I “passi” di Famiglie Insieme
nel 2013-2014
“Le dieci parole dell’amore”
d.G.i
La rivelazione di Dio nella storia introduce all’accoglienza e alla comprensione della sua infinita trascendenza che è, nello stesso tempo, infinita condiscendenza. La rivelazione dell’Essere e del Nome è dirsi Essere Vivente e santo nel dono di se (Es. 20; Dt. 5): “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti; conosco la sofferenza. Sono sceso per liberarlo (Es. 3,7-8). Nella rivelazione del Nome di Dio c’è perciò l’affermazione della:
- esistenza di un Essere sovranamente trascendente e misericordioso;
- che si fa presente facendosi vicino al suo popolo e per sempre;
- che dispiega la sua potenza d’amore nell’agire liberatore;
- e la sua volontà di istituire una relazione permanente con il popolo a cui si svela perché sia “suo” (Ger. 11,4);
Da questa affermazione nasce la certezza della sua unicità:
- “Io sono colui che sono”
- Io sono il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dalla terra di Egitto, dalla casa di schiavitù.
Il profilo del Decalogo indica l’orizzonte in cui Dio invita a leggere le dieci parole non come precetti isolati l’uno dall’altro, ma come strumenti e segnali dello sviluppo della relazione di Dio con il suo popolo, e viceversa nella reciprocità. Una relazione che non è l’espressione d una legge naturale universale, pensata e istituzionalizzata filosoficamente, ma si radica nella storia di un popolo, liberato dalla schiavitù e messo in condizione di avere la gioia, di godere la libertà nella terra ricevuta in dono per grazia (“quando avrai mangiato e ti sarai saziato, guardati dal dimenticare il Signore tuo Dio”). L’opera di Dio è significata concretamente nel dono della terra.
Il Decalogo, per conseguenza, non è l’imposizione di un “dovere” di obbedienza, ma il “dono”, la “gioia” di “poter” vivere l’obbedienza riconoscente per il dono gratuito della libertà nella terra della libertà.
Questa libertà è sempre minacciata e in pericolo se non è condivisa e costruttrice di comunione fraterna. Come per dire che la libertà avuta in dono a sua volta va donata. Così il popolo e il singolo credente garantiscono al prossimo, con la propria permanenza nella terra della promessa, con il proprio sì, la promessa di Dio.
La libertà che nasce dall’accoglienza delle dieci parole non è solo per l’anima, ma anche per il corpo, non solo per il popolo ma per i singoli, non solo spirituale ma anche sociale, economica, politica.
E’ una condizione di grazia per entrare e restare nella libertà, conquistata e donata da Cristo (Gal. 5,6).
“Il Signore ci ha ordinato di mettere in pratica tutte queste prescrizioni, perché temiamo il Signore nostro Dio per il nostro bene, tutti i giorni, e per conservarci in vita, com’è avvenuto oggi (Dt. 6,24).
“Io sono il Signore tuo Dio”
Scopriamo, nella fede, che il riconoscimento del Dio unico che deriva dalla voce che esprime la Parola nel libro dell’Esodo, al Dio che avviene nella storia, è la garanzia
della libertà dell’uomo. Io posso riconoscere Dio come tale, e questa è l’adorazione nel senso più intimo e radicale che apre all’accoglienza e a lasciarlo agire nella sua libertà sovrana. L’impegno per la dignità e i diritti dell’uomo, quello per la giustizia, nascono da questa adorazione. Gesù propone con decisione il Nome di Dio, con
l’atteggiamento e la visione positiva del Deuteronomio: “amerai il Signore Dio tuo, con tutto il cuore, con tutta l’anima, e con tutte le forze (Dt. 4,5).
Proponiamoci, con l’aiuto dello Spirito di fare con le riflessioni su questo amore delle dieci parole non un’occasione di tipo culturale, ma un cammino per la fede che si va maturando nella concretezza della vita quotidiana. Gesù condensa i riconoscimenti di Dio nella preghiera dell'”Abba”, con la conseguenza della preghiera di adorazione e
dell’obbedienza, nell’apertura ai grandi spazi della sua paternità universale. Propone la sua relazione con il Padre nella formula semplice del Padre Nostro: “sia santificato il tuo Nome, venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà”. Il suo sguardo è verso l’alto con l’invocazione di Dio come Padre, è uno sguardo in avanti con la santificazione del Nome, e la venuta del Regno, è infine uno sguardo alla lode e alla
riconoscenza per la libertà dal male. Entrando in questa relazione filiale, potremo vedere e sperimentare le dieci parole non come una costruzione giuridica e moralistica nel “dover essere”, ma come uno spazio di libertà, una possibilità di “poter essere”.
L.a
Come proposta di lavoro per gli incontri di quest’anno. Penso sia il caso di utilizzare sistemi alternativi come un programma alla televisione.
Documentarci quindi senza stare ad aspettare che altri ci versano il contenuto della riunione. Altrimenti non riceviamo dagli incorri quello che gli altri ci possono dare. Deve essere un cammino comune da fare insieme, per crescere insieme.
C.o
Ho incontrato per lavoro una signora che ha scritto un libro sulla “Coppia che scoppia”. Ha raccolto testimonianze e le ha inserite nel libro. C’è una concezione della libertà del tutto deformata. Noi crediamo di essere liberi solo se riusciamo ad ottenere determinate cose. E’ difficile vedere i comandamenti come un segno di libertà. Occorre vederli nel segno dell’amore. Ai nostri figli diamo suggerimenti che vengono presi come limitatori di libertà.
La libertà e l’amore viaggiano su linee parallele; il problema è capirli, e non è facile.
S.a
La libertà è un punto di arrivo successivo. Quando vivo i comandamenti mi sento libera. Siamo poco comunicativi nell’amore e non si percepisce la libertà.
C’è anche un modo nuovo nei giovani di vivere il cammino. E’ una generazione che vediamo lontana dalla chiesa. Il pericolo è quello di un’omologazione al resto del mondo che nascondono ai genitori e non lo fanno vedere.
L.a
Più che essere ciechi è la rabbia che non ci fa vedere le cose nel verso giusto. Ma cerco di trovare la forza con l’aiuto del Signore per superare la rabbia. I figli, si può dire, “seguono” i comandamenti ma sono lontani dalle istituzione della chiesa.
Quando ero giovane anche io ero distante dalla chiesa; poi crescendo mi sono riavvicinata ed ora la preghiera mi dà molto conforto.
F.o
Il tema scelto per quest’anno mi ha sconvolto perché è un tema bello ma bisogna incarnarlo. Dobbiamo verificarlo e comunicarlo. Possiamo farlo se lo viviamo. La domanda fondamentale è “Io sono il Signore tuo Dio”: è vero questo per ciascuno di noi? Nel corso dei fidanzati proponiamo ad uno dei primi incontri una domanda: a che punto è la nostra fede?. Chiediamocelo anche noi nel corso di quest’anno come corrispondiamo all’amore di Dio. Papa Francesco ci ha più volte rivolto l’invito: “siete a posto con la vostra coscienza?” Lo sforzo che dobbiamo fare e di capire a che punto siamo nel nostro cammino, utilizzando la meditazione e i tempi di silenzio.
