Anno 1971
Tempo Ordinario – Avvento
XXIX DOMENICA T.O.- Anno C
(Es 17,8-13; Sal. 120; 2Tm 3,14-4,2; Lc 18,1-8)
Nell’incontro di venerdì, di questa Liturgia che stiamo celebrando ci siamo domandati, in fraternità ed in sincerità, che cosa significasse per noi la preghiera. Ed abbiamo visto, come scoperto in noi, come quello spirito di preghiera di cui ci parla la liturgia di oggi non sia sufficientemente presente e come la parola di Dio ci spinga ad andare in profondità, crescere in questo cammino che dobbiamo compiere verso il Padre che ci vuole veramente, totalitariamente Suoi figli. Ed è per questo che questa mattina vogliamo apprendere dalla parola di Gesù che si rende presente in mezzo a noi, che dobbiamo e vogliamo essere la Sua comunità di fede, vogliamo apprendere il significato vero, il senso vero, il modo giusto del vivere la preghiera. Perché la nostra preghiera rischia di essere pagana: quella preghiera che Cristo ha rifiutato nel Vangelo quando ha detto: “Non moltiplicate le vostre parole, perché Dio se quello di cui voi avete bisogno. E se Dio pensa agli uccelli dell’aria ed ai gigli del campo, quanto più penserà a voi che valete molto di più degli uccelli dell’aria e dei gigli del campo. Non è questo che dovete chiedere nella preghiera”. Ed in un altro luogo del Vangelo di Luca ci ha detto Gesù che Dio infallibilmente donerà il Suo Spirito a coloro che glielo chiedono. Gesù, dunque, non è quello che è venuto ad insegnarci la preghiera magica che anzi ha rifiutato, non è venuto ad approvare gli atteggiamenti devozionalistici e bigotti delle persone che pensano di poter strappare dalle mani dell’Onnipotente le cose, i favori che la propria impotenza non può realizzare, non è venuto a presentarci il Padre come una specie di Babbo Natale raccomandandoci al quale potremmo avere il più possibile di favori sulla terra; è venuto a presentarci il Padre come l’altro che ci ama, l’Altro per eccellenza che non è uno come noi ma è uno che è prima di noi, uno che è al di sopra di noi, uno che non ha bisogno di noi e che pure ci ama, è venuto a svelarci questo mistero cosi inspiegabile, cosi indicibile, di un Dio da cui tutto viene e tutto dipende e che, tuttavia, entra come in posizione di dialogo, di amicizia con la Sua creatura. Pregare, in Gesù, significa entrare in questa comunione gratuita, in cui non è l’interesse a spingerci dall’altro, ma soltanto questa base di un amore che ci viene annunziato e che suscita dentro amore, perché l’amore, quando è veramente accettato, non può che generare amore, non può che generare comunione; e nella presa di coscienza che l’Altro che mi ama è Dio, Dio verità, Dio bene, Dio giustizia, Dio libertà. Allora preghiera, ed è cosi che Gesù la vide, significa guardare nel: padre il disegno della propria vita, allora preghiera non è più un atto di cortigianeria, ma preghiera è adorazione, è contemplazione nella coscienza che si fa sempre più concreta, sempre più esatta che la vita al di fuori del disegno di Dio non avrebbe senso, sarebbe una “non vita”. Credo che tutti noi abbiamo bisogno di questa attività spirituale che è come andare al di là delle cose, di tutte le altre attività per metterci davanti a Dio a cercare di capire nella Sua parola, in questa parola che S. Paolo dice a Timoteo della scrittura, l’abbiamo letto proprio oggi, “tutta la scrittura è da Dio ispirata ed utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia, affinché l’uomo sia attrezzato… ”, cioè nella vita di ciascuno di noi vi deve essere questo spazio per la Bibbia, fratelli miei, per questa parola di Dio nella quale, essendo l’espressione concreta, umana, del Suo amore per noi, dobbiamo trovare il senso della nostra vita, dobbiamo trovare il senso delle cose allo stato puro, dobbiamo trovare le motivazioni della nostra esistenza. Senza questa motivazione, senza questo senso, il nostro vivere è un agitarsi