Anno 1971
Tempo Pasquale
VEGLIA PASQUALE – Anno C
(Lc 24,1-12)
……. né il risuonare dell’organo, ma l’esultanza delle nostre anime, unite insieme dalla fede e dall’amore di Dio, devono cantare il Gloria che tutti insieme vogliamo recitare: GLORIA ……..
Alla fine del lungo silenzio di questo Sabato Santo ecco la parola di Dio che torna in mezzo a noi: “Perché cercate tra i morti Colui che è vivo? Non è qui. È risorto”. Ed ecco la nostra Pasqua, il nostro Mar Rosso passato, il nostro esodo compiuto. C’è uno di noi, un uomo come noi che si chiama Gesù Cristo che ha rotto il muro della morte ed è passato di là e di là ritorna con una luce indicibile, ineffabile, che è la luce di Dio eterno, a dire che ci attende, che la Sua strada è la nostra strada, che la Sua morte, vincendo il muro dell’angoscia e della disperazione ha illuminato la nostra morte.
La nostra Pasqua è tutta qui, in questo avere la certezza profonda che già siamo arrivati di là, in Lui che è uno di noi e che, quindi, la nostra vita ha un significato, ha un senso che va al di là dell’orizzonte stretto ed angosciante della vicenda terrena, che la nostra vita ha una luce depositata in sé stessa che le viene donata de Dio nella vicenda del mondo. La Sua Pasqua, il Suo passaggio da questa vita al Padre diventa cosi la nostra vocazione. Ed ecco il senso della celebrazione che stiamo compiendo: la nostra vocazione di battezzati, di credenti in Lui che sono chiamati a ripetere il Suo stesso itinerario dalla morte alla vita, dalla terra al cielo, dall’umanità alla divinità, dalla solitudine e dall’angoscia alla pienezza eterna della vita beata del Paradiso. È il Suo sabato Santo, questo silenzio angoscioso che ha invaso l’anima dei discepoli, portando in loro dubbi tremendi, incertezze angoscianti, oscurità disperate fino a far credere loro che tutta la Sua parola e la Sua missione era stata soltanto come una fata morgana che adesso si allontanava nella dura e concreta realtà del Suo seppellimento, il Suo sabato santo diventa il senso della nostra vigilia terrena; di questa vigilia in cui sembra che Dio non esista, in cui sulla realtà di Dio, veramente sembra calata la pietra dura di tutti i nostri scetticismi, di tutte le nostre ideologie, di tutte le nostre politiche che non lasciano spazio per un Dio che non si vede, che non si tocca, che non mantiene sulla terra le Sue promesse per cui questa nostra esistenza terrena sembra, com’è stata sovente definita, ai tempi nostri, l’esistenza della morte di Dio. Il Suo sabato santo diventa il senso della nostra vigilia che diventa come un sabato santo, il nostro passaggio sulla terra, dove, nella difficoltà e nella durezza della fede, mentre sentiamo il peso angosciante della Sua assenza, della mancanza della Sua parole e della Sua presenza, noi, però, come il Cristo che crede all’amore del Padre, al di là della Sua stessa morte, attendiamo che Egli ci si riveli e che ci accolga nella Sua casa.
E oggi, mentre rinnoviamo le promesse del battesimo, mentre nel nostro fratellino che riceve il battesimo qui, in mezzo alla Comunità radunata nel nome della vittoria di Cristo, noi vogliamo pregarLo Cristo fratello nostro, arrivato per primo, vogliamo pregarLo che, nel cammino della vita, non permetta che le circostanze, il peso dell’esistenza, l’oppressione del dolore fisico e della sofferenza morale tolgano a noi la speranza del popolo di Dio che sa di essere radunato dall’amore del Padre e di essere atteso da questo amore. Vogliamo pregarLo che, come la luce di questo cero che brilla questa notte in mezzo a noi, Egli voglia restare nelle nostre comunità di credenti, nella Chiesa e nel mondo a Portare la speranza, a portare la certezza della Sua vittoria che è garanzia della nostra vittoria definitiva, a portare quella forza che, tante volte, se fossimo soli, certamente ci mancherebbe e che invece con Lui ci può accompagnare come la nuvola che accompagnava il passaggio del popolo eletto lungo il deserto ed il Mar Rosso.
Fratelli miei, mentre rinnoviamo le promesse del battesimo, ravviviamo la nostra fede. La Pasqua che celebriamo attraverso la rinnovata liturgia, non è una Pasqua che concede molto spazio ai sentimentalismi. Forse minore solennità; orse minore rumore. Ma quanta maggiore consapevolezza; quanta maggiore luce nelle nostre anime! E sentiamo che, nell’arrivo di Cristo nella Gloria del Padre è tutto il senso della nostra vita, tutta la nostra vocazione. E quanta forza viene alle nostre famiglie, al nostro lavoro, alle nostre singole vite personali dal pensiero di questa vittoria già, ottenuta, che non chiede altro che di essere creduta, di essere sperata, di essere amata, di essere seguita quotidianamente, perché diventi anche la nostra vittoria.
Cosi voglia il Signore con la Sua grazia.
II DOMENICA DI PASQUA – Anno C
(At 5,12-16; Sal. 117; Ap 1,9-11.12-13.17-19; Gv 20,19-31)
La Pasqua è passata. La celebrazione esteriore è volata via come tutte le cose che durano un giorno. Oggi la giornata, grigia anche nel tempo, sembra essere un po’ il segno esterno di quel tempo che rimane, i1 tempo che noi dobbiamo vivere prosaicamente, in quella che in fondo è la nostra vita di ogni giorno, in cui non ci sono tanto delle celebrazioni gioiose da vivere quanto la durezza di un cammino, in cui la gioia e la luce non sono certo l’elemento preminente e preponderante.
Eppure la Chiesa, chiamandoci in questo primo giorno della settimana intorno all’altare del Signore, ci ripete l’annuncio della Pasqua e ce lo ripete in termini di un’estrema concretezza, la Chiesa che conosce la natura degli uomini, e che ci ripropone, attraverso le parole stesse di Gesù, questa strana beatitudine: “Beati coloro che crederanno senza avere veduto!”. Ecco, fratelli miei, mi sembra stamattina che dobbiamo fermarci un istante qui: da una parte un fatto che noi abbiamo conosciuto, la resurrezione del Cristo, da un’altra parte la nostra vita, un altro fatto, un’altra situazione, che non sembra essere cosi legata a quella resurrezione, che non sembra essere cosi fecondata, cosi illuminata, cosi resa nuova da questa presenza del Signore che, mentre viene affermata in quella resurrezione, resta tuttavia misteriosa, perché questa presenza del resuscitato noi non la vediamo, non la sentiamo, non ne godiamo il beneficio.
E stamattina il Cristo ci dice: “Beati, se crederete pur senza aver veduto e toccato”. Noi siamo chiamati a vivere questa fede, a ravvivarla in noi, che Cristo è veramente risorto. La Comunità dei suoi discepoli l’ha visto, la comunità di coloro che erano rimasti sbigottiti, sgomenti per la Sua morte e per la perdita di ogni speranza in quel regno di Dio che Egli aveva predicato, la Comunità di quei delusi che avevano circondato la Sua croce e se ne erano fuggiti via scandalizzati, ha potuto toccare con mano come Tommaso oggi, nel Vangelo di Giovanni, le Sue ferite. E di questo si è fatto testimone. E da questo fatto noi siamo chiamati a credere, a credere pienamente, non a credere intellettualmente soltanto, a credere veramente e credere veramente significa che, se Cristo è risorto, allora vuol dire che Dio esiste. Non soltanto; se Cristo è risorto, vuol dire che Dio ci ama. E non basta ancora: vuol dire che, se Cristo è risorto e Cristo è un uomo come noi, allora Dio è diventato il Dio dell’umanità, presente nelll’umanità, e noi siamo diventati l’umanità di Dio, in un incontro che non potrà mai più essere rotto, un incontro nuziale come era stato previsto e profetizzato nella Scrittura dell’Antico Testamento, per cui lo sposo e la sposa sono fatti per essere una cosa sola e per sempre e cosi Dio e l’umanità, in Cristo, si incontrano e sono sempre insieme.
Ecco perché abbiamo letto ed abbiamo ripetuto: “L’amore del Signore è per sempre”. Nel fatto della resurrezione di Gesù noi sappiamo che Dio ci ama ed è una certezza, fratelli miei, che siamo chiamati, oggi, a rendere più certa di tutte le nostre altre certezze. Ecco le certezze che noi viviamo giorno per giorno, non c’è bisogno che io ve le ripeta, sono le certezze delle nostre incertezze, e non è un gioco di parole: certezza della nostra fatica di cammino, certezza della nostra provvisorietà, delle nostre malattie, delle nostre morti, della nostra fatica di vivere, del nostro stesso peccato, della nostra condizione che è una condizione di miseria.
E quante volte siamo portati a pensare: ma se Dio veramente fosse il Dio dell’umanità non mi lascerebbe in questa situazione, mi toglierebbe da questa incertezza e da questa fatica, se veramente mi amasse, perché quando io amo una persona, cerco di spianare la strada davanti ai piedi di questa persona e, se io ho un figlio e lo amo veramente, cerco di aiutarlo in ogni circostanza ed in ogni sofferenza della sua vita, e, se posso evitargli anche un po’ di sofferenza, gliela evito. Di fronte a questo, i1 Cristo risorto che porta nella Sue mani, e nel Suo petto le ferite della passione, ci dice: “Beati quelli che credono anche senza vedere!”. Ed a noi è chiesto di credere, di firmare in bianco questa cambiale dell’amore di Dio da credere dal momento che questo amore ci si è manifestato in una pienezza indescrivibile proprio nella resurrezione di Gesù. Ed allora, qualsiasi sia la condizione della nostra esistenza, qualsiasi la sofferenza che dobbiamo attraversare, qualsiasi la prova che dobbiamo sopportare, credo che per noi credere nella resurrezione di Gesù significhi vivere questa pace di fondo nell’animo che nessuna situazione, nessun dolore, che nessuna fatica e nessuna morte può toglierci l’amore di Dio.