F.a
Faccio parte di una generazione che ha seguito l’impostazione di famiglia. Però è certamente dopo che mi sono posto le domande e ho confermato la scelta a cui la mia famiglia mi aveva instradata. I nostri ragazzi, quindi, se riusciranno a ritrovare la strada, saranno ancor più artefici della loro scelta. Il seme è stato gettato e darà i suoi frutti a tempo. Queste scelte devono partire da una volontà di approfondimento.
L.o
Il tema è bello. L’affermazione “Io sono il Signore tuo Dio” è l’affermazione universale dell’uomo di fede. Come dice il profeta Baruc, io cercherò in questo mese di fare memoria dei momenti in cui ho brillato, per ringraziare il Signore.
D.a
Mi sono trovata anche io ad essere cristiana per tradizione familiare. Mi sono spesso chiesta se fossi nata in una famiglia diversa. Perché tante volte non riesco a vivere la mia scelta per egoismo o per fretta. Sento forte la necessità di essere amata ma quanto di quest è vera fede? Per me è difficile parlare in gruppo: ho ricevuto molto di più di quello che ho dato. E’ necessario parlare dell’amore di Dio non solo come singolo ma anche come coppia. Ci sono dialoghi, discussioni su come vivere ciascuno ed insieme la vita di fede.
C.o
I ragazzi vedono la chiesa come potere e da questa vogliono stare lontani. Quando si cade in un errore e bello capire di poterlo evitare la volta successiva Guardiamo prima noi e poi gli altri. I dieci comandamenti non cambiamo ma forse è il nostro modo di vederli che deve essere modificato.
B.a
I dieci comandamenti sono qualcosa che abbiamo imparato a memoria e quindi ormai diamo per scontati che li viviamo in modo corretto. Io avuto il dono di aver partecipato ad incontri che mi hanno dato modo di realizzare consapevolmente la scelta di fede.Questa proposta di riflettere per un tempo lungo mi sembra importante che venga realizzata da ciascuno portando il suo contributo come frutto della propria esperienza personale.
d.G.i
Non avrai altro dei di fronte a me (es. 20,3; Dt. 5,7)
“di fronte”, “davanti a me” è forse un espressione che rimanda al momento del culto, per dire che il credente, nel momento dell’incontro con il Signore non può avere che Lui davanti agli occhi. E quando affronta gli eventi dell’esistenza, altro Capo. Il Signore vuole che Israele non segua altri dei, ma adori soltanto Lui. Nel tempo del politeismo, ad ogni esperienza religiosa si deve un nome, un volto, una raffigurazione, come una pluralità di figure “divine”, intese come possibilità diverse di incontrare la realtà unica di Dio. Con il primo comandamento è proibito ad Israele di cercare per l’incontro con Dio altre vie che non siano quelle proposte da Lui stesso, che è la liberazione dalla schiavitù. Dice il profeta Osea: “Io sono il Signore Dio tuo fin dalla terra d’Egitto; fuori di me tu non conosci altro Dio, fuori di me non c’è salvatore (Os. 13,4). Perciò già nel sec. VIII a.C., Israele aveva certezza di dover adorare solo Javhè, e molto probabilmente custodiva questa certezza, teorica e pratica, già da prima. Grandezza e difficoltà nella scelta di fede del monoteismo teorico e soprattutto pratico, ieri come oggi.
- quali sono le difficoltà per le scelte di fede?
- come ci aiutiamo nel custodire la certezza di fede?
- il contenuto della fede incide sulla vita concreta?
- come crescere nella fede?
S.Agostino: “Concedimi un po’ di questo tempo per le mie meditazioni sui misteri della tua parola. Non voler chiudere la porta a chi bussa…
Che io ascolti la voce della tua lode, a te mi disseti e contempli le meraviglie della tua parola, dal principio quando creasti il cielo e la terra, fino al momento in cui regneremo con te in eterno nella tua città santa (Confessioni 11,2,3)
Quest’anno scopriamo la luce dei comandamenti, colta personalmente, per crescere ed essere aiutati nel cammino della vita. L’indicazione del rapporto con Dio, esclusivo, ci viene dal culto ebraico: quando si andava al tempio, si pensava solo a questo, si lasciava tutto, per essere nudi. Il fare ruba il tempo alla preghiera. Il rapporto con Dio è relazione (Cacciari) e Lui è geloso del rapporto col credente, che non deve cercare le strade della sua conoscenza per altre vie che non siano quelle rivelate da Lui stesso. Alcune forme di ricerca sono vane; ognuno di noi ha avuto insegnamenti e testimonianze: siamo fedeli a quello che ci è stato dato? Il nome del Signore non deve essere spezzettato, come avveniva nel politeismo. Se credo in Dio, non ho altro se non quello che mi sta dicendo. Se pensiamo a Maria, siamo aiutati a capire i suoi “sì”, dall’Annunciazione alla desolazione ai piedi della Croce.
F.o
La realtà, la società attuale non riconosce automaticamente Dio, non aiuta nella sua ricerca; ciò può essere occasione di una maggiore consapevolezza e autenticità nella fede, ancora troppo devozionistica; sarebbe bello poter comunicare l’esperienza di fede anche tra di noi in questi incontri, in una comunione d’anima. Così come dovrebbe essere più naturalmente nella coppia e nella famiglia, in una sorta di “vasi comunicanti”. Pur vivendo nella diversità di scelte, si scopre l’arricchimento che viene da questa comunione.
E.o
Bisogna incontrarsi e incrociarsi in questa esperienza di fede. Ricorda la testimonianza avuta dal padre, da piccolo. La fede è caratterizzata anche da cadute, ma l’importante è rialzarsi. Si è molto aiutati dall’assiduità nella preghiera.
F.o
Vivere la fede significa attivarsi. Dai primi tre comandamenti, dall’amore verso Dio scaturiscono anche gli altri comandamenti. La realtà della vita di fede ha uno scopo e una meta, come ci ha detto d. Giovanni, che ha raccontato di un moribondo che l’ha salutato dicendo: “ci vediamo dall’altra parte”
B.a
Si sperimenta il fallimento se ci facciamo altri dei, al posto di Dio; è un porre qualcos’altro al centro della vita; se invece ricerchiamo Dio, si vive tutto meglio, e si scopre l’armonia.
F.a
Esperienza forte vissuta nell’incontro del 26 ottobre u.s. tra il Papa e le famiglie: momento di intensa partecipazione, in cui il Papa ha dato tre indicazioni per la vita di tutti i giorni, nella coppia e in famiglia: saper dire “permesso”, “scusa” e “grazie”
L.y
Si ha il pudore delle parole; una vita vissuta con coerenza è testimonianza di fede. Chiedo al Signore che io pronunci non una parola in più, non una in meno. Non si deve ricercare affannosamente un dialogo fatto di parole
F.o
Dobbiamo cogliere la grande indicazione alla semplicità dataci dal Papa: non sofismi o elucubrazioni nella vita di fede; le indicazioni date per la famiglia valgono anche per il rapporto con Dio: sapergli dire grazie, chiedergli il permesso di fare la sua Volontà, chiedere scusa per la nostra debolezza, e ricominciare.
