per il Suo Regno dalla Comunità Cristiana e per l’ennesima volta rischia di non trovarne.
Ognuno di noi, nella sua coscienza, sa cosa deve rispondere riguardo a questa richiesta di Dio, però certo che, se è vero che come quella volta, nel roveto ardente, Iddio ci visita nei fatti della nostra storia, della nostra vita e chiede di essere accolto in queste Sue visite, fratelli miei, viene fatto di pensare come poco noi accogliamo queste visite di Dio: forse perché siamo occupati a dire: tanto io T’onoro la domenica mattina, tanto io, vado ad una bella Messa dove si canta tanto bene, dove ci vogliamo tutti un sacco di bene e intanto nella nostra esistenza veramente certe interrogazioni di Dio, certe Sue presenze improvvise, certe Sue visite possono restare senza accoglienza e senza ascolto e penso a tutti i vuoti della nostra fede, là dove siamo chiamati a vivere, nelle famiglie, nel lavoro, nella società, là dove il regno di Dio attende di essere fatto e dove la nostra Comunità di credenti non riesce ad essere incisiva, là dove la nostra Presenza non riesce a dire, là dove la nostra laboriosità non riesce a costruire la sua giustizia e la sua santità, sia pure attraverso la povertà della nostra condizione umana. E continuano ad essere presenti in mezzo a noi tanti uomini che hanno fame, tanti uomini che hanno sete. Non volevo dire queste cose, poi il canto venuto improvviso prima della lettura del Vangelo, mi ci ha quasi costretto. Tanti che piangono, tanti che aspettano, tanti che soffrono, tanti che muoiono ogni giorno senza poter avere la testimonianza accanto a sé del Dio che ama, del Dio che induce alla speranza, perché noi siamo contenti di essere quelli della domenica mattina e durante la settimana, per dirla con una brutta frase, ci facciamo i fatti nostri, paganamente.
È tremendo, sapete, fratelli miei,è tremendo anche per me che debbo dirvi queste cose e che vorrei essere in certi momenti libero dal dirvele e devo dirle a me prima ancora di poterle dire a voi, ma la realtà è quella ed è una realtà di estrema povertà, sicché io non so se il Signore venisse in mezzo a noi a chiedere come noi Lo trasfiguriamo, Io traspaiamo, nella nostra vita di Comunità, per il mondo che ci circonda, per il mondo in seno al quale siamo suscitati come Comunità di credenti, che cosa potremmo rispondere, se non nella supplica sincera “Signore, abbi pazienza ancora per un anno”. Ed ecco la quaresima è il tempo della preghiera, è il tempo della conversione, è il tempo dell’impegno sincero, perché almeno questo sia vero in noi, l’impegno, cioè, a fare che quello che finora non è stato nella nostra esistenza, possa esserlo più e meglio, per la grazia di Dio. Tempo della quaresima che deve essere tempo di preghiera, tempo di incontro personale con Dio e tempo di unità profonda con la fede e con il Sacrificio di Cristo.
Perciò nessuno di noi può sentirsi esentato dalla responsabilità personale della preghiere e dell’incontro nell’Eucarestia e nella penitenza con la fede e con il sacrificio di Cristo, altrimenti facciamo un discorso intellettuale e la Pasqua lascerà il tempo che trova, come tante altre Pasque della nostra vita.
Oggi noi sentiamo di dover domandare perdono della nostra sterilità spirituale, della nostra mancanza di accoglienza dei segni di Dio nella nostra vita, vogliamo, nello stesso tempo, accogliere il Cristo nell’Eucarestia che celebriamo con riconoscenza e con speranza grande, perché se saremo a Lui uniti profondamente, allora la Vigna del Signore sarà piena di frutti in mezzo al mondo.