Fratelli, questa certezza nel Dio che ci ama in Cristo risorto diventa capacità di donare la gioia e la pace, diventa addirittura capacità di far prodigi, non perché siamo per capacità nostra nelle possibilità di compiere prodigi. È bello vedere che la gente capisce che l’ombra di Pietro può sanare perché non è la persona di Pietro; Pietro è portatore di una altra realtà: è Cristo che sana. Però noi, povera gente, povere creature, noi diventiamo capaci, per questa grazia dello Spirito Santo, che è il dono del Cristo risorto, di portare la pace. E credo che la fede nella resurrezione di una Comunità Cristiana si riconosca proprio in questo essere segno della riconciliazione, i1 segno della pace, il segno della pace che nasce non dalle cose umane sistemate bene, cercate di capire, i1 segno di una pace che non viene dall’aver fatto bene tutte le cose: tu hai fatto il tuo dovere, tu hai fatto il tuo dovere, io ho fatto il mio dovere, perciò siamo in pace e siamo riconciliati, no. Ma una pace che viene dal fatto che, comunque noi siamo e qualsiasi torto noi ci siamo potuto fare l’uno verso l’altro e qualsiasi sofferenza noi dobbiamo sopportare a motivo della nostra convivenza, l’amore di Dio non ci lascia. E questo è il motivo della nostra pace e di quel perdono che dobbiamo scambiarci vicendevolmente in qualsiasi situazione della nostra vita.
Capite, fratelli miei: tante volte nel nostro vivere insieme nelle famiglie, negli uffici, nelle amicizie, nella nostra comunità di Parrocchia, nel nostro vivere insieme, quasi quasi continuiamo a pensare che la pace debba essere il frutto di accordi umani, di realizzazioni umane, di consensi umani, e ci affanniamo e a volte ci disperiamo, perché, mettendoci di impegno, non riusciamo a trovare un terreno stabile per questi accordi umani e, quando abbiamo rimediato da una parte, ecco che ci si apre una frana dall’altra parte. E quando abbiamo raggiunto l’accordo con una persona, ecco che ci troviamo in disaccordo con un’altra persona. E quando abbiamo realizzato un lavoro bello da una parte, ecco che ci fallisce un altro lavoro che, magari, avevamo sperato che resistesse. E la nostra vita è come logorata da questa durezza del cammino. Ecco, credo che la fede nella risurrezione del Signore ci chieda di essere portatori di una pace che non viene dall’aver messo a posto tutte le cose, ma da questa certezza dell’amore di Dio che non ci abbandona, ma diventa capacità di accertarci anche quando sbagliamo, di volerci bene anche quando ci facciamo dei torti, di aiutarci anche quando ci facciamo resistenza, di camminare anche quando non abbiamo né voglia né capacità di camminare insieme. Per questo la comunità cristiana che crede nella Pasqua, nella resurrezione del Signore, diventa il segno della riconciliazione di una comunità che vive il perdono, lo vive in ogni momento della propria esistenza. Io vorrei che, oggi, mentre celebriamo l’Eucarestia, questo chiedessimo al Signore risorto che ci dia la possibilità di avere il Suo Spirito per essere certi della resurrezione e delle conseguenze che ne vengono. La certezza dell’amore di Dio, la certezza dì poter camminare e di poter essere in pace con tutti gli uomini perché Lui è il segno della vittoria sul peccato e sulla morte, perché Lui è il segno che Dio è con noi e non ci abbandona più.
III DOMENICA DI PASQUA – Anno C
(At 5,27-32.40-41; Sal. 29; Ap 5,11-14; Gv 21,1-19)
La nostra riflessione sul mistero della Resurrezione deve andare avanti. Dicevamo, domenica scorsa, se lo ricordate, che la nostra pietà cristiana, se si fermasse nella contemplazione del Crocifisso, se non passasse nella contemplazione e nella riflessione sul mistero della resurrezione, non sarebbe completa.
Un Cristo, soltanto crocifisso e non risorto, non potrebbe salvarci. E dicevamo: per questo la testimonianza più grande da portare alle nostre anime, da vivere reciprocamente in quell’amore scambievole che deve fare della nostra vita un dono continuo di quella fede che ci è stata data perché sia sostegno reciproco: la mia fede sostegno alla tua fede e la tua fede sostegno alla mia fede, la testimonianza più grande della fede è proprio la testimonianza del Risorto, da vivere con umiltà, ma con fortezza, nella nostra esistenza. Ed è per questo che la prima Comunità cristiana non aveva altra preoccupazione che di essere testimone della resurrezione, perché è il Cristo che ritorna al Padre e ci salva.
Per un istante soltanto, fratelli, anche se un po’ difficile, pensiamo insieme a questa verità per scoprire quel rapporto con Lui di amore, di riconoscenza, di intimità che deve animare la nostra pietà cristiana. E per il fatto che Cristo si sottomette al Padre in tutte le cose, per il fatto che fa di Dio il Dio della Sua vita, il Signore della Sua vita, per il fatto che di fronte all’esigenza di Dio sposta tutto quello che è Suo personale, per cui in Cristo non esiste alcun egoismo, per questo fatto Dio può realizzare in Lui, nella Sua umanità, la Sua Promessa.
Vi ricordate la profezia che qualche volta abbiamo citata del Vecchio Testamento, quando il Signore parla del Suo popolo e dice che il Suo popolo comincerà ad essere tale quando gli uomini si convertiranno alla Sua volontà? “Verrà il momento – dice la profezia del Vecchio Testamento, – in cui io non vi chiamerà più col vostro nome, una vi chiamerò “mia volontà”, mia volontà incarnata e quello sarà il momento in cui voi sarete il mio popolo ed io sarò il vostro Dio.”
Ecco Cristo che obbedisce al Padre anche quando, Questo Gli chiede di perdere tutta la propria esistenza, tutta la propria opera, tutta la propria dignità, tutto il proprio onore.
Cristo sulla Croce è la volontà di Dio, Lui e Dio sono una cosa sola. Per questo Dio può realizzare in Lui la Sua promessa, riempiendoLo del Suo spirito, Lo risuscita, lo strappa alla morte, Lo porta accanto a Sè. Noi diciamo nel Credo: “Siede alla destra del Padre Onnipotente”. Questo è l’itinerario pasquale del Cristo che diventa itinerario pasquale che viene proposto a tutta l’umanità, e quella umanità che voglia, nell’accoglienza del messaggio di Cristo, essere il popolo di Dio, dovrà vivere questo itinerario, chiedendo di restare nella fede a quel Cristo che é passato prima di noi, che è arrivato prima di noi e che misteriosamente rimane in mezzo a noi mediante il dono del suo spirito, perché anche alla nostra povertà sia dato di passare attraverso questo itinerario per arrivare a Dio, alla famiglia dei figli di Dio, alla condizione eterna della partecipazione alla sua resurrezione. E perché questo ci sia possibile, fratelli, Cristo risorto rimane con noi. Ma che cosa misteriosa!, lo vedete; questo Cristo risorto, in tutte le sue apparizioni non viene riconosciuto facilmente dai discepoli, ha delle fattezze, ha dei lineamenti che non sono facilmente riconoscibili. Cristo è piuttosto riconosciuto dai gesti, dal modo di comportarsi; ed ecco che i discepoli di Emmaus Lo riconoscono alla frazione del pane, i discepoli, oggi, Lo riconoscono alla pesca miracolosa. E a me sembra che noi oggi vogliamo fare questa riflessione. L’itinerario cristiano, l’itinerario pasquale di Cristo diventa nostro, soltanto se noi ci convinciamo di una cosa, che Cristo è rimasto in mezzo a noi nelle sembianze dell’umanità, di qualsiasi umanità e qualsiasi persona che si avvicini a noi in qualsiasi momento. Quello è il Cristo, il Cristo da riconoscere come Colui che già è presso il Padre e che chiede a noi di compiere il Suo stesso itinerario servendo l’umanità. Ecco perché Cristo risorto non si siede in un punto preciso della terra, quasi in un Santuario, dove noi dovremmo poi andare per vederlo almeno una volta nella vita. Non fa questo Cristo. Cristo rimane con noi, ma rimane nelle fattezze dell’umanità e il nostro rapporto con Lui sarà vero, sarà autentico, il nostro cammino verso il Padre sarà simile al Suo, sarà accetto, sarà pienamente cristiano se noi Lo serviremo nell’umanità. Per questo, ancora una volta, come tante volte abbiamo detto lungo il corso dell’anno, la contemplazione del mistero diventa vocazione per noi. Per questo il cristiano che crede alla resurrezione non è colui che sta con gli occhi in alto a guardare sopra le nuvole cercando di intravedere la figura misteriosa del Cristo risorto. Il cristiano che crede alla resurrezione è il cristiano buttato sulla terra, nella storia degli uomini, a servire l’umanità, ad amarla come Cristo la ha amata pagando di persona.