S.a
Spesso si ha l’impressione di una vita sfasciata, dove manca l’armonia. Si corre il rischio di anteporre il pensiero di se stessi, come una sorta di idolatria, non seguendo quindi il I° comandamento; ha l’esperienza di aver fatto prevalere il senso di giustizia, senza affidarsi al Signore. Invece, vivere guardando le situazioni con gli occhi di Dio rende la vita veramente armoniosa.
L’incontro è stato animato da una coppia di amici, sposati da 24 anni con cinque figli, che hanno voluto condividere con noi il loro cammino fatto di difficoltà e riavvicinamenti, proprio nella luce della ricerca del Dio, nostro padre.
Lui:
Ho 51 anni; il Signore si è presentato improvvisamente un giorno in cui pensavo di farla finita dopo l’ennesima sconfitta al gioco di azzardo. Fidanzati per 4 anni, molto travagliati: i suoceri non volevano lui, semplice impiegato con la passione del calcio. Litigavamo molto. Il Signore ci ha portato al matrimonio così come aveva pensato da sempre per noi. Giocavo d’azzardo e pagavo i debiti sfruttando anche l’ufficio cassa, dove lavoravo. Non vedevo sbocchi per uscire da questa schiavitù, non gustavo la bellezza della vita, insensibile a tutto. Un giorno decisi di suicidarmi. Mia moglie mi ha aiutato a rialzarmi. Questa è stata la prima grande esperienza di Gesù vivo in mezzo a noi. Nonostante la mia ignoranza nella fede mi affidai a Lui completamente forse anche vigliaccamente. Non è stata una magia, ma qualcosa che ho pagato sulla mia pelle. E’ stata una grazia quella di esserci ritrovati in una comunità tra fratelli che non ci hanno mai giudicato ma accolti. Il cammino successivo mi ha mostrato tutte le mie debolezze. La famiglia di origine, litigiosa e violenta (sono il quinto di sei fratelli maschi). Due fratelli vivono ancora in un contesto senza Dio e senza pace. Altre situazioni di soldi, sesso e possesso. Una tappa molto importante fu quella di testimoniare in comunità la vittoria di Gesù nella nostra vita. Ho avuto anche una relazione con un’altra donna di cui poi mi pentii. Confessai il tradimento a mia moglie. Avevo bisogno di una umiliazione forte; mia moglie maturò il perdono.
Quello che rimane è la testimonianza che Dio si è rivelato Padre, Creatore; ha ricreato la mia vita e noi siamo qui per dire che quello che oggi ci unisce, che ci ha restituito dignità è Dio. Sono felice di raccontare la nostra storia e manifestare la nostra gratitudine.
Lei: Io avevo basato la mia vita su di lui, contrastata dai miei familiari. Gesù mi ha detto di perdonare, a Lui mi sono affidata per avere la forza di farlo. IL Signore mi ha fatto la grazia di diventare un’altra persona; ho capito di dover rimanere vicino a lui che mi aveva fatto tanto male. Il perdono è un dono soprannaturale.
Lui: Non mi ha mai rinfacciato il male che le ho fatto, anche nei momenti di stanchezza. Questa grazia viene da Dio. Oggi ci sono tante divinità, per me esisteva il dio denaro, la lussuria, il gioco: su questo ponevo tutte le mie sicurezze. Oggi abbiamo la certezza che non c’è altro Dio all’infuori di Lui.
Le conseguenze si sono riflesse sui nostri figli, sempre presenti nei momenti difficili. Chiedendo perdono ai nostri figli, manifestando le debolezze, il Signore mi restituiva tutta la dignità e la forza che non mi erano mai appartenute. Il cammino continua; il Signore ha fatto di noi creature nuovo, anche grazie alla comunità con la quale abbiamo condiviso la nostra vita.
F.o
Noi vi ringraziamo perché vi sentiamo nostro fratello legati da tanto affetto. Questo incontro con il Signore è stato preparato, la grazia vera è stata la perseveranza.
d.G.i
La fede nel Dio unico comincia ad avere spessore quando entra nella vita concreta.
S.a
Quando si tocca con mano il perdono di Dio nasce la libertà.
T.o
Chi veramente ha ricevuto una grande grazia è stata la moglie. La testimonianza silenziosa della moglie è il più grande riconoscimento. Lui ha ricevuto una sovrabbondanza di amore.
F.a
Il ruolo della comunità che accoglie e non giudica. Questo ci chiama a interrogarci e ci responsabilizza.
F.o
L’importanza del gesto di amore che trasforma le persone.
P.a
Dipendenza dal lavoro. Michele non p mai a casa, sono io che porto avanti il progetto del nostro matrimonio, il nostro aver costruito la casa sulla roccia.
P.o
E’ lo stare insieme, è il parlare insieme che ci fa crescere.
F.o
Bisogna riconoscere la presenza di Dio nella nostra vita. Saper condividere anche con i figli momenti di preghiera.
d.G.i
Se veramente si vive il “Non avrai altro Dio”, se si porta nel concreto: “Signore cosa vuoi che io faccia?” Immediatamente si arriva al prossimo. L’amore nel Dio unico si incarna nell’amore ai fratelli. Nel capitolo 54 di Isaia, il Signore ci dice di allargare i cordoni della nostra vita. Tutti possiamo avere sottili idolatrie, bisogna mettersi davanti a Dio dicendo: “Tu sei l’unica ragione della mia vita”. Il Signore risponde. La parola che viene da Dio è: “Vai da tuo fratello”.
Il cammino di quest’anno è stato sconvolto dall’improvviso ritorno alla casa del Padre di don Giovanni, nostra guida spirituale da molti anni. Non abbiamo voluto rinunciare al nostro incontro programmato ma ciascuno ha portato il suo ricordo della figura paterna di don Giovanni.
Gli appunti che seguono, presi durante l’incontro, vogliono essere una breve sintesi di quanto ci siamo fraternamente comunicati.
M.o
Sarebbe per tutti difficile iniziare questa sera. Introduco io, come ho fatto altre volte, ben sapendo che non ci sarà don Giovanni a sostenermi. E’ difficile, dicevo, ma come ha scritto Fulvio in una mail qualche giorno fa “dobbiamo stare insieme”. Ci sentiamo sbandati, dispersi, senza una guida. Fulvio ci ha paragonati ai discepoli dopo l’Ascensione.
Ma nel rispetto e nel ricordo di don Giovanni, proseguire i nostri incontri, come se lui fosse ancora con noi, è continuare a seguirlo. Lunedì scorso, quando siamo arrivati in chiesa dopo aver ricevuto la notizia, qualcuno ha detto: “se abbiamo capito qualcosa, dobbiamo amarci di più”.