destinato, più o mene presto e più o meno evidentemente, a crollare nella disperazione o nel soffocamento della droga, quella droga più o meno evidente: ci sono droghe e droghe, ognuno di noi sa di averne fatto forse anche la esperienza. Non c’è bisogno di arrivare all’hascisc o alla cocaina per essere drogati, possiamo essere drogati anche di azione, possiamo essere drogati anche di bisogno degli altri, possiamo essere drogati anche di questa volontà di non pensare che ci fa annegare nella banalità delle riviste o della televisione. Lo spazio della preghiera nella nostra vita lo spazio di quella comunione che mi fa scoprire i rapporti di amore con Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, che mi fa scoprire il mio rapporto con l’umanità che non sarà più allora né un rapporto di cose occasionali cosi come capitano, né tanto meno, un rapporto di profitto. Dalla comunione con Dio nasce e deve nascere il senso della nostra vita; per questo Gesù ci ha insegnato il Pater Noster. Nella semplicità della formulazione della sua preghiera ci fa capire che l’unica cosa che conta e che bisogna chiedere è che sia santificato il Tuo nome, che Tu veramente possa essere il Dio della mia vita, che venga il Tuo regno, che la mia vita cioè possa essere quello che Tu hai pensato di me da tutta l’eternità, che sia fatta la Tua volontà, che cioè non abbia altra tensione che quella di realizzare il Tuo disegno di amore e di salvezza nella mia vita. E soltanto da questa comunione che si può partire per l’incarnazione, fratelli miei, ed è da questa comunione che si può andare agli uomini e si è espressione dell’amore di Dio. Ma come è bello vedere nella nostra vita i segni di questa comunione con Dio e di questo amore di Dio riversato nell’umanità, negli uomini che si fanno testimoni di questa comunione, non attraverso gli atteggiamenti bigotti, ma attraverso una vita che è preghiera viva, perché è incarnazione di questa amicizia, di questa comunione, di questa presenza di Dio alla vita di questi uomini…….. Pensate a Papa Giovanni! Ogni gesto di Lui era una preghiera, era una manifestazione di Dio. Noi non abbiamo conosciuto Dio in Papa Giovanni nel momento in cui celebrava la Messa o recitava il Rosario soltanto, ma in tutti i momenti, anche quando diceva di benedire i bambini, anche quando diceva ai carcerati che aveva avuto anche lui un nonno carcerato, anche quando andava a trovare gli ammalati e non diceva parole retoriche, ma stringeva soltanto affettuosamente una mano. Questi gesti erano preghiere, liturgia sacra, glorificazione di Dio nell’umanità, perché nascevano da una comunione profonda, da una decisione di fare di Dio il Dio della propria vita. Noi dobbiamo questi segni nella nostra vita per imparare a pregare, noi che siamo abituati a gettarci in ginocchio davanti all’Altare del Signore perché il Signore venga a benedire la nostra smania di profitto, noi che veniamo alla Messa la domenica mattina e poi il giorno, nello stesso giorno forse o il giorno successivo, ci facciamo pagare dal povero che ci viene a visitare o comunque dal fratello che non importa o non è povero socialmente, ci facciamo pagare salate le nostre visite mediche o le nostre prestazioni, perché pensiamo che la preghiera debba servire soltanto ad aiutare il nostro profitto e non a metterci come strumento dell’amore di Dio di fronte agli uomini. Preghiera, fratelli miei, significa, dunque, impegno alla realizzazione del disegno di Dio nella nostra vita con quella costanza, con quella pazienza, con quella forza, con quella dimenticanza di sé stessi che vediamo nella misura di Cristo che é morto in croce. Preghiera che è, quindi, conversione continua a Dio ed è, quindi, anche richiesta nella coscienza che questa giustizia di Dio di cui parla Gesù stesso nel Vangelo di oggi, non si potrà realizzare se non nell’azione dello Spirito Santo nella nostra vita.