Siamo al periodo che prepara questi giorni che una volta venivano chiamati liturgicamente settuagesima, sessagesima, quinquagesima, quaresima, vogliono riportarci al disegno primordiale di Dio perché poi il lavoro della quaresima che è lavoro di penitenza quest’opera di restaurazione del sacrificio di Cristo ci possa far tenere costantemente presente l’ideale che deve essere realizzato. Parlare di restaurazione se non c’è presente il modello quello che è il pensiero iniziale di Dio. La restaurazione quella penitenza quaresimale potrebbe risolversi ad essere un po’ più buoni un po’ con quei piccoli traguardi che sono stati suggeriti o dai predicatori o dai libri di pietà che poi potrebbero anche rispondere pienamente ad un concetto vero, di penitenza di ritorni alla mentalità di Dio dopo gli inviti che saranno riproposti durante il tempo della quaresima perché – è il caso di ricordarlo ancora una volta – a Dio non interessa tanto che noi siamo della persone un poco più brave dell’anno scorso. Non è questa la Pasqua. A Dio interessa che noi siamo il suo disegno realizzato che di per sé non significa essere più sinceri, più sobri, più casti. Di per sé significa essere più di Dio, poi di conseguenza tutto il resto appresso. Però penso che questo fatto ormai è un concetto …….. la proposta della Chiesa di farci diversi è proprio questo invito a riportarci ……..
Ora leggiamo un momentino
Pensavo questa mattina avremmo potuto fare anche se un po’ faticosamente perché non siamo abituati ad un tipo di considerazioni cosi fare insieme lo sforzo di fede che non è uno sforzo intellettuale di preghiera uno sforzo di fede di preghiera che l’entrare insieme in questo che sia pure sotto la veste di un linguaggio che doveva stamparsi fortemente nella mentalità delle persone che ascoltavano però certamente a una verità, la verità della parola di Dio che ci riguarda. Mi sembra che due siano le considerazioni da farsi la prima questo riferire l’iniziativa della vita a Dio. È Dio che plasma l’uomo. È Dio che gli prepara l’ambiente nel quale deve vivere È Dio che lo colloca in questo ambiente. In effetti è Dio che ha una disegno su di lui. Veramente è dottrina …….. prima ancora che l’uomo venga al mondo per ……..
Per ogni uomo che venga al mondo c’è un disegno preordinato non nel senso del fatalismo che l’uomo cioè debba necessariamente muoversi secondo certe direttive già preordinate ma nel senso di una proposta che Dio gratuitamente lo crea Dio gratuitamente gli popone di vivere in un certo modo. Per cui viene per conseguenza, credo, che il disegno della propria esistenza lo si più scoprire soltanto in questa fonte che è l’iniziativa di Dio soltanto in uno sforzo di comunione con lui che rivelandoci Lui ci riveli anche il senso della nostra vita personale che è vita di tutta la comunità umana. Questo rapporto con Dio creatore è di una tale necessità che se ad un certo tratto l’uomo lo perdesse pur vivendo è come se non avesse la vita cioè qui è detto il fatto può mangiare tutti gli alberi del giardino però c’è la conoscenza del bene e del male cui non può mangiare. In fondo è come invitare bene e male il senso cioè della vita dell’uomo nel cuore paterno di Dio non stanno nella personale autoformazione o nella personale governo dell’autosufficienza per cui dal giorno in cui ne mangerai tu dovrai morire lo sappiamo anche dall’insegnamento della fede ma lo sappiamo anche dall’esperienza quotidiana come l’uomo muoia perché piuttosto che vivere della scienza che gli viene da Dio vive della sua autosufficienza in questo distacco dalla fonte che è Dio è più una morte che une vita. Questo credo che non è soltanto un discorso ……..
Questo veramente è entrato anche nella nostra esperienza personale. Nel momento in cui cerchiamo entriamo in un rapporto di fiducia di intimità di sicurezza del disegno di Dio su di noi in quel momento ……..