Ecco quindi che stasera dobbiamo continuare il nostro percorso avendo ancora di più don Giovanni come riferimento, in modo da comprendere come dobbiamo proseguire.
Come vi ho ricordato nella mia mail-invito, il comandamento su cui meditare stasera è “Non nominare il nome di Dio invano”. E non penso di fare una forzatura se subito viene in mente un’applicazione diretta alla sua figura: ogni parola di don Giovanni è stata sempre ispirata a parlarci di Dio, in maniera appropriata, senza sbavature. Il nome di Dio dalle sue labbra non è mai uscito invano, ma ha portato sempre frutto a chiunque lo abbia ascoltato. E speriamo, anzi ne siamo certi, che dopo l’ascolto siano sempre seguiti i fatti, le azioni, a completamento dei suoi suggerimenti.
Stasera vorremmo che ciascuno proponesse un suo ricordo, una preghiera, così come tanti avrebbero voluto farlo martedì durante i funerali. Già si stanno attivando iniziative da più parti per raccogliere i suoi scritti o i ricordi di ciascuno di noi e renderli disponibili a tanti. Ma non è l’iniziativa che conta, è piuttosto il ricordo che portiamo dentro di noi e che cercheremo di mantenere vivo anche con iniziative di vario genere.
Io propongo di incominciare il nostro incontro rileggendo il brano del Cantico dei Cantici che è stato proclamato durante il suo funerale.
Lilly ci ha detto che don Giovanni le aveva confidato tempo fa di desiderare proprio questa lettura per la liturgia dei suoi funerali. Ascoltandolo, diventa per noi un suo lascito, un testamento che dobbiamo fare nostro per conoscerlo ancora di più.
Ora l’amato mio prende a dirmi:
«Àlzati, amica mia,
mia bella, e vieni, presto!
Perché, ecco, l’inverno è passato,
è cessata la pioggia, se n’è andata;
i fiori sono apparsi nei campi,
il tempo del canto è tornato
e la voce della tortora ancora si fa sentire
nella nostra campagna.
Il fico sta maturando i primi frutti
e le viti in fiore spandono profumo.
Àlzati, amica mia,
mia bella, e vieni, presto! (CdC 2,10-13)
L.y
Come Maurizio ha detto e come ho raccontato già molte volte, un giorno tempo fa eravamo con don Giovanni insieme ad altre persone. Mi venne da dire: “Don Giovanni, nella realtà delle cose è possibile che sarai prima tu ad andare via. Ma se dovesse essere il contrario, vorrei che per il mio funerale fosse scelto il brano del Cantico dei Cantici “Alzati amica mia!” Lui mi guardò un po’ sornione e mi disse: “Ma questo è quello che vorrei anche io!” Così mi è sembrato giusto proporlo per la celebrazione di martedì scorso.
Per ricordare la sua figura voglio raccontare il legame che, tramite me, c’è stato tra don Giovanni ed una persona molto anziana che da tempo vado a visitare. Una persona molto colta, che nella sua vita ha sofferto tanto. Dopo aver conosciuto don Giovanni ed aver con lui intrapreso un dialogo profondo, mi ha rivelato una volta: “Conoscevo il Cristo e le scritture, molto della nostra fede a livello culturale, ma don Giovanni mi ha portato questa comprensione dalla mente al cuore, presentandomi il Cristo in maniera diversa”.
A me don Giovanni ha fatto capire cosa significa quando diciamo “Gesù è morto per noi, è morto per ognuno di noi”. Perché ho visto che nel rapporto personale lui sapeva mantenere un legame intenso, unico con ciascuno, quel legame personale che Cristo ha con ciascuno di noi.
C.o
Anche io voglio sottolineare il legame personale che legava tanti di noi a don Giovanni. Un legame che si può esprimere con “Solo per te”. Quando ci sono stati i funerali , nel volto di ciascuno ho visto questo rapporto personale che lo legava a don Giovanni. Io ricordo con meraviglia che, quando mi incontrava, mi chiedeva dei miei figli ricordandone il nome. E non poteva essere che questo avvenisse solo con me. Con ciascuno aveva questa capacità di rapporto diretto ed intenso.
F.a
Stasera penso che molti ripeteremo la stessa cosa. Io ricordo che non c’era bisogno di raccontare la propria storia, perché da parte sua c’era un seguirti nella tua vita , un esserne parte conoscendone ogni aspetto.
F.o
Credo di non aver paura di ripetere le cose. Conosco don Giovanni dal ’64. Gli inizi non sono stati semplici, in seguito c’è stata una crescita. Inizialmente due vite parallele: i ragazzi di don Giusto ed il gruppo che si andava formando intorno a don Giovanni. Allora iniziò a circolare la parola “comunità”. Qualcuno considerava strano questo termine o equivalente a qualcosa di non ortodosso. Don Giovanni ha preso l’eredità di don Giusto, facendo fiorire una primavera per la chiesa di Napoli. Abbiamo anche avuto in quei tempi la visita di qualche osservatore del vescovo, per rendersi conto di cosa succedeva a Piedigrotta. Nel suo stile, sempre presente ma mai protagonista, ha saputo aspettare che i tempi maturassero. Pian piano s’è creata una convergenza di vedute.
Per il Sinodo della chiesa di Napoli, che fu preparato in tutte le parrocchie, don Giovanni chiese alle persone più vicine di incontrarsi per prepararsi al sinodo. E’ stato l’inizio della collaborazione dei laici, che mettevano a disposizione il loro punto di vista per programmare insieme. E’ stato il primo embrione del consiglio parrocchiale; una delle indicazione del sinodo fu la creazione dei tre centri pastorali da affidare ai laici e la parrocchia di Piedigrotta, per merito di don Giovanni, si trovò già preparata per avviare questa esperienza. Don Giovanni lo avviò poco prima di andare via a Roma per diventare padre visitatore dell’ordine.
Anche don Giuseppe, che venne a sostituirlo, come don Giovanni nel presentarsi disse: “aiutatemi a fare il parroco”. E così quell’esperienza, appena iniziata, ebbe modo di continuare e crescere.
Nel periodo a Roma don Giovanni non ha fatto mancare l’affetto e la vicinanza alla parrocchia di Piedigrotta. Ma quando nel 2000 è ritornato, ho trovato in lui una tale disponibilità ed una tale presenza da entrare in tutte le realtà che si erano formate: Famiglie Insieme, Andare Oltre, Mamme Cristiane. Lui aveva piacere a stare con noi. E’ diventata in ogni gruppo una presenza insostituibile.
Così il mio rapporto con lui è cresciuto di intensità tanto da essere realmente uno per l’altro. E voglio qui ricordare due messaggi che ha lasciato a Famiglie Insieme, come compendio del tanto aiuto che ci ha dato:
il primo a Roccamonfina nel 2006, quando dette l’indicazione del “ Magis”, del fare di più, del non accontentarsi di quello che abbiamo puntando sempre al di più che ci aspetta;
il secondo, con la sua insistenza a sollecitarci a non essere fruitori ma protagonisti. Ognuno dovrebbe avere questa tensione giorno per giorno nella sua vita.