Ed ecco che ogni sforzo di miglioramento degli uomini, ogni lotta di liberazione, ogni impegno di accrescimento dell’umanità, ogni fatica per lenire, per addolcire le pene dell’uomo, diventano impegno quotidiano del cristiano che veramente crede nella resurrezione, perché il cristiano ripiegato nella devozione, sia pure nella devozione al crocifisso, non crede nella resurrezione. Il cristiano che crede nella resurrezione veramente è quello che alla fine della Messa si sente buttato fuori della Chiesa, non per cominciare a sognare la Messa della domenica successiva, ma per cominciare la missione che gli viene da Cristo: andate, siate testimoni, percorrete lo stesso itinerario facendo dell’incontro con l’umanità un incontro d’amore. Ecco perché ogni cristiano ha un compito preciso da svolgere nell’umanità e nella Chiesa, ecco perché nel popolo di Dio nessuno c’è che non abbia da fare in questo senso per la testimonianza della resurrezione. Ecco perché ogni cristiano ha una sua precisa e persona le vocazione. Questa parola di Gesù cosi forte, detta a Pietro dopo la resurrezione: “Seguimi!”, con cui finisce il brano del Vangelo di oggi, è un imperativo, è un comando, è un invito che viene rivolto anche a ciascuno di noi. Ognuno di noi una vocazione e ad alcuni di noi la vocazione a dare tutto. Per questa testimonianza e per entrare in questo sforzo di miglioramento e di liberazione dell’umanità, per essere, come i discepoli, consacrati totalmente, senza riserve, né di tempo, né di spazio, né di affetti, a questa che è la causa di Cristo.
Oggi, terza domenica di Pasqua, in tutto il mondo è la giornata delle vocazioni sacerdotali: ecco perché sono presenti alla nostra Eucarestia anche due fratelli dei Seminario Arcivescovile. Oggi non ci interessa tanto quella partecipazione materiale ai problemi del Seminario, che pure è doverosa partecipazione, perché la cura della preparazione dei nuovi sacerdoti spetta non soltanto all’Arcivescovo, ma a tutta la Comunità cristiana; per questo al vostro posto è stata messa una busta che dovrete considerare con responsabilità. Ma il problema più importante è un altro. La presenza dei fratelli seminaristi ci dice che anche oggi Cristo risorto passa per le nostre strade a dire ad alcune persone: “Mi vuoi seguire per questa strada, lasciando tutto il resto e preoccupandoti soltanto di questa causa che è la più nobile, la più santa, la più elevata di tutte le cause umane: questo impegno ad essere testimoni nel mondo della paternità di Dio nella resurrezione del Figlio, questo impegno a dare tutto il tuo tempo, tutto il tuo spazio, lo spazio della tua vita, perché i giovani abbiano il senso della vita, perché gli anziani abbiano una speranza da vivere, perché i malati possano superare lo sgomento della solitudine, dell’abbandono, dell’avvilimento fisico, perché le persone che affogano le noie nella droga e nell’esaltazione dei sensi, possano scoprire una parola di speranza e di conforto quando, nell’assopimento, scopriranno che niente avranno avuto da queste cose?”. Puoi, puoi dare la vita per continuare questa missione che Cristo ha inaugurato e che Dio vuole continuare, attraverso l’adesione delle anime generose nel mondo intero.
Fratelli miei, io mi fermo qui, perché il resto spetta alle Spirito Santo, però lasciatemi dire che io sono profondamente convinto – e lo dico sopra tutto ai nostri giovani, ai giovani ed alle ragazze che sono presenti qui, e che sono tanti, grazie a Dio, nella nostra Comunità – lo dico con trepidazione perché so che posso portare attraverso quello che dico, lo scombussolamento nelle anime, però lo dico anche con responsabilità gioiosa: la Comunità cristiana deve generare anime consacrate, anime tutte per Dio, tutte per questa causa del Vangelo.
Io sono sicuro che il Cristo che passa e chiama sta passando e sta chiamando anche nella nostra Comunità. A me non interessa che oggi venga fuori chi dica: “Sono io il chiamato”. A me interessa che la nostra Eucarestia sia piena della preghiera perché coloro ai quali Cristo rivolge la chiamata alla vita consacrata ed al Sacerdozio sappiano, per la fede di tutti e con l’aiuto di tutti, rispondere il si di Pietro e dei Dodici.
IV DOMENICA DI PASQUA – Anno C
(At 13,14.43-52; Sal. 99; Ap 7,9.14-17; Gv 10,27-30)
Fratelli, la riflessione del mistero della resurrezione continua ad incalzare nelle nostre anime attraverso il linguaggio della liturgia, attraverso la volontà della Chiesa che vuole che noi entriamo dentro alla contemplazione del mistero per esserne intimamente modificati e diventa obbligo dunque, per noi, obbligo di fede, lo sforzo di comprendere sempre meglio, di comprendere, come vi accennavo all’inizio, non soltanto il fatto, il fatto cioè che il Signore è risorto dai morti, ma il significato che il fatto storico ha per noi, per noi che siamo chiamati alla fede. Ed ecco la lettura dell’Apocalisse nel linguaggio, in verità difficile, per le nostre orecchie, il linguaggio simbolico della profezia, ecco la lettura dell’Apocalisse che ha fatto vedere l’Agnello immolato, cioè Cristo, presente davanti al trono di Dio e circondato da una moltitudine immensa di ogni razza, nazione, di ogni provenienza che è il segno simbolico di tutta l’umanità radunata intorno a Lui. C’è una spiegazione ed una vocazione, come sempre, nella visione profetica: la spiegazione che è proprio il sacrificio di Cristo, quel Suo mettersi a totale disposizione del Padre, come abbiamo visto lungo il corso di tutta la nostra riflessione quaresimale e pasquale, e la Sua totale obbedienza e disponibilità al Padre che fa in modo che Dio sia pienamente realizzato in Lui e che Lui, la Sua umanità sia pienamente realizzata in Dio, perché Dio è vita, Dio è amore; e là dove c’è una vita d’amore, là dove l’amore è vissuto, cosi come in Dio, fatto di gratuità, di donazione senza riserva, fatto di adesione piena a quella proposta del Padre che è sempre cosi costantemente presente nell’atteggiamento di Cristo, ecco, quando la vita è vissuta cosi, allora, in questa vita, Dio è presente e questa vita non può conoscere il disfacimento della morte. L’umanità di Cristo, come l’umanità di tutti noi, passa per la morte, ma non resta nella morte dal momento che è un’umanità che appartiene a Dio perché costantemente ha cercato di vivere non per sé, ma per Dio, per la Sua paternità, perché il Suo disegno sull’umanità si potesse realizzare. E Cristo risorto diventa il capostipite, il nuovo Adamo – ci dice S. Paolo – Colui al Quale l’umanità deve guardare se vuole realizzare sé stessa. E coloro che sono chiamati i testimoni della Sua resurrezione nel mondo, coloro che per il dono gratuito della fede hanno avuto la chiamata a testimoniare questo fatto, che cioè Dio non ha lasciato nella tomba Cristo ma Lo ha risuscitato, perché è vissuto per amore; ecco coloro che sono chiamati alla fede, sona chiamati a percorrere lo stesso itinerario di Cristo. Come Lui si è fatto testimone presso l’umanità dell’amore del Padre con tutto il proprio essere, cosi i chiamati alla fede: essere testimoni di questo amore gratuito ed universale che si é riversato su tutta l’umanità e che vuole che tutta l’umanità arrivi a quella casa del Padre dove Lui, l’Agnello immolato è già arrivato. Io oggi sentivo di fare, un momento, una riflessione che mi sembra molto importante. Il mistero pasquale – e questo già lo abbiamo riflettuto e in questo momento lo vogliamo soltanto richiamare – diventa nostro, la pasqua di Cristo diventa nostra Pasqua, quando noi veramente e seriamente – lasciatemi dire questa espressione: seriamente – cioè con tutta la nostra responsabilità di uomini, con quella stessa serietà che è visibile nell’umanità di Cristo, quel mistero pasquale, Pasqua della nostra vita, la Pasqua di Cristo diventa la nostra Pasqua, quando noi seriamente ci decidiamo a vivere con Lui cioè a fare del disegno di Dio il centro, il motivo conduttore, la tensione fondamentale continua della nostra esistenza; quando noi ci decidiamo, ciascuno al proprio posto, a vivere per quello, fratelli miei, perché Dio sia il Padre di tutti gli uomini e perché tutti gli uomini siano figli di Dio. Con questa seria convinzione, con questa verità dentro che deve illuminare costantemente la nostra esistenza ed a cui dobbiamo costantemente richiamarci, qualsiasi siano i momenti che noi attraversiamo di vittoria o di sconfitta, facile o difficile, di virtù o di peccato, in questa che secondo il linguaggio moderno si chiama l’opzione fondamentale, la scelta di fondo della nostra esistenza, in questo noi dobbiamo aiutarci ad entrare sempre, ma non per noi, fratelli, non per noi soltanto, e qui mi sembra un punto centrale della parola di Dio di oggi, ma per tutta l’umanità, cioè dobbiamo entrare in una profonda convinzione che la rivelazione del mistero pasquale di Cristo, i1 dono della fede ci è dato non come qualcosa che finisca in noi stessi, ma come un qualcosa che, passando attraverso di noi, sia destinato a tutta l’umanità. Vi prego di fare lo sforzo di seguirmi, ma secondo me, la comprensione di questo fatto, di questa verità è fondamentale anche per la nostra vita quotidiana e per la vita della nostra comunità. Il dono di Dio è per tutta l’umanità, senza distinzione né di razze, né di nazioni, né di meriti, né di demeriti, né di classi sociali, né di partiti politici. E la moltitudine immensa, raccolta intorno all’Agnello nella visione dell’Apocalisse, ci dice come vera mente Cristo sia morto per tutta l’umanità. Quindi chi è chiamato alla fede, chi è chiamato a percorrere nella propria esistenza l’itinerario di Cristo, è chiamato a testimoniarlo questo mistero e questo itinerario è il fatto della resurrezione a tutta l’umanità.