O fratelli miei, mi dispiace di essere di troppo lungo di quello che mi ero proposto, ma non si può terminare la considerazione sulla preghiera senza ribadirci con forza che cristianesimo non significa soltanto amore agli uomini nel senso di solidarietà, non significa soltanto servizio all’umanità in un vago spirito illuminato dai principi cristiani, significa azione di Dio nell’umanità, amore di Dio nell’umanità, che è possibile solo se noi siamo in questo continuo atteggiamento delle mani aperte nell’attesa e nella supplica della presenza dello Spirito nella nostra vita. Perché altrimenti potrebbe essere anche una azione sacra, potrebbe essere anche un’azione apparentemente efficace, ma sarà l’azione degli uomini ma non l’azione di Dio. L’atteggiamento di Mosè che con il suo attendere da Dio l’aiuto che abbiamo ribadito nella recita del salmo (“il nostro aiuto viene dal Signore”), l’atteggiamento del Cristo che lascia anche i discepoli, anche le folle per trovarsi solo col Padre, ebbene quest’opera mediatrice di supplica e di attesa dello Spirito. L’atteggiamento di Maria che attende l’azione dello Spirito Santo devono insegnarci questo spazio necessario, essenziale della preghiera nella nostra vita, di une preghiera che, se è necessario, può modificare anche le regole umane del gioco. Non per niente il Vangelo è pieno degli interventi, lasciatemi esprimere la parola, irrazionali di Dio nella storia degli uomini, degli interventi che sono capaci di sovvertire le regole del nostro fisico o della nostra mentalità, che sono capaci di far guarire improvvisamente i malati e di risuscitare i morti,ma … “quando il Figlio dell’Uomo verrà, ci sarà la fede sulla terra?”.
Ecco, fratelli miei, la nostra fede nell’unicità di Dio che è l’Altro che ci ama e senza cui la nostra vita non avrebbe senso, è le fede che Gesù si aspetta? Questo domandiamoci e per questo preghiamo.
XXXII DOMENICA T.O. – Anno C
(2Mac 7,1-2.9-14; Sal. 16; 2Ts 2,16-3,5; Lc 20,27-38)
…….. Egli non è Dio dei morti, ma dei vivi”, dovremmo ricordarcelo sempre. È certamente nell’intenzione della Chiesa, nella sua liturgia, ripetercela in questi giorni, in cui la commemorazione dei fratelli che ci hanno preceduti nella vita eterna può diventare, anche nelle anime nostre, motivo di atteggiamenti che non sono propriamente cristiani, di atteggiamenti che sono dettati, invece, da forme addirittura pagane ed addirittura superstiziose di mettersi davanti al mistero della morte. A volte, accanto alle tombe dei nostri cari, noi, ed è la verità, non siamo tanto testimoni della fede nella Resurrezione, siamo piuttosto povere creature che testimoniano soltanto la disperazione. Oggi la parola di Dio ci butta fuori, direi, violentemente da questa disperazione, da questa concezione pagana della morte, mettendoci di fronte al mistero centrale della fede che è il mistero della Resurrezione di Cristo dalla morte. Ecco siamo qui a celebrare l’Eucarestia: che cosa significa? Cristo, obbediente al Padre fino alla morte di croce, è ritornato agli uomini in una nuova dimensione nella Sua umanità glorificata da Dio per questa fedeltà e per questa obbedienza, sta qui presente in mezzo a noi con la Sua parola e la Sua persona nel momento della consacrazione e si fa uno con noi nel momento della Comunione per dirci che questo è il mistero fondamentale della nostra vita, il cammino, cioè, verso un Dio che è fedele e che, se, come domenica scorsa abbiamo meditato, ci ha creati per amore e che, se ci mantiene in vita per amore, non può lasciarci neanche al di là del confine della morte, perché Dio non si pente del Suo amore; perché l’amore di Dio non conosce né intermittenze, né stanchezze, né fine; sicché una creatura amata da Lui una volta è amata per tutto il tempo della sua esistenza, cioè per tutta l’eternità. L’amore di Dio è fedele, l’amore di Dio non finisce, l’amore di Dio tiene in vita: per questo Dio è il Dio del viventi e non dei morti, se fosse Dio dei morti non sarebbe più Dio. Per questo Gesù dice, richiamando le grandi figure dell’antico testamento: Abramo, Isacco, Giacobbe, che non possono essere perdute alla