S.a
Venendo in bicicletta mi sono passate tante immagini per la testa. I discepoli si dicono “dove andremo”. Sembra non vero che lui non ci sia. Essere qui in tanti stasera dimostra veramente il grande affetto che legava ciascuno di noi alla sua persona.
Conservo con cura un messaggio che lui mi mandò tempo fa: “Grazie, veramente grati nel cuore per il dono di esserci incontrati. Buon Tutto.”
Un giorno incontrai Pier Paolo nella chiesa del Casale, la mia parrocchia. Cercavo un posto dove portare i miei figli che avevano da poco fatto la prima comunione, ma forse cercavo anche qualcosa per me. E Pier Paolo, dicendomi che avevo bisogno di un padre spirituale, mi indicò la parrocchia di Piedigrotta.
Oggi dico che io ho perso più di un padre, un padre spirituale. Don Giovanni è stato per me un anello di congiunzione con il Signore. Tramite le sue parole, io riesco a ricongiungermi a Dio. Pensando alla scala di Giacobbe, così come se ne parla nella Bibbia, penso che don Giovanni sia stato per me quella scala. Ci siamo accorti negli ultimi tempi che il corpo di don Giovanni era stanco. Ma quello che mi porterò sempre nel cuore è quel suo ripetermi, specie nell’ultimo mese, “ti voglio bene”.
Il giorno dell’Epifania dovevo riconsegnargli un libricino che mi aveva prestato; ora è rimasto a me. Io credo poco alle cose casuali e considero questo un regalo che lui mi ha fatto. Il nostro piccolo gruppetto deve continuare ad incontrarsi, per una fedeltà che continua e che non deve venire meno.
L.a
Avevo 15 anni quando l’ho conosciuto. Dopo 5 anni, tramite lui, ho conosciuto un cammino che sto continuando a condividere con lui. Il vangelo che abbiamo proclamato al suo funerale era il vangelo dell’unità; era il suo cammino spirituale a trasformarlo in un uomo capace di farsi vuoto per accogliere la vita di chi gli era davanti.
Abbiamo avuto modo di mantenere vivo questo rapporto, anche quando lui non era a Napoli. Negli ultimi quattro anni ho avuto modo di incontrarlo ogni giorno. Lui aveva la capacità di prendermi e portarmi nel positivo. Sentivo che lui si sapeva fare piccolo per me, come ha fatto Dio che si è fatto piccolo nel grembo di una donna.
Questi quattro anni sono stati una grazia, perché nella reciprocità ci aprivamo l’un l’altro. Ho avuto la grazia di ricevere tanto da lui. Non so esprimerlo in modo corretto, perché è stato un vissuto. E lui mi ha sempre sostenuto a vedere il positivo, con il peso di un corpo che, visto anche con sguardo medico, ogni giorno cedeva un pò di più, mentre lo spirito cresceva.
L’ultimo giorno che l’ho incontrato era molto debole. Ma, dal punto di vista medico, niente lasciava pensare a quello che è successo.
Ci siamo lasciati come al solito. Ho vissuto questo rapporto intensamente, ma non mi accorgevo della profondità che ero riuscita a raggiungere nell’incontro con lui. Solo quando ho saputo che non era più con noi, ho raggiunto un punto di dolore a cui non credevo di arrivare. Un punto di dolore che mi ha fatto urlare.
Dalla sera che lui è partito, ho recuperato quel rapporto, perché viviamo nella comunione, perfetta per lui, ancora imperfetta per me; il suo corpo era qui ed ora non c’è più, ma il suo spirito era ed è in ciascuno di noi.
Su questa sedia, dove lui di solito si sedeva, ci sono tre garofani rossi. Il movimento dei focolari ha questo simbolo quando una persona lascia questa terra: i garofani sono quelli che Chiara Lubich poté offrire al Signore il giorno che si offrì a Lui.
Questi fiori dunque non sono per ricordare chi non c’è più, ma per dire grazie della presenza di questa persona tra noi, che ora aiuterà il cammino di tutti i gruppi che lui ha ispirato.
G.o
Ricordo un episodio forse banale per sottolineare la disponibilità che aveva, che gli faceva mettere sempre in secondo piano la sua persona.
Non molto tempo fa è venuto a casa a visitare i miei genitori. Quando è arrivato, l’ascensore era guasto e noi abitiamo al sesto piano. Per mantenere fede all’appuntamento preso, è salito e sceso per i sei piani del palazzo, una fatica per lui certamente non di poco conto.
Ogni mia rimostranza per aver fatto una tale fatica, è stata liquidata con la frase: “tua madre mi aspettava”.
Ed ora, se trovo l’ascensore fermo, non posso non pensare a questo gesto che mi fa salire in silenzio. sopportando la fatica, così come ha fatto lui.
MR.a
Quando ci incontravamo il suo saluto era sempre: “che bello vederti qui”. Era lo spalancarsi di una porta per accogliermi. Quello che mi resterà, a parte la sua dimensione spirituale, è il calore delle sue mani quando andavo a confessarmi. Di mia mamma ricordo il calore del suo corpo, quando la sollevavo nel letto negli ultimi tempi della sua vita.
Di don Giovanni ricorderò il cambiamento nei suoi occhi quando, terminati i saluti, incominciavamo la mia confessione: erano un completo svuotarsi per far posto a chi era davanti a lui.
B.a
Ho conosciuto don Giovanni che ero una ragazzina. Mi ero allontanata dalla chiesa dopo tre anni in un istituto di suore. In casa c’era mia madre, molto tradizionalista, mentre mio padre si era allontanato dal frequentare la chiesa. Io ero piuttosto disorientata. Arrivai a Piedigrotta e mi feci una chiacchierata con “questo” parroco e rimasi folgorata. Ne parlai con mia madre che cominciò a venire anche lei a Piedigrotta. Infine mio padre venne anche lui, dicendo ” ho trovato il sacerdote che dico io!”. La vita della mia famiglia è stata trasformata da don Giovanni.
Noi esseri umani non riusciamo a capire i segnali che ci manda Dio. La potenza di don Giovanni è essersi fatto tramite per farci comprendere la volontà di Dio.
Don Giovanni è diventato la mia guida spirituale, ma anche il mio migliore amico. A lui ho confidato tutti i fatti miei, a cominciare dalle stupidaggini di una ragazzina di 16-17 anni. Lui aveva un rispetto ed un’attenzione come se fossero cose serie.
E’ stato per me un padre. Con don Giovanni ho salutato i miei genitori; si era intanto trasferito a Roma, ma è stato capace di essere presente a tutti gli eventi importanti della mia vita.
La mia determinazione ad avere un figlio, pur sapendo i rischi, mi era venuta dalle tante conversazioni con lui. Quando si è annunciata Emanuela, ero assillata dai consigli di chi mi era intorno. Ho avuto una lunga telefonata con lui che era a Roma. Lui non diceva mai cosa fare, ma ascoltava e poi diceva poche e semplici parole. Dalle sue parole, ho avuto il consiglio giusto per portare avanti la mia gravidanza fino alla nascita di mia figlia.