Io sono rimasto molto impressionato, voglio dirvelo, e abbiano pazienza un po’ le persone che forse sono capitate cosi, casualmente, in Chiesa, se io parlo più confidenzialmente sopratutto a quelli che fanno parte della nostra Comunità Parrocchiale, io sono rimasto molto impressionato dalla lettura degli Atti degli Apostoli di stamattina, da come Paolo e Barnaba ad un certo tratto lasciano la comunità religiosa che non vuol capire l’universalità del disegno di Dio, e se ne vanno ad annunciare il Vangelo ad altri. Non si fermano a fare discussioni su discussioni, solo propongono il disegno di Dio e chiedono alla gente che li ha ascoltati, alla comunità ebrea che li ascoltava in quel momento di entrare in questo disegno con quella serietà umana di cui Vi dicevo prima. Se vi sentite chiamati alla fede, allora scegliete di entrare in questo disegno e di lavorare per questo e di vivere per questo, non vi cruogiolate all’interno della nostra comunità, non vi contentate di essere una comunità di credenti che ogni sabato si ritrova nella sinagoga. C’è una vocazione ben più grande della sinagoga che voi dovete vivere e di cui dovete essere testimoni ed è la vocazione dell’amore di Dio per tutti gli uomini di cui voi dovete diventare specchio trasparente per tutta l’umanità. Loro non accettano, sono contenti e sazi della loro religiosità di ogni sabato e Paolo e Barnaba sentono che questo non è il Vangelo, che questo non é ………… e se ne vanno. Ora a me sembra questo, fratelli miei: l’Eucarestia che noi celebriamo di domenica in domenica e che ci mette completamente non soltanto nella meditazione, ma nella realtà della resurrezione del Signore, che ci fa partecipi del Suo mistero pasquale, non può essere fine a sé stessa. Noi non siamo testimoni della resurrezione soltanto quando ci ritroviamo di domenica in domenica nelle nostro comunità liturgiche a dire la lode del Signore ed a pregarlo insieme ed a scambiarci insieme il segno della pace, perché noi qui non siamo tutta l’umanità, siamo soltanto una parte infinitesimale dell’umanità. Io vorrei domandare a voi se l’umanità è quella rappresentata dal nostro esser presenti in tre o quattrocento qui la domenica mattina o in tre o quattromila lungo tutto il corso della giornata domenicale o non sia più presente nei comizi e nei cortei che ieri, primo maggio, hanno percorso tutte le varie città del mondo. Badate che io non faccio un discorso politico, non mi importa delle camere del lavoro, dei sindacati o di altre cose di questo genere. Voglio dire però che noi non abbiamo la presunzione di esaurire i confini dell’umanità, perché abbiamo la Chiesa piena e perché, magari, abbiamo scoperto un modo più bello di celebrare l’Eucarestia. Se noi ci saziassimo dell’Eucarestia che celebriamo, fratelli miei, noi tradiremmo il Vangelo. La cosa importante che a me sembra di dover dire a me ed a voi, stamattina, è questa: se noi siamo chiamati ad essere i testimoni della resurrezione del Signore di fronte all’umanità, e lo siamo chiamati, perché la nostra presenza qui è il segno di questa chiamata, allora non possiamo perderci in discussioni, in accademie, in conventicoli, in gruppetti che vivono esclusivamente la gioia di stare bene insieme. A noi è chiesto di scegliere concretamente Dio nel mistero di Gesù ed è chiesto di testimoniarLo di fronte e tutto il mondo, non soltanto perciò di fronte ai fratelli di fede, non soltanto a quelli che stamattina ci stringeremo la mano insieme, ma a tutti. Ognuno di voi sa cosa significhi questa parola di Dio nel piccolo della propria vita personale, della propria vita familiare e della propria vita professionale. Ed è stamattina che io sento, con tanta forza, di dovervi riproporre tutto.
Anche la nostra Comunità Parrocchiale che per il fatto che celebra l’Eucarestia in mezzo ad un quartiere è chiamata ad essere testimone della resurrezione del Signore di fronte a tutto il quartiere. Testimone della resurrezione, con un modo di essere dei singoli e di tutta la comunità che è tutta da scoprire perché noi non sappiamo ancora che cosa significhi essere testimoni della resurrezione di fronte a …………
Oggi mentre pensiamo a questa vocazione di tutta l’umanità a Dio, mentre vediamo l’atteggiamento deciso di Paolo e Barnaba che lasciano stare alle loro spalle e vanno fuori da coloro che non vogliono capire e non si decidono a vivere seriamente la fede nella resurrezione, mentre pensiamo a queste cose vogliamo pregare, perché il Signore ci conceda non soltanto di comprendere, ma di immettere la nostra esistenza nella verità che abbiamo compresa.
V DOMENICA DI PASQUA – Anno C
(At 14,21-27; Sal. 144; Ap 21,1-5; Gv 13,31-35)
….. la nuova Gerusalemme, di questa città santa che si vede discendere dal Cielo, nella visione profetica, pronta come una sposa bella adorna per lo sposo, questa visione che la Chiesa oggi ci annuncia nella sua liturgia, ci porta alla contemplazione della pienezza del mistero Pasquale. La resurrezione di Cristo, è venuta, nella storia dell’umanità, per rendere possibile ed attuabile il disegno primo di Dio: “facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”. L’uomo nuovo, l’uomo che vivrà al di fuori della dimensione del lutto, del lamento, del dolore, della morte, l’uomo che avrà superato queste cose e che sarà con Cristo in Dio, l’uomo sarà veramente l’uomo pensato ed amato da Dio al momento della creazione. La nuova creazione che sarà nella vita eterna, che permetterà a noi non soltanto di sperare di essere, ma di essere realmente figli di Dio che vivono come Lui e che come Lui amano i fratelli, come Lui sono in una comunione profonda con tutta l’umanità di cui faranno parte nella glorificazione eterna, ecco questa glorificazione è possibile dal momento che Cristo è risorto da morte. E questo è l’atto di fede che noi, come discepoli della prima ora, siamo chiamati a fare: non temete – dirà Gesù – io ho vinto il mondo proprio attraverso questa morte portata con umiltà, con obbedienza di fede, io ho vinto la morte, proprio perché sono stato di Dio anche nel momento del dolore, sopratutto nel momento della sofferenza, proprio per questo sono di Dio al di là della morte. Il “non temete” che Gesù ci dice, deve diventare l’anima della nostra esistenza.
Fratelli, questa realtà che noi non vediamo ancora e che sarebbe un’utopia aspettarsi dalla vita dell’uomo sulla terra, perché ci viene annunciata come una realtà che sarà possibile soltanto al di là del confine di questa vita terrena, al di là del confine della morte, questa realtà, tuttavia, deve essere, in qualche modo, visibile sulla terra, perché altrimenti gli uomini vivono senza speranza, altrimenti gli uomini restano preda dei loro peccati, della loro finitezza, del loro limite fino al punto di perdere qualsiasi luce, qualsiasi forza per andare avanti. Ed è perché gli uomini possano avere la speranza in questa vita nuova che sarà definitivamente nuova, perché definitivamente piena di Dio, e proprio perché gli uomini possano avere, in seno alla loro convivenza un segno di questa novità definitiva che Dio ha voluto la Chiesa che Cristo ha fondato la Chiesa come società di uomini che, pur vivendo il limite della loro natura umana, della loro vicenda terrena, tuttavia siano il segno, il segno visibile e credibile di questa nuova società che dovrà venire nel futuro. Ed ecco che i chiamati alla vita di fede nel Cristo, sono chiamati ad essere uniti nel Suo nome, sono chiamati ad essere fusi come una sola famiglia, in un sol cuore di cui l’unica legge è la carità fraterna. Da questo si potrà credere in Cristo, da questo si potrà considerare l’annuncio profetico del Vangelo non come una utopia ma come una realtà vera che ci attende, da questo si potrà capire che Dio non ci inganna, dal fatto, cioè, che i credenti in Cristo assumano come legge fondamentale della loro vita, quell’amore scambievole che Gesù ha lasciato come il Suo comandamento. Ed ecco, vedete, che la considerazione del mistero Pasquale diventa tremendamente stringente, diventa un qualche cosa che ci prende personalmente e non lascia spazio per evasione né di ordine spirituale, né di ordine intellettuale, né di ordine esistenziale: qua c’è Gesù che ci prende uno per uno e ci dice: “tu sei chiamato alla fede in Dio; se sei chiamato ad essere mio discepolo, non puoi avere altra legge che quella dell’amore scambievole”.
Fratelli miei, vi dico legge, non sentimento; e Gesù per questo non ha detto: “Vi lascio un sentimento nel cuore; amatevi come io vi ho amati”. Gesù dice: “Vi lascio un comando”. Come un impegno che deve essere nella scelta di tutti i discepoli; perché il sentimento può essere fluttuante, i1 sentimento può essere legato agli alti e bassi del successo e dell’insuccesso, del buon umore e del cattivo umore, delle cose facili e delle cose difficili. E noi facciamo l’esperienza del sentimento: nei momenti in cui tutto è facile, ci sentiamo pieni fino ai capelli e ci sentiremo capaci di andare ad amare e abbracciare e dare la vita per tutto il mondo, nel momento magari in cui le cose sono difficili per la nostra vita o perché ci va male qualcosa o perché non ci sentiamo bene o perché il fratello non è amabile, allora il sentimento viene meno. Gesù allora ci dice: “Io non vi chiedo di avere un sentimento”. Ci dice: “Io vi do un comando”. Un comando che è possibile vivere soltanto se si accetta con serietà umana, fratelli miei, con serietà umana, con responsabile coscienza, i1 discorso della croce. Già abbiamo detto che bisogna ricordarcelo in questo momento: Gesù risorto che è l’uomo nuovo, ha nel Suo corpo le stimmate della croce, non le perde queste stimmate proprio per significarci che non si può essere uomini nuovi senza passare attraverso il Mistero della croce. Io non posso decidermi ad amare il fratello soltanto se il fratello non mi fa soffrire, io devo essere deciso, se voglio essere discepolo di Cristo, ad amare il fratello, anche quando il fratello mi fa soffrire, al di là della sofferenza che mi viene dal limite, dall’incomprensione, dalla delusione, dalla cattiva risposta dal fratello. Soltanto cosi sono nella dimensione cristiana dell’amore. Queste due realtà di amore e di dolore nella croce: l’amore che è la vita nuova della resurrezione ed il dolore che è la strada obbligata che Cristo ha percorso, devono essere presenti nella nostra vita, altrimenti noi facciamo la parodia del Cristianesimo. Ed allora veramente non vale la pena, fratelli miei, veramente non vale la pena né di fare le liturgie, né di fare le riunioni, né di fare le opere buone, non vale la pena, perché quelle riunioni saranno soltanto intellettualismi, non vale la pena perché quelle opere buone saranno soltanto qualche cosa che è fatta molto meglio negli ambienti laici del mondo; non vale la pena neppure di fare le liturgie, perché saranno soltanto un contributo a soffrire di più, perché quello che annunciamo la domenica in Chiesa, non lo viviamo durante la settimana a casa e nel mondo. Bisogna che con serietà e con responsabilità facciamo entrare nella nostra vita il comando di Gesù e che diciamo con umiltà, ma con fermezza il nostri si a questo comando che va cercando di soffrire anche la sofferenza più atroce ma di non venir meno a questa che è la ragione per cui siamo stati chiamati alla fede di Cristo, cioè essere il segno dell’umanità nuova e del comandamento nuovo.