Ma come viviamo, viviamo agitati viviamo sconvolti se non fossimo vivi ma morti perlomeno a condizione di quella pienezza per cui l’uomo viene creato per la gioia. Ora Eden significa giardino di gioia e naturalmente è idealizzato non è che fosse conosciuto però per indicare che Dio crea l’uomo non per la sofferenza ma per la gioia non per la guerra ma per la pace non per la schiavitù ma per la liberazione non per tutte queste forme che potremmo dire di morte ma la tristezza la schiavitù ecc ma per tutte le forme di vita e però queste forme questa pienezza di vita in tanto di vita possono essere possibili in quanto vi sia questa pienezza di umanesimo che è l’uomo che si realizza nel disegno di Dio. non è l’uomo che si realizza da solo e poi eventualmente ……..
ma l’uomo che si realizza nel disegno di Dio per cui se non si realizza nel disegno di Dio non è neppure uomo. Ciò è duro e proprio per dovere di carità non si può sbattere sul viso delle persone però in realtà cosi è. Proprio per quella faccenda cui ripensavamo nei giorni passati mi sembra anche domenica scorsa parlando della vocazione quando bisogna riscoprire il concetto di salvezza. Salvezza non è niente di negativo. Salvezza è qualcosa che in realtà risponde al disegno del Creatore, un’opera d’arte che è salva se l’idea dell’artista l’ha pensata, disegnata, voluta, non quando è caduta per terra e non si è rotta. Cosi noi siamo salvi non quando siamo salvi dall’inferno ma quando corrispondiamo al disegno di Dio. Questo sicché noi in Gesù possiamo sapere che non esiste umanesimo se non siamo figli e se non siamo figli non siamo salvi non corrispondiamo al disegno del Creatore. Non è che io voglio tirare delle conseguenza forzate, per conseguenza logica se non siamo figli di Dio non siamo neppure uomini, non siamo quella creatura che Dio ha valorizzato. Questo discorso, questa riflessione ci deve portare credo a delle conseguenze tanto pratiche. Il discorso della montagna della volontà di Dio che diventa l’unica norma della nostra vita, veramente l’albero della scienza del bene e del male ci viene dato non dal nostro metterci al centro farci assumere la vocazione di giudici per farci dire quale è la cosa che più conviene quale è la cosa che meno conviene quale è la cosa che è bene e che è male senza riferimento ……..
perché metterci al centro della situazione e credere come metro del giudizio sulle cose sulla vita il nostro personale giudizio significa vivere l’idolatria di noi stessi ……..
dalla cose che possono essere delle persone delle cose degli interessi a volte banali. Misurare la nostra vita su queste persone queste cose significa fare dell’idolatria bella e buona.
Se noi veramente a monte di tutto crediamo in questa fonte che è Dio l’unica norma della vita e l’unica possibilità di essere realizzati e l’unica possibilità di costituire un comunione tra noi è quella di fare ciascuno la volontà perché più si ama la volontà di Dio più si ama Dio più cioè viviamo a sua immagine e somiglianza e più siamo uniti tra noi cioè il disegno di Dio, è realizzato.
Questo credo che ci impegni tanto fortemente impegna sia perché è difficile perché questo costringe n vivere di fede riferirsi in continuazione a quel disegno sia perché anche tutto fuori al giorno non c’è ……..
perché ciascuno cerca di organizzarsi la vita nel modo migliore possibile ……..
molto spesso anche l’atteggiamento religioso che noi abbiamo è un atteggiamento che tende a fare in modo che Dio sia convertito ……..
cioè noi preghiamo il Signore perché benedica i nostri disegni. Generalmente, possiamo per lo meno ……..
piuttosto che noi nella preghiera nel nostro atteggiamento religioso convertirci …….. per tanti motivi che non sono motivi di cattiva fede di cattiva coscienza perché abbiamo difficoltà alla meditazione perché siamo pressati dalle cose che ci interessano ……..
la nostra povertà è tale che noi siamo in continuazione indotti e fare in modo che la potenza di Dio si pieghi sulla nostra esistenza e però con tanto forza potremmo essere non soltanto portatori di questo messaggio ma essere convinti che per la nostra vita l’unica cosa che veramente vale è fare le cose che piacciono. Fate sempre le cose che piacciono al Padre mio.