L.y
Non voglio tirare già una conclusione. Abbiamo visto come ci sia tra noi una comunanza di esperienze. Se abbiamo capito quello che lui voleva dire, dobbiamo essere attenti a quello che viviamo. Dobbiamo prestare attenzione all’accoglienza del nuovo. C’è voluto del tempo, ci diceva Fulvio. A noi tocca darci questo tempo per trovare una sincronia con il nuovo. Ognuno di noi è insostituibile. Ricordo quando venne il momento per me di sostituire Mena nel gruppo delle Mamme Cristiane. Fu don Giovanni a dirmi: “Dio ci ha dato un talento, non devi sostituire nessuno, tu dai il tuo”.
Se facciamo paragoni, tutto crolla. Tutti abbiamo sottolineato l’accoglienza che don Giovanni era capace di donare. Dobbiamo portare accoglienza a chi viene. Il gruppo viene costruito sulla libertà di accoglierci e di condividere.
L.a
Dobbiamo chiedere con fiducia lo Spirito Santo. Se chiediamo ci viene dato qualcos’altro, così come Gesù ci ha promesso. Noi dobbiamo mettere la nostra parte: dobbiamo pregare di più lo Spirito Santo. Anche se in momenti diversi, possiamo insieme pregare lo Spirito per invocare l’aiuto a saper continuare in questo percorso. Una preghiera insieme, che sia un “consensum”. Dobbiamo accogliere il nuovo, dobbiamo anche condividere l’unione dei gruppi, così come stiamo facendo stasera.
F.o
Voglio ritornare sulla parola insostituibile. Non si può sostituire una persona. Cammino molto e da lunedì quando cammino mi chiedo come farò. Non dipende da noi, se ci misuriamo con le nostre forze non ci è possibile. E’ una tentazione di cui don Giovanni sarebbe il primo ad essere scontento, perché privilegiamo la persone e non quello che passa attraverso la persona. La parola di vita di questo mese è “Cristo è l’unico fondamento” E’ quindi Lui quello che una persona tenterà di proporci. Dobbiamo trovare questa forza, perché abbiamo bisogno di camminare insieme nello stile di don Giovanni , senza fare paragoni, accogliendo il nuovo che viene. Dobbiamo far vivere Gesù Cristo che è sempre vivo ed è mediato dai suoi ministri.
Mi sono permesso di fare il paragone con gli apostoli, perché sentivano realmente questa mancanza. Questa mancanza venne riempita dallo Spirito. Noi abbiamo bisogno del Consolatore che ci aiuta. Lo Spirito ci deve indicare la novità che dobbiamo accogliere.
F.a
Il vangelo di qualche giorno fa diceva di Gesù che cammina sulle acque, raggiungendo gli apostoli sulla barca. Agli apostoli intimoriti Gesù dice: “Non abbiate paura, sono io”.
Quando ho avuto la notizia ho subito detto “come faccio” e poi mi sono vergognata perché ho pensato solo a me stessa. Siamo persone adulte, eppure ci sentiamo sbandati. In questi giorni ho avvertito molto il desiderio di stare con voi: queste pillole di ricordi che ciascuno sta offrendo a tutti noi, mi aiutano a riprendere il cammino.
B.a
Un’altra cosa che voglio ricordare, che veniva fuori dalle chiacchierate con don Giovanni, era di prendere sempre il meglio dell’altro. Di qualsiasi persona in relazione con te prendine sempre il meglio, mi diceva. Se stasera siamo qui in tanti, così legati l’uno all’altro, è perché c’è stata la sua capacità di trasmetterci la voglia di tessere un legame. Stiamo insieme perché abbiamo compreso il meglio dell’altro.
Quando abbiamo iniziato il percorso dei fidanzati, fu don Giovanni a chiedere a me ed a Pino di darci da fare e disse: affiancatevi a Fulvio e Linda. Mi sembrava una proposta fuori dal mondo, ma aveva ragione lui.
S.a
Uno degli insegnamenti più grandi che lui ci ha donato è la sua profonda umanità, che nasce dalla conoscenza assoluta della Parola.
Noi dobbiamo saper masticare la Parola, da cui nasce l’unione, l’amore. Il tesoro più grande che ci lascia non è la conoscenza intellettuale e culturale della Parola, ma la profonda comprensione e la capacità di viverla.
Abbiamo terminato l’incontro intonando insieme il Veni Creator per chiedere allo Spirito Santo che ci renda capaci di proseguire il cammino che don Giovanni ci ha indicato in questi anni:
Vieni, o Spirito creatore,
visita le nostre menti
riempi della tua grazia
i cuori che hai creato.
O dolce consolatore,
dono del Padre altissimo,
acqua viva, fuoco, amore,
santo crisma dell’anima.
Dito della mano di Dio,
promesso dal Salvatore,
irradia i tuoi sette doni,
suscita in noi la parola.
Sii luce all’intelletto,
fiamma ardente nel cuore;
sana le nostre ferite
col balsamo del tuo amore.
Difendici dal nemico,
reca in dono la pace,
la tua guida invincibile
ci preservi dal male.
Luce d’eterna sapienza,
svelaci il grande mistero
di Dio Padre e del Figlio
uniti in un solo Amore.
Sia gloria a Dio Padre,
al Figlio, che è risorto dai morti
e allo Spirito Santo
per tutti i secoli dei secoli.
Amen.
d. F.o
Siamo abituati alla dicitura che abbiamo imparato a memoria nel catechismo: “Non nominare il nome di Di invano”.
Ma il testo è un po’ diverso. Nella forma che conosciamo ci viene in mente subito: non bestemmiare.
I dieci comandamenti, chiamati anche “le dieci parole dell’amore” ci vengono dette nella forma negativa e non in quella positiva. Sono un indice minaccioso puntato verso il colpevole. La negatività del linguaggio che esprime il “non fare!”
E’ un espediente di matrice semitica per esaltare l’incisività e la lapidarietà delle cose. E’ fatta per dare semplicità e chiarezza.
Gli studi biblici parlano del senso positivo dei comandamenti e vengono perciò chiamati ” le dieci parole dell’amore”.
Nascono dalla coscienza che Dio ha preso a cuore il suo popolo. Non è il popolo che prega Dio, ma Dio che scende a liberarlo.
Il popolo fa esperienza di di essere amato da questo Dio sconosciuto. Ci vorranno i quarantanni del deserto per riconoscerlo di nuovo.
Scopriamo invece il senso positivo: leggiamo la Bibbia, libro dell’Esodo capitolo 20: ” Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano”. Anche nel Levitico c’è un uguale formulazione ma con parole diverse.
Si pensa subito alla bestemmia che è invece assente nel vicino oriente.
Il nome nella cultura semitica dice la persona. Invano in ebraico si dice LASAW che si traduce anche con “il vuoto”, che si può mettere in relazione con l’idolo.