E permettetemi di dirvi, per conclusione: noi stiamo vivendo una piccola, iniziale esperienza di comunità. Ecco io sento di poter dire a voi ed a me stesso una cosa che mi sembra tanto importante: quello che ha fatto in questi anni quel poco di fraternità che c’è tra noi, quella fraternità povera, zoppicante e che tuttavia in tante decisioni, in tanti momenti abbiamo potuto sperimentare, quello che ha fatto quel poco di comunità cristiana tra noi, non sono le riunioni, non sono le discussioni, non sono il mettersi a tavolino con la testa tra le mani per cercare di pensare e di rispondere ai grandi problemi del mondo, è stata soltanto la decisone di alcuni che poi, piano piano, è passata in altri, di essere uno per l’altro concretamente fratello in questo amore scambievole ed arrivare fino alle piccole cose: a te serve il paio di scarpe, cerco di procurartele; a te serve la medicina, cerco di organizzare la farmacia; a te serve un poco di compagnia, cerco di trovare un’ora per te; a te serve una mano che stringa la tua mano, cerco di accantonare il mio problema, il mio dolore, per assumermi il tuo. Questo ha fatto la fraternità, questo ha fatto l’esperienza di amicizia e di fraternità che tante volte, grazie a Dio, ci ha fatto sperimentare, con una gioia profonda, forse, facilmente, indicibile agli altri, come la presenza del Signore in mezzo a noi, un’esperienza che delle volte è diventata anche luminosa nei confronti dei terzi, sicché alcuni hanno sentito di poter capire che a Piedigrotta succedeva qualcosa: perché? Non perché si discuteva, ma perché alcuni si volevano bene seriamente. Fratelli miei, oggi stringendo il discorso sulla riflessione sul Mistero della resurrezione del Signore, alla luce di questa parola che ci è stata detta con tanta chiarezza, uno solo mi sembra debba essere il nostro impegno e la nostra preghiera: che il Signore ci conservi e ci accresca in questa volontà di accogliere con umiltà il suo comando e di essere testimoni di una vita nuova che ci aspetta nell’eternità in Dio, nell’amore scambievole che siamo chiamati a vivere tra noi e nei confronti di qualsiasi persona Egli ci metta accanto.
VI DOMENICA DI PASQUA – Anno C
(At 15,1-2.22-29; Sal. 66; Ap 21,10-14.22-23; Gv 14,23-29)
Fratelli, in questa vigilia della partenza di Gesù dalla terra che la liturgia ci fa rivivere, e non soltanto con un motivo celebrativo di un avvenimento avvenuto duemila anni fa ma per farci capire che la dimensione nella quale noi dobbiamo vivere la nostra fede è la dimensione dello spirito, dello Spirito di Dio, invisibile, insensibile, che ci chiede di essere accolto e non ci permette quella consolazione, quella certezza visibile che era data agli Apostoli ed ai primi discepoli durante la Permanenza di Gesù sulla terra, ecco, in questa vigilia, Gesù ci parla di sofferenza per la Sua partenza e nello stesso tempo, di pace, della pace che Lui soltanto può dare.
Cerchiamo di entrare per un momento, con la nostra riflessione domenicale, in questo insegnamento del Signore per poterLo portare nella nostra vita, perché la nostra vita è difficile. E vivere il Cristianesimo giorno per giorno significa incontrare cento ed una difficoltà quotidianamente, significa veder naufragare quotidianamente i nostri propositi, significa quotidianamente esser delusi da quegli uomini che nella fede si è chiamati a considerare come fratelli. La prima comunità cristiana, immediatamente dopo l’inizio della vita della Chiesa, conobbe le difficoltà della convivenza, dell’adattazione dei principi della fede alla convivenza umana. E chi voleva la fedeltà materiale alla vecchia legge, e chi voleva la libertà nuova che non portasse più alla vecchia legge: lo scontro tra la nuova generazione e la vecchia generazione si propose immediatamente, fin dai primi anni della vita della Chiesa. Ma quella prima Comunità, ebbe in sé come una luce grande, come una forza immensa: la luce e la forza dello Spirito. E poté comunicare al mondo la pace di Cristo proprio perché era una comunità animata dallo Spirito: avevano capito l’insegnamento del Signore, non rifiutavano la difficoltà che veniva dalla fede, ma, a1 disopra di questa difficoltà, mettevano un’altra certezza; il loro cuore non restava turbato, perché, nel ricordo cocente, immediato della partenza di Gesù, della certezza del Suo passaggio in mezzo agli uomini, avevano la certezza della Paternità amorosa di Dio che non li avrebbe lasciati soli. Ed allora non si preoccupavano d’altro che di vivere quello spirito di Cristo che Egli aveva cosi chiaramente lasciato ed insegnato, quando aveva donato loro un comandamento nuovo (vi ricordate, l’abbiamo letto domenica scorsa): “Sarete miei discepoli se vivrete questo Comandamento”. E se le difficoltà che vengono fuori dalla fede nel cammino doloroso degli uomini e le difficoltà che vengono dalla convivenza con gli uomini che sono poveri, fragili peccatori non li separeranno l’uno dall’altro, ma “sarete miei discepoli, se vivrete ed accetterete e supererete queste difficoltà, vivendo il mio comandamento”. Gli Apostoli, di fronte alla difficoltà dell’incomprensione, non si dividono l’uno dallo altro, non se ne vanno ciascuno per i fatti propri a compiere la propria opera buona; Paolo non dice: “Pietro pensi alla maniera sua a Gerusalemme ed io ad Antiochia penso alla maniera mia”; Pietro non dice “Paolo è un esaltato, io resterò fedele alla mia tradizione!!” Ma sentono che per prima cosa, dal momento che sono discepoli di Gesù, devono sospendere anche tutte le loro attività ed incontrarsi e sedersi insieme intorno ad un tavolo e celebrare l’Eucarestia e rinnovare quella promessa viva di Gesù in mezzo alla comunità che è quella che dà la luce, che é quella che porta lo spirito ed è quella che permette di superare le divergenze; per questo sono una comunità che nella fede ha vinto la difficoltà e può dare la pace.
Fratelli, a me sembra che noi dobbiamo fare una grande riflessione e concreta riflessione. Noi siamo una povera comunità di uomini, nessuno di noi è perfetto, ognuno di noi è peccatore (a cominciare da me che non dalla mia volontà sono stato messo a presiedere l’assemblea della liturgia o ad essere personalmente responsabile della comunità parrocchiale). Ogni giorno il nostro rapporto ci porta cento ed una tensione: chi non avesse la certezza di questo sarebbe falso. Ma è proprio a questa convivenza che Cristo porta il dono del suo spirito e chiede di essere depositari della Sua pace e testimoni della Sua pace. Come potremo essere depositari e testimoni della pace di Cristo? Non certo nella composizione e nel superamento materiale di tutte le difficoltà, fratelli miei. Sarebbe sciocco, perfettamente sciocco ed anticristiano e rinnegatore del discorso della croce, di quelle stimmate che Gesù ha portate nel Suo corpo glorioso se noi pretendessimo di essere dei perfetti che non sono motivo di sofferenza l’uno per l’altro. La città perfetta – ce l’ha detto la lettura dell’Apocalisse – sta nell’eternità, oltre i confini della morte e la raggiungeremo soltanto in quella vita: là soltanto Dio sarà tutto in tutti, là non vi sarà bisogno né di tempio né di Eucarestia, né di penitenza. Ma fin quando siamo nel cammino della terra, siamo in questa dimensione di povertà e di fragilità. Il nostro compito di credenti è di vivere, innanzi tutto, prima di ogni altra cosa e sopratutto, vivere il comandamento di Gesù e superare le difficoltà nel comandamento di Gesù. Soltanto nell’Eucarestia celebrata in questo modo per essere veramente suoi discepoli, per quest’unica preoccupazione di avere la Sua presenza in mezzo a noi e di far nascere da questa presenza la nostra fraternità, soltanto in questo riusciremo a superare le difficoltà che giorno per giorno l’uno esprime nei confronti dell’altro. Soltanto in questo amarci con la presenza di Gesù tra noi, potremo essere creature dello Spirito, depositari della Sua pace e donatori e testimoni della Sua pace. Fratelli, noi sentiamo con forza, forse stamattina tanti di noi sentono, quasi con una violenza ripugnante, da dentro, la contrapposizione tra la pace del mondo e la pace di Cristo. Veramente noi non possiamo credere nella pace che viene dalla navi corazzate che sono ancorate davanti alle nostre …….. non perché siano le navi di una parte o dell’altra: questo non ci interessa; noi sentiamo che la pace nell’umanità può venire soltanto dalla spirito d’amore, non dall’equilibrio delle forze, non dal dominio dell’uno sull’altro, non da quei predomini politici e militari che producono la cosiddetta pace del mondo. Però una cosa mi sento di dover dire con enorme responsabilità: per contestare la pace dei cannoni, per contestare la pace imposta dalle navi armate, noi dobbiamo prima essere creature dello Spirito che vivono in sé la pace e la possono dare come la prima comunità cristiana. Altrimenti la nostra protesta diventa demagogica ed ipocrita, perché non abbiamo niente da sostituire, se non parole, ai cannoni del mondo. A noi, comunità cristiana, è dato il compito e la vocazione di proporre l’alternativa, di proporla non nelle parole, ma nella nostra vita, nell’essere, cioè, creature dello Spirito che quotidianamente lo Spirito d’amore trasformano in pace nei rapporti con l’umanità.