L’idolo è la proiezione dei bisogni dell’uomo. L’uomo è l’immagine di Dio. Quindi usare il nome di Dio per esprimere altre cose è vuoto. Il peccato è più grave della bestemmia perché vuol dire annullare Dio.
E’ chiamare il Dio che fa da tappabuchi, il Dio che risolve i problemi, che deresponsabilizza dalla vita.
Dio invece è il tutt’altro, è l’oltre. E’ la grandezza, è la santità di Dio che non è a nostro uso e consumo.
Nel Padre Nostro Gesù chiede: sia santificato il tuo nome.
Abbiamo fatto le Crociate con “Dio lo vuole” che non è una bestemmia ma un usare il nome di Dio.
Diciamo spesso “E’ la volontà di Dio” perché non sappiamo cosa dire. Anche nella preghiera possiamo usare questa espressione.
Gesù specifica il comandamento invitandoci a credere che il nome è in relazione con la persona. Gesù ci ha detto che è venuto a portare a compimento la legge.
Dio in Cristo si è fatto relazione e nella relazione si è fatto santità, alterità, diversità.
Il santo non è la perfezione della vita ma il cammino verso Dio.
I santi sono coloro che sono capaci di amare come Gesù, seminatori di gioia come lo Spirito Santo.
Santità vuol dire compiutezza. Il compiuto non è staticità di contemplazione ma vita che si fa dono, che si mette in relazione.
Alterità è un amore che è altro. Dio ama i giusti ed i peccatori.
Diversità: altro da tutt’altro, unico per essere ciò che sei.
Non nominare il nome di Dio invano, significa non nominare Dio per i tuoi scopi. Non vanificare il nome di Dio, perché usandolo per noi gli cambiamo il nome, gli facciamo fare a Dio quello che non è.
M.o & F.a
Per introdurre la discussione su questo argomento abbiamo pensato di leggere quanto il Catechismo della Chiesa Cattolica dice appunto sul secondo comandamento per fare insieme alcune riflessioni.
Nel catechismo leggiamo: “Il secondo comandamento proibisce l’abuso del nome di Dio”. E ad esempio di questa affermazione vengono considerati 3 casi:
- Le promesse fatte ad altri nel nome di Dio
- La bestemmia “parole di odio, di sfida, di rimprovero nel parlare male di Dio”
- Le imprecazioni, quando cioè si usa il nome di Dio senza arrivare alla bestemmia, ma con mancanza di rispetto.
Ci sembra che il riferimento al secondo comandamento in questi termini sia molto immediato. Se ciascuno di noi fosse chiamato a fare un esame di coscienza sul rispetto del secondo comandamento andrebbe subito ad esaminarsi su questi punti. E’ anche vero però che a volte l’educazione ricevuta e l’ambiente in cui viviamo ci tengono lontani dal cadere in queste tentazioni. L’imprecazione a volte diventa quasi un parlare comune, un intercalare, senza una vera intenzione di mancare rispetto.
C’è un secondo aspetto che viene richiamato nel catechismo e su cui vorremmo trattenerci per richiamare la nostra attenzione su come viviamo questo comandamento.
Il Catechismo ci ricorda che il Battesimo è conferito “nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo” e quindi il nostro nome è un richiamo continuo al sacramento ricevuto. Ma ci ricorda anche che il cristiano inizia la giornata segnandosi con il segno della croce “nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo”
A questo proposito vogliamo soffermare la nostra attenzione con 3 diverse situazioni esempi che possono avviare la nostra discussione e darci la possibilità di un confronto.
Per primo pensiamo alla religiosità della gente nelle feste popolari e nel culto verso santuari ed altre manifestazioni. Viene da ricordare che spesso mafia e camorra hanno utilizzato ed utilizzano queste feste non solo come fonte di guadagno ma anche per ribadire il proprio dominio ed il rispetto dovuto ad un “boss” della zona.
Questo magari sembra lontano da noi, ma anche noi, nel nostro “piccolo” possiamo fare un uso improprio della nostra religiosità, chiamando a conferma o sostegno delle nostre scelte Dio Padre, la Madonna, un santo in maniera non idonea. E’ su questo che dobbiamo riflettere perché la nostre fede ritrovi una semplicità che sia segno delle nostre scelte sincere.
Una seconda considerazione riguarda il periodo natalizio; il Natale è diventato per molti aspetti tutto fuorché il Natale. Sentire alla televisione slogan come: “Natale è…” accanto a nomi di prodotti reclamizzati è certamente un abuso del nome di Dio che nel Natale viene celebrato per il suo condividere la nostra natura umana.
Anche qui siamo chiamati a rivedere le nostre scelte. Vivere nelle festività natalizie un clima di legami familiari e di amicizia che sottolinei la gioia della festa è certamente un dato positivo. Diventa negativo laddove il clima stesso ci porta lontano dal suo vero significato. Io resto sempre molto male, e purtroppo anche quest’anno, quando il cenone della vigilia ci impegna e ci coinvolge al punto da sentirci troppo stanchi per partecipare alla messa di mezzanotte. Mi sembra un segnale che il cenone sia più importante della celebrazione eucaristica.
I segni del Natale quindi ce ne devono ricordare il vero senso ma non portarci distanti, utilizzando la festa per altri scopi.
Infine una terza considerazione riguarda il nostro rapporto con la Chiesa e in particolare con la parrocchia. Molti di noi sono impegnati in attività di catechesi o semplicemente partecipano alle attività della parrocchia. Ma quante volte questo impegno diventa solo un affermare le proprie capacità dando più importanza alla preparazione che non a quello che occorre fare. In altre parole c’è il rischio di utilizzare il nome di Dio in un impegno che però diventa quasi competizione tra chi è più bravo. In molte parrocchie viene contestato questo atteggiamento, presente certamente anche nella nostra.
Ma anche qui, guardiamo a noi stessi; a come sappiamo dare il nostro contributo solo e semplicemente per la testimonianza che vogliamo dare, spogliandoci da tutto quello che non è strettamente necessario alla realizzazione dello scopo.
Ovviamente altri esempi potrebbero arricchire questa panoramica. Abbiamo voluto solo dare un avvio alla discussione suggerendo un percorso di interpretazione di questo comandamento, senza fermarsi ad una lettura immediata e superficiale.
F.o
L’ho sempre visto in maniera riduttiva perché la bestemmia è scagliarsi contro Dio. Io devo invece riconoscere il mio Dio.
S.a
La mia esperienza: a 17 anni sono stata attratta dalla profondità delle parole e poi dal carisma della comunità di Sant’Egidio per l’aiuto ai poveri ed agli emarginati in forma di servizio.
Bisogna stare attenti a capire quanto, sia nel fare sia nell’ascoltare si vive l'”invano” o la sequela al Signore. Nel fare c’è un grande carisma ma c’è il rischio di abbandonare altre cose. Il cammino con il Signore, l’ascolto, il condividere è un calarmi in un servizio nella mia vita. Il tutte le cose che faccio, è il rapportarmi continuamente nel Signore che mi sembra di non usare il nome di Dio invano. Vanifichiamo il nome di Dio quando le nostre azioni sono compiute invano senza vedere la meta.
P.a
Cosa significa fare la volontà del Signore? Gesù ci ha detto ama il prossimo come te stesso. Bisogna attualizzare nel concreto, mettersi in gioco. La scelta dei miei figli, sono lontani dalla frequentazione, ma nel loro modo di agire mi sembra che abbiamo trasmesso loro dei valori.
d. F.o
La nostra esperienza cristiana è fatta di religione. Quando si romperà la religione, ritornerà la fede
T.o
Io sono convinto che tante realtà che sembrano solo del fare sono invece realtà di condivisione. Dobbiamo essere convinti che il Signore è presente anche in realtà laiche che agiscono per gli altri.
Gesù nell’Eucarestia ha parlato di condivisione: quindi in tante realtà laiche dove la chiesa non è presente, Gesù è presente.
F.o
Voglio calarmi nella realtà di tutti i giorni. C’è un abuso del nome di Dio anche tra le confessioni cristiane. Quante cose che si vestono di religiosità nominano il nome di Dio invano. Come i farisei che facevano una cosa ma non ci mettevano il cuore. Non dobbiamo dimenticare che vogliamo fare le cose nel nome di Dio. Dio si rivela a chi lo fa entrare. Dobbiamo imparare queste piccole cose per fare entrare Dio nella nostra vita. Accogliere il seme che viene in te in modo che il nome di Dio non venga pronunciato invano. Se ti viene da un altro p forse perché ti viene da Dio.
Noi possiamo far vivere il nome di Dio perché insieme nella coppia ne abbiamo ricevuto uno. Dobbiamo capire il significato dei sacramenti che abbiamo ricevuto. Dobbiamo ricordarci nei momenti nell avita familiare che stiamo vivendo il nostro sacramento.
Il Signore ci dà la grazia di conoscere persone che non nominano il nome di Dio invano. Ci sono persone che ci sono accanto che fanno la volontà di Dio e ce la fanno trasparire.
T.o
L’incontro di oggi sul terzo comandamento “Ricordati di santificare le feste” ci richiama alla mente la gioia vissuta il mese scorso nel celebrare insieme la nostra festa. Ho trovato una riflessione su questo comandamento di padre R. Cantalamessa.
Ci dobbiamo quindi chiedere: cosa significa per noi oggi questo comando “Ricordati di santificare le feste” rispetto a quello che era il percorso del popolo ebreo fino a Gesù quando lo scopo della comunità divenne l’ incontrarsi per leggere insieme i testi sacri e celebrare a Pasqua.
Cosa vuol dire “rendere sacra una festa”
La cultura di oggi è che anche la festa deve diventare un giorno normale. C’è più la voglia dell’evasione. Anche i ragazzi sono portati a fare interminabili notti del sabato sera per cui la domenica diventa il giorno del dormire. Santificare, invece,è portarsi fuori dall’ordinarietà. Anche nel mondo del lavoro c’è da scontrarsi con la realtà per cui si è immersi in un situazione convulsa. Ti viene chiesto di astrarsi per ritornare dentro te stesso.
Nella nostra esperienza vissuta il mese scorso, c’è stata una dimostrazione che un momento di festa si è reso sacro. Era una comunità che partecipava alla festa della nostra famiglia. Don Giovanni ci aveva spinto a trasformare la festa della nostra famiglia in festa della comunità. Ci ha fatto scoprire una comunione ma anche una sacralità.
Che cosa è sacro? E’ una cosa che non si può violare; per noi è stata un cosa che ora ci appartiene e che nessuno potrà toglierci. Non è stata più la nostra festa ma la festa di tutti.
L.a
Non dobbiamo ostacolare che la bellezza di Dio si manifesti attraverso di noi. Il matrimonio è uno di questi momenti. Il mondo moderno non crede più a niente. Noi dobbiamo testimoniare la bellezza del matrimonio. Partecipai ad un in incontro con mons. Paglia, anni fa, quando era delegato per l’ecumenismo. Fece una relazione sul significato di questo comandamento. Mi colpì una cosa a cui non avevo mai pensato: stando nella nostra casa noi facciamo tante cose nella domenica, a volte per avvantaggiarsi sugli altri giorni; questo non è giusto perché ogni istante della domenica dovrebbe essere dedicato a Dio. Io, per quanto posso, cerco di non fare niente che sia legato al lavoro quotidiano, per dedicare il tempo non solo alla preghiera ma anche al rapporto con gli altri della famiglia, a volte difficile negli altri giorni, o agli amici, le relazioni.
P.a
Molti sono portati ad andare via dalla famiglia; invee bisognerebbe dedicare il tempo alla famiglia. Il Signore lo incontriamo anche stando insieme.
F.a
Ha senso anche come testimonianza è come apertura che per te è importante. Tutti i comandamento appaiono nella loro forma come degli imperativi. Questo sembra più un’esortazione . E’ come se fosse messo in conto che dobbiamo lasciare spazio al Signore. Invece anche la preghiera è relegata in un momento veloce.
F.o
Santificare significa vivere con Di, mettere Dio al primo posto. L’aspetto del rapporto diretto con Dio. Il senso della festa tra ebrei e cristiani è diverso. Per gli ebrei la festa è più cultuale . Per i cristiani invece è anche il giorno della comunità. Per rendere reale il giorno del Signore occorre vivere nella comunità in cui l’eucarestia è il momento culminante. Occorre riscoprire il momento dell’eucarestia come momento di incontro. Occorre fare dell’eucarestia domenicale un momento bello Una comunità matura dovrebbe avere cuore tutta la celebrazione e tutte le celebrazioni. Nel futuro, dobbiamo essere coscienti, i sacerdoti non basteranno per soddisfare le richieste di oggi e dovremo, noi laici, farci carico di questo.
S.a
Il “ricordati” è anche nel vivere un’attesa durante la settimana, perché tutti sono chiamati a vivere questa tensione. C’è un’atmosfera più forte nella comunione con il Signore.
T.o
Santificare è eliminare le preoccupazioni. Siamo chiamati a liberarci da questo. Voglio ricordare l’episodio del vangelo di Marta e Maria. Gesù dice a Marta che non ha capito la scelta di Maria. Maria si dedica all’incontro con Gesù, che non gli sarà tolto (le mie parole non passeranno…). E’ questo il santificare: avere il tempo di uscire fuori dall’ordinario. Dobbiamo tirarci fuori dalle preoccupazioni. Da lì dobbiamo recuperare le forze per ripartire di nuovo. Possiamo richiamare qui anche il significato del giorno ‘primo’ ed ‘ottavo’ dato alla domenica, inizio fine del nostro percorso. La domenica diventa momento privilegiato.
G.i
A volte non si ha l’atteggiamento di voler stare insieme: il santificare la festa non deve essere un dovere ma un piacere di stare insieme.