Vedete questo come ci impegna; io veramente penso che noi ancora non siamo cosi: all’interno della comunità, fuori del momento liturgico in cui ci stringiamo calorosamente la mano, noi non siamo nella pienezza dello Spirito, nel possesso dello Spirito di Dio, l’uno verso l’altro e, di fronte al quartiere nel quale celebriamo l’Eucarestia, non riusciamo ad essere creature di pace, testimonianza della potenza di Cristo in mezzo all’umanità nel vivere il Suo spirito d’amore; ancora zoppichiamo tanto, ancora siamo tanto peccatori, …….. ancora abbiamo bisogno che Cristo, con la Sua grazia ci dia la possibilità di ricominciare. Ecco, oggi vogliamo impegnarci nell’Eucarestia che celebriamo, impegnarci nella preghiera, impegnarci in questo sforzo di essere nell’ascolto e nella accoglienza dello Spirito, in questo sforzo di essere attenti, vorrei dire soltanto a vivere il comando nuovo di Gesù: l’amore scambievole. Allora potremo essere il segno della pace suscitato da Dio a Piedigrotta per la vita e per la salvezza dell’umanità.
VII DOMENICA DI PASQUA – Anno C
(At. 7, 55-60; Ap. 22, 12-14.16-17.20; Gv. 17, 20.26)
Fratelli, più che mai la nostra meditazione sia espressione di questo essere uniti nel nome di Gesù, non sia io a parlare …….., ma sia lo spirito di Dio a manifestare la sua luce nell’assemblea dei credenti, riuniti nel nome di Cristo.
Gesù ci chiede di continuare l’opera Sua, nello stesso tempo, ci chiama, ad essere là dove Lui è arrivato. È vero che noi, se viviamo nella generosità della fede la nostra esistenza di credenti, non possiamo sfuggire a questa apparente contraddizione, a questa tensione che riempie l’anima. Da una parte l’esigenza che venga presto Lui a prenderci, perché possiamo essere dove Lui è, sentiamo tutta la delusione continua, tutto il nostro non poterci aspettare niente dalla realtà della terra, perché siamo fatti per un’altra realtà: “Padre; dove sono io, voglio che siano anche loro”. La chiamata alla fede che abbiamo ricevuta nel battesimo e che ci viene rinnovata, di domenica in domenica, nell’Eucarestia che celebriamo, non fa altro che metterci sempre con maggiore profondità dentro questa chiamata all’eternità di Dio, alla vita con Dio che non conosce tramonto. E nello stesso tempo, però, sentiamo con tanta forza che Gesù, asceso al cielo e che ci chiama a Lui, non ci toglie dalla terra, ma anzi, con la frase apparentemente dura degli Angeli che dicono ai discepoli di non stare a guardare in cielo dove Lui è sparito nel giorno dell’Ascensione, questo Gesù glorioso arrivato al Padre ci ributta sulla terra, ci chiede di essere presenti nella vicenda dell’umanità, presenti, perché il suo itinerario sia anche il nostro itinerario e perché quella paternità di Dio possa essere resa credibile in mezzo all’umanità attraverso 1’esistenza dei credenti. Guardate che cosa meravigliosa e tremenda, che cosa misteriosa veramente che Dio leghi la credibilità della Sua paternità alla nostra esistenza, nostra di noi povera gente, povera gente che tuttavia, per la grazia dello Spirito Santo, è chiamata a vivere un’esistenza nuova, un’esistenza in cui non sia il proprio io a dominare, ma l’io di Dio, i1 Suo comando: “Padre, che essi siano in me, come io sono stato in Te”. Gesù chiede a noi di vivere sulla terra, ma di vivere in quella protezione d’amore che Lui ha avuta. La gloria di Dio in Lui è dovuta al fatto che Dio è il centro della Sua esistenza e chiede Gesù che noi, chiamati ad essere credenti in Lui, facciamo di Lui il centro della nostra vita, facciamo del Suo modo di essere il nostro modo di essere. E questo non teoricamente, o fratelli miei, non con delle parole o con dei sogni, non con dei velleitarismi, come dicevamo alcuni giorni fa, ma concretamente, con un amore fatto di attenzione agli altri, di comunione concreta con gli altri, di vicinanza agli altri comunque gli altri siano. Chiede Gesù a noi di vivere dei rapporti nuovi, quei rapporti che sono gli stessi rapporti, gli stessi modi di essere della Santissima Trinità e che Lui ha resi visibili e credibili nella Sua persona nel momento che si è incarnato per noi. La comunità cristiana, sposa di Cristo, continua a svolgere la sua opera, non ha altro compito sulla terre, fratelli miei, questa è l’unica sua testimonianza, è l’unica sua missionarietà, non ha altro compito che di vivere, sia pure poveramente, questi rapporti nuovi. Guardate: a me sembra che il discorso è tanto alto, ma nello stesso tempo è tanto concreto; è alto, perché si tratta di vivere tra di noi la vita stessa di Dio, ma è concreto perché questa vita di Dio passa in noi nella misura che ci decidiamo, che scegliamo con tutte le nostre forze, con tutto l’impegno della nostra vita, sorretto dalla grazia di Dio, ad essere perfetti nell’unità, cioè ad avere quella vicinanza in cui la regola non sia il servirmi dell’altro, ma, come Gesù, il servire l’altro: il servire l’altro non come io penso che debba essere servito, ma come egli deve essere servito. Impegnarsi concretamente e con tutte le proprie forze, senza riserva, neppure di un’ora al giorno, neppure di un angolino di tranquillità, impegnarsi perché quanti siamo chiamati alla fede, possiamo essere comunione, possiamo tendere a quell’unità, proprio in questo servizio reciproco. Impegnarsi concretamente, fratelli miei, perché questa comunione che la grazia dello Spirito Santo deve realizzare in mezzo a noi, possa essere il segno di qualcosa di nuovo nel mondo. Fratelli miei, quanto dovrebbe essere chiaro alla nostra coscienza di cristiani che la presenza di battezzati nel mondo dovrebbe dirci qualcosa. Mi rendo conto che questo discorso può sembrare eccessivo, mi rendo conto che può sembrare un po’ alla vecchia maniera, ma vi prego di riflettervi su. Noi, per la grazia del battesimo, abbiamo il compito di dire Dio al mondo e lo dobbiamo dire Dio al mondo proprio vivendo questo nuovo modo di essere che è la comunione fraterna in cui ciascuno sia aiutato dall’altro ad essere quello che deve essere davanti a Dio. Se non facciamo questo, fratelli miei, tutti i nostri tentativi di portare come la salvezza o di portare il miglioramento all’umanità o la pace all’umanità o il perdono o l’annuncio di Dio all’umanità, sono destinati al fallimento più terribile. Io vorrei dire tanto concretamente a me ed a voi che, se noi ci confondiamo con il mondo, che, se noi sia pure per reazione comprensibile ad una sacralità eccessiva che ha contraddistinto i cristiani dei tempi passati, i quali si contentavano troppo di chiudersi nelle Chiese, nelle sagrestie e dietro le tendine delle loro case, se noi, per reazione a questo loro modo di essere, ci confondiamo con il mondo, noi tradiamo il Vangelo. Forse non è giusto richiamarvi un episodio di cronaca, ma io, pensando a quella sciagurata bambina che ha fatto tremare per un momento tutti i nostri cuori, io non posso fare a meno di pensare alla nostra responsabilità di cristiani che troppo sovente rinunciamo ad essere segno di questi rapporti nuovi che si devono vivere, per esempio anche nei confronti della femminilità e che confondiamo l’apertura al mondo con la convivenza con il mondo, per cui qualsiasi cosa venga proposta, qualsiasi cosa diventi di moda, qualsiasi cosa venga proiettata o meglio stampata, diventa nostra con una grande, permettetemi di dire, superficialità, con una grande dimenticanza del fatto che noi abbiamo la vocazione a portare Dio nel mondo attraverso questi rapporti nuovi. E quando noi, fratelli miei, facciamo nostro tutto il modo di essere che è l’espressione di una società senza Dio che inevitabilmente è pronta a dare arma alle mani di colui che ha ucciso la Milena Sutter e che compie tutti gli altri delitti di cui sono pieni i nostri giornali; quando noi accettiamo questo modo di essere della società che ci circonda, noi diventiamo complici, tanto più colpevoli quanto più siamo chiamati ad essere il segno di un’altra realtà. E quando noi andiamo a comprare una certa stampa o andiamo ad acquistare certi biglietti, fratelli miei, non soltanto siamo complici materiali, ma siamo favoreggiatori. Abbiate pazienza, ma è cosi. Non è possibile che uno tenga come regola di vita di poter servire a due padroni; non è possibile che noi tradiamo il concetto cristiano della femminilità soltanto perché il mondo ci impone certe mode e certi modi di essere. Bisogna che noi ci assumiamo, pagando di persona (pensiamo a Stefano, stamattina, di cui ci ha parlato la parola di Dio, a Stefano che paga con la sua vita), che noi ci assumiamo di persona anche il rischio di essere presi per scemi, anche il rischio di essere disprezzati, anche il rischio di essere considerati meno alla moda, ma non possiamo rinunziare a portare una linea di vita che non deve venire dalla vicenda del mondo, ma viene dalla parola di Dio.
Perdonatemi, fratelli miei, non è per uno sfogo, ma certe volte certi episodi che amareggiano il cuore e fanno tremare l’animo dallo sgomento e dalla tristezza, forse diventano segni di Dio nella nostra vita. Il richiamo profetico che sale dalla storia e che ci richiama ad essere quello che noi dovremmo essere. Se anche nella nostra piccola comunità, in questo povero tentativo di comunità cristiana che cerchiamo di realizzare, noi imparassimo seriamente e sinceramente a considerare ed a trattare come Gesù vuole le nostre ragazze, se veramente riuscissimo ad elevare sul piano di quella linea cristiana la femminilità delle nostre donne, già questo sarebbe un segno cosi grande di realtà nuova, cosi bello, già questo potrebbe essere un segno di tanta salvezza per l’umanità che ci circonda, segno che si può vivere in un modo di essere e che Dio non ci ha definitivamente abbandonati. Ecco, fratelli miei, in questo mese di maggio che è ormai alla fine, in cui la pietà, sia pure tradizionale e popolare della Chiesa, ci propone l’umanità di Maria da meditare e da imitare, pensiamo un momentino a Lei, alla Sua umanità che è fino in fondo realizzata, perché è umanità piena di Dio, alla Sua umanità che, per il fatto di essere piena di Dio, può dare Cristo, salvatore degli uomini, al mondo; a Lei guardiamo come individui e come comunità affinché nel pensiero e nella meditazione di Lei troviamo la grazia di essere quello che Dio ci propone di essere.
DOMENICA DI PENTECOSTE – Anno C
(At 2,1-11; Sal. 103; Rm 8,8-17; Gv 14,15-16.23-26)
…… la festa della Pentecoste richiami l’immagine consueta fin da quando siamo stati bambini, l’immagine stampata sui libri sussidiari e sui nostri libretti di Catechismo di quella sala in cui gli Apostoli sono raffigurati intorno a Maria, Madre di Gesù, con una fiamma sul capo, mentre una colomba e un raggio di luce scende su di loro. Lo Spirito Santo: lo Spirito Santo che dette inizio alla vita della Chiesa proprio in quella sala in cui Gesù aveva cominciato a consumare il Suo sacrificio per l’umanità. Lo Spirito di Dio che trasforma questo gruppo di uomini e li rende capaci di essere testimoni di quella realtà che Gesù era venuto ad annunciare: la paternità, cioè, e l’amore di Dio. Spogliamoci per un momento degli aspetti esterni della manifestazione dello spirito in quella circostanza; veramente a noi in questo momento non deve interessare né la forma che lo Spirito di Dio scelse per manifestare sé stesso in quella circostanza, né, diciamo, gli avvenimenti di cornice; a noi deve interessare il fatto. E mi sembra che il fatto che diventa mistero, diventa cioè fatto che ci insegna qualche cosa e che dura e deve durare per il disegno di Dio nella nostra vita, il fatto abbia come tre luci, abbia come tre punti, sui quali noi dobbiamo fissare la nostra attenzione: sono lo Spirito Santo, la Madonna, la Comunità dei fedeli. E, sia pure in uno istante brevissimo, cerchiamo di cogliere il significato di queste tre luci. Lo Spirito è il dono per eccellenza di Gesù, è quella condizione senza la quale non si può esser cristiani, è quel dono di Dio che, solo, permette di poter dire a Dio: “Padre”, come abbiamo letto nella lettera ai Corinti di S. Paolo. Lo Spirito è quella forza creatrice che all’inizio dell’universo si librò sulle acque e tirò fuori la vita dal niente; lo Spirito è quella potenza che, nelle mani del Cristo, risuscitava i morti e guariva i malati, lo Spirito è quel qual cosa di divino, di indicibile, di inimmaginabile che è proprio la divinità. Ecco questo è il dono che Cristo porta all’umanità, proprio in virtù del Suo sacrificio, un dono che l’umanità non avrebbe mai potuto osare di sperare, mai potuto credere; neppure desiderare, perché incapace anche del desiderio, se non fosse stato l’amore gratuito di Dio ad offrirsi. Questo alito di Cristo che lo diffonde sui discepoli della prima Comunità nel Cenacolo, è lo stesso alito che Cristo ha emesso da Sé il venerdì santo, quando spirando “emise lo Spirito” – dice il Vangelo. Ed è per questo spirito di Cristo che noi diventiamo, come dire, parenti di Dio, della Sua famiglia, possiamo chiamarlo Padre ed il nostro destino diventa destino d’eternità. Questa è la proposta di Dio nella Pentecoste. E di fronte alla proposta ci sono le altra due luci, gli altri due elementi del quadro che abbiamo ricordato. Maria. Fratelli miei, Maria, pensiamolo stamattina proprio mentre ci disponiamo a ricevere lo Spirito Santo anche noi nell’Eucarestia che celebriamo, è come la sintesi dell’umanità, è come il modello, di fronte all’azione dello Spirito, di come si debba comportare ciascuna persona che voglia essere modificata dallo Spirito di Dio, che voglia accogliere la Sua proposta. Maria che, docile all’azione di Dio, Maria che attende lo Spirito nella preghiera, Maria che sa fino alla più pro fonda convinzione della Sua anima, che la Sua umanità allora sarà pienamente realizzata, quando corrisponderà al disegno di Dio per l’azione dello Spirito in Lei: quando dice “sia fatto di me secondo la tua parola”, capisce che di Lei non vi potrà essere cosa più grande. Cercate di capire, per favore; questo non è un discorso teorico, questo è un discorso estremamente concreto. Poiché noi allora siamo veramente vivi, allora siamo veramente uomini, allora siamo veramente realizzati nella nostra umanità quando siamo cosi come Dio ci ha pensati per l’azione del Suo Spirito in noi; e questa è Maria, questa è la linea della Sua vita; perciò, piena di Spirito Santo, può dare Dio all’umanità. Guardate che è una cosa che sembra semplice e facile a dirsi, ma è una cosa che fa girare la testa per quanto è grande e meravigliosa. Una creatura umana diventa capace di partorire Dio, di donarLo all’umanità, perché si è resa disponibile a Dio.
E l’altro fuoco, l’altro elemento del disegno è la Comunità dei credenti: la Chiesa perché fatta di persone unite nel nome di Gesù, perché fatta di persone decise a vivere la carità nel rispetto scambievole, nel servizio reciproco, questa Comunità diventa accoglienza dello Spirito e diventa essa stessa, la Comunità, il segno di una nuova umanità che, come tale come comunità è capace di dare Dio all’umanità. Questa Comunità che ha accolto la legge dell’amore di Gesù e che resta unita nel Suo nome, diventa quella nuova umanità che i profeti avevano previsto nel futuro e che Gesù aveva voluto fondare pensando alla Sua Chiesa. Tutto questo perché resi disponibili all’azione dello Spirito.
Ecco, fratelli miei, ecco il quadro, ecco la considerazione che mi sembra bisognasse fare fra le tante, stamattina, fra le tante che si potevano fare. Quante conclusioni! A me sembra, nella responsabilità di persone chiamate a raccogliere il dono di Dio, che due conclusioni sono estremamente importanti e pratiche. Fratelli miei, saremo figli di Dio, saremo persone Sue per esprimerci con una parola semplice, nella misura che personalmente, individualmente e quotidianamente in noi vi sia un’attesa, una preghiera, una docilità nei confronti dell’azione dello Spirito Santo.
Fratelli miei, nessuna attività, nessuna comunità, nessun impegno sociale, potrà, sostituire in noi questa chiamata ad essere individualmente creature dello spirito. Quanto dobbiamo guardare a Maria, stamattina, quanto dobbiamo pregarLa, al di là di ogni devozionalismo, perché ci insegni ad essere silenziosi e docili di fronte all’azione dello Spirito. Se vogliamo essere seri, questo dobbiamo fare.
Seconda cosa per la vita della comunità. S. Paolo ci ha detto: siamo molti, siamo diversi, abbiamo diversi doni, diverse responsabilità, a volte sembra che abbiamo anche diversi linguaggi, ma a tutti è data la stessa chiamata ad essere testimoni dell’amore di Dio vivendo come un corpo solo. Fratelli miei, la comunità non si realizza e non si testimonia in Dio, non testimonia l’amore e l’esistenza di Dio di fronte al mondo, se non in questo servizio reciproco voluto al di là di ogni sofferenza e fatica personale. Soltanto se siamo decisi ad essere un corpo solo di persone che, magari, sono molte e diverse tra di loro, ma che nello Spirito di Dio, nell’obbedienza al messaggio di Gesù, sono decise a donarsi reciprocamente, anche se a volte faticosamente, anche se attraverso la sofferenza, soltanto se siamo decisi a questo, saremo testimoni di Dio nell’umanità, saremo la Chiesa di Cristo che vive e che dona lo Spirito all’umanità: soltanto a questa condizione. E la ragione per cui siamo chiamati ad essere una comunità di fratelli, non è perché ciascuno affermi il proprio dono a scapito o al di sopra degli altri, è perché nella reciprocità del servizio e dei doni, ne venga fuori un unico corpo animato da un solo Spirito che dica una sola realtà: Dio Amore. Questa è stata la Chiesa del primo tempo e questa deve essere la nostra Chiesa. A me sembra che fosse questa la riflessione da compiere, oggi, fratelli miei, questa l’anima della nostra preghiera. Chiediamo allo Spirito di Dio di guardare alla nostra piccolezza come quel giorno ha guardato alla piccolezza dei primi discepoli, degli Apostoli ignoranti e timorosi. In noi quanta ignoranza, quante paure, quante saccenterie e quanti stupidi orgogli, quante chiusure a Dio ed ai fratelli, quanti peccati, o fratelli miei, (Giustamente prima mi sembrava un po’ fuori posto la canzone sul perdono, oggi, festa dello Spirito, ma invece c’entra tanto). Quanti rinnegamenti dello Spirito nella nostra esistenza, nelle piccole come nelle grandi cose, quante volte cerchiamo di organizzarci da soli, quante volte soffochiamo lo Spirito nei fratelli: ecco noi siamo ben povera cosa. Ma oggi sappiamo con certezza che Dio ci ama e che vuol donarci ancora il Suo Spirito. Preghiamo perché la Sua Grazia e la Sua forza ci renda disponibili a riceverlo e faccia di noi una nuova creazione.
SANTISSIMA TRINITA’ – Anno C
(Pr 8,22-31; Sal. 8; Rm 5,1-5; Gv 16,12-15)
Le rivelazione della SS. Trinità è la massima espressione dell’amore di Dio a noi, all’umanità che può venire a conoscenza, che può entrare in una comunione profonda, in una vita intima di Dio. Vogliamo disporci a questo momento di contemplazione nell’Eucarestia che celebriamo, proprio rendendo grazia a Dio che si è rivelato alla nostra vita e, rivelandosi dà significato alla nostra vita stessa.
Come sempre il nostro atto di umiltà e di fede nel riconoscere sinceramente i nostri peccati:
Per tutte le volte che non ci riferiamo alla Tua sapienza come all’unica norma della nostra vita, Signore, Pietà!
Per tutte le volta che non viviamo nella fedeltà al Tuo spirito d’amore, Cristo, Pietà!
Per tutte le mancanze di testimonianze nostre e di tutta la Chiesa di una fede vera nella vita della Trinità, Signore, Pietà!
Voglio domandarvi fraternamente scusa se in questo momento sento tanta difficoltà a parlare, perché mi sembra di essere come schiacciato dalla piccolezza della mente, dall’incapacità dell’anima di arrivare al mistero stesso di Dio. Per poter parlare della vita di Dio bisognerebbe averne fatta l’esperienza, bisognerebbe averLo talmente dentro come unica realtà della propria esistenza, bisognerebbe talmente vivere soltanto di Lui, da rendere a Lui possibile di manifestarsi attraverso la parola umana come quando dal profumo che un fiore spande introno a sé, noi capiamo con certezza l’esistenza del fiore. Ma la mia fede e la mia comunione con Dio non sono a questo punto. E allora cerchiamo di capire insieme, un momento, cerchiamo di vedere dentro a queste letture che sono la parola di Dio, veramente l’alimento della nostra fede in questa festa della SS. Trinità. Gesù che ci viene a dire che c’è uno spirito, uno spirito del Padre e Suo che ci verrà a rivelare la vita stessa di Dio, verrà a rendercela accessibile non tanto in una accessibilità intellettuale, quanto in una comunione per cui la vita dell’uomo sarà presa dentro alla vita stessa di Dio, in una tale comunione che l’uomo che crederà, che l’uomo che si farà prendere da questa rivelazione, sarà un uomo giustificato, un uomo pacificato, i1 peccato non sarà più un ostacolo nella sua vita, sarà un uomo che vivrà la speranza, una dimensione nuova che gli permetterà di attendere “cieli nuovi e terra nuova”, che gli permetterà di credere con assoluta certezza che, al di là di questa finitezza che bisogna vivere nella dimensione terrena, vivrà un giorno la partecipazione vera, concreta alla vita eterna di Dio. Questo spirito che Gesù ci dona, ci viene a rivelare Dio, perché noi di Lui, di Dio, possiamo vivere. Non è perciò una rivelazione teorica, è qualcosa, invece, che nel suo manifestarsi modifica, orienta, perfeziona e santifica la nostra esistenza. Ed ecco che lo spirito che ci viene dato, lo spirito di Gesù, ci dice che Dio non è un’entità statica, non è un essere fermo, uno senza vita dal Quale le cose sono procedute quasi materialmente e che, poi, non sia più presente nell’evolversi delle cose. Lo spirito di Gesù ci dice che Dio è vita ed è vita perché è comunione d’amore: Padre, Figlio e Spirito Santo, un unica realtà divina che è continua novità, che è continua vitalità, cosi come una famiglia in cui l’amore veramente regni, è una unica entità che però viene articolata nell’amore, nell’attenzione, nella donazione reciproca delle singole membra. E perché è amore, Dio è azione, è azione nella verità per cui la Sua azione si chiama la sapienza, l’abbiamo letto. E l’azione che Egli compie dal momento che è ancora eterno, è un’azione che continua sempre; dunque (cercate di capirmi, per favore,) Dio non è uno che abbia agito tanti milioni di anni fa, sia pure per amore, ma Dio è uno che, per amore, in questo momento sta agendo, perché in questo momento ama e la Sua azione è la Sua vita intima ed è la Sua creazione ed è la Sua provvidenza ed è il tenere in mano la storia dell’umanità, perché il Suo amore deciderà comunicarsi a delle creature, perché le creature possano partecipare della Sua vita stessa. Dunque Dio in questo momento sta agendo in mezzo a noi e la Sua azione, i1 Suo disegno in mezzo a noi sono la verità, la sapienza. Il Suo spirito ci fa comprendere questo. Ci fa comprendere questo (vi accennavo prima e vi ripeto adesso) non per una contemplazione teorica, ma per una realtà d’amore, per un’attenzione d’amore; perciò si chiama spirito d’amore che ci permette di essere come vivificati, come realizzati dall’annuncio di questo mistero. In che cosa noi siamo toccati da questo? Ecco, fratelli miei, a me sembra cosi, a me sembra che, se Dio è veramente presente nella storia dell’umanità ad agire in essa attraverso il Suo Spirito d’amore, a proporre agli uomini che si evolvono nel cammino della storia, i1 Suo disegno e la Sua sapienza, allore vuol dire che noi siamo a fuoco con Dio soltanto se lasciamo che questa sapienza, che questa Sua parola eterna si realizzi nella nostra vita. Ed allora noi siamo veramente giustificati, allora siamo nella pace dell’anima, allora siamo nella speranza vera, concreta della vita eterna, quando questa sapienza di Dio diventa la regola, la norma costante della nostra esistenza. Capite perché è tanto concreto il discorso. L’uomo giustificato, l’uomo salvato, l’uomo che può vivere nella pace non è tanto l’uomo che compie tante buone azioni o che ripete tante preghiere o che si riempie la bocca di tante invocazioni. L’uomo giustificato, l’uomo salvato da Dio che veramente può chiamare Dio Padre, è colui che ha fatta propria la sapienza di Dio, che ha preso il Verbo di Dio, la Parola, Gesù stesso che è la Verità e ne ha fatto la norma della propria esistenza. Questo uomo è l’uomo pacificato interiormente, è l’uomo libero dal peccato ed è l’uomo che può dare pace al mondo. Ecco perché è cosi importante il brano che abbiamo letto della lettera di S. Paolo ai Romani. E questa sapienza di Dio tanto più si manifesta in mezzo a noi e nella vita di ciascuno di noi, quanto più. sarà il Suo Spirito a manifestarsi. Ed ecco l’altra conclusione che mi sembra di un’importanza enorme per tutti noi: cioè, il disegno di Dio, fratelli miei, non si può sviluppare in noi, la via di Dio non può fiorire nella nostra vita, la nostra speranza non può essere veramente fondata se in mezzo a noi non c’è il Suo spirito d’amore. E soltanto quando c’è questo Spirito d’amore che fa di noi veramente una comunità, le cui membra siano veramente a servizio l’uno dell’altra in un’attenzione continua, in un’accettazione continua della diversità del disegno dell’altro, quindi della pluralità delle presenze, delle forme, soltanto dove c’è questo spirito di servizio che Gesù ci ha lasciato come il dono conseguente alla sua morte ed alla sua resurrezione, soltanto allora viene fuori il disegno di Dio. Prendiamo una famiglia, per esempio; il disegno di Dio nelle singole membra, e perciò la salvezza della famiglia stessa, non vien fuori tanto in un ordine fatto d’autorità, viene fuori in quello spirito d’amore che tiene l’un membro e l’altro nell’attenzione costante a ciascuno, perché ciascuno sia realizzato nel proprio disegno: l’attenzione dei figli ai genitori, l’attenzione dei genitori ai figli, l’attenzione dello sposo alla sposa. È questa attenzione costante in un servizio d’amore, nel vivere veramente lo spirito dell’amore di Dio, che tira fuori il disegno di Dio Creatore, la Sapienza. E cosi è delle comunità più grandi, e cosi è della mia comunità religiosa, cosi è della nostra comunità parrocchiale: questa è l’unica ragione del nostro vivere insieme, perché la vita di Dio in noi si possa manifestare nella sapienza, attraverso la vita del Suo Spirito di amore in mezzo a noi. Fratelli, questa mi sembrava la riflessione che dovessimo fare in questa festa della SS. Trinità che ci viene data, perché noi possiamo vivere veramente ad immagine e somiglianza di Dio. Mi rendo conto di quanto sia povera la mia parola, però so anche che la grazia di Cristo che ci viene rinnovata nell’Eucarestia che celebriamo, è qui a dare forza e fecondità anche a questa povera parola. Che veramente allora la parola portata, la parola meditata diventi preghiera, perché quello che la nostra insufficienza non può ottenere sia la misericordia di Dio a darcelo.