vita, perche sono state vive a Dio. Ma c’è una riflessione che dobbiamo fare. Questa vita gloriosa di Cristo con noi è possibile in Cristo cosi come in tutti coloro di cui Cristo dice la vita, perché nella loro esistenza si è realizzato un passaggio, un esodo. Vi ricordate la storia del popolo ebraico: per entrare nella promessa di Dio deve compiere un doloroso esodo: tutta la storia del deserto, delle tentazioni, della prova, delle sofferenze, delle morti, ma alla fine la terra promessa. Ora che non è più il tempo delle raffigurazioni e delle promesse, ma il tempo della realtà, quello che Dio ci promette non è più una “terra promessa”, ma una nuova condizione di vita. L’uomo può essere nell’alleanza nuziale con Dio, l’uomo può essere partecipe della Sua stessa famiglia, l’uomo può essere figlio di Dio, ci dice proprio il Vangelo di oggi, e può esserlo se realizza nella propria vita per la grazia dello Spirito Santo questo passaggio. Ecco, dunque, Cristo che; vivo a Dio, accetta di morire, accetta di mettere questa vita che aveva avuto da Dio a disposizione di Dio nei fratelli fino all’esperienza tremenda della morte per i fratelli. Ed è proprio perché questa morte diventa la massima espressione della Sua vita, che Cristo noi rimane nella morte, ma torna più vivo di prima della stessa vita di Dio: la Sua umanità è glorificata. Ecco dunque l’esodo di Cristo: il Suo passaggio è la Croce. E proprio nel momento in cui, per amore del Padre, accetta la Croce come sacrificio, come vita donata per l’umanità, in questo momento il Cristo non è più un uomo solo, ma un uomo diventato figlio di Dio e fissato, definitivamente nella eternità, in quella beatitudine di Dio per cui il corpo Suo che ritorna agli Apostoli è corpo glorioso, impassibile, non soffre più; non ha più bisogno di tutte quelle cose che sono dettate in noi dalla provvisorietà della nostra vita, non ha più bisogno né di mangiare, né di bere; né di sposare, né di procreare, perché è un corpo che non ha più bisogno di mantenersi e di perpetuarsi perché è vivo della vivezza stessa di Dio. Ecco, la legge del Cristo diventa la legge dell’umanità redenta da Dio, per cui questo esodo, questo passaggio che Cristo vive non vivendo più per se stesso, ma per l’umanità che Gli è stata affidata, deve diventare anche la nostra legge e questo è il punto tanto delicato che dobbiamo prendere come punto centrale della nostra riflessione di stamattina, fratelli miei, se vogliamo accogliere l’intenzione della Chiesa. C’è un momento del Vangelo in cui il Signore ha detto che chi vuole che il proprio granello di frumento fruttifichi in spiga, deve perdere questo granello nella profondità oscura della terra, perché, se non contasse questa prova di morte, i1 granello rimarrebbe solo. E il contadino conosce questa dura legge, la conosce fino al punto – peccato che noi non abbiamo esperienza di vita dell’agricoltura – fino al punto che mette da parte il migliore frumento per la semina e non vuole che sia toccato anche a costo di non poter più fare il pane, perché quel seme deve andare sotto terra e deve marcire in quell’apparente annullamento del proprio essere, perché dovrà fiorire a nuova vita. E questa è la grande lezione del Vangelo: per essere vivi alla vita di Dio nella comunione profonda e piena con Cristo bisogna che la nostra vita sia sepolta con Cristo in questa terra nella vita spesa per i fratelli. E allora genera una vita nuova che non ha paura neppure della morte, genera una vita nuova che è vita di risorti già da questa terra, produce, questa nostra povera vita, frutti di vita eterna; sicché le persone trovano Dio, sicché si realizzano opere di carità, sicché di fronte ai fratelli ci si può presentare non nel nome della disperazione, ma nel nome della speranza, non nel nome dell’odio ma nel nome dell’amore, non nel nome dalla divisione ma nel nome della fraternità. Ed è l’esperienza che tutti noi facciamo, l’esperienza fortissima che fecero i cristiani della prima ora che, credendo in questo modo nella resurrezione, non come un frutto che dovesse venire alla fine dei tempi, ma come un frutto già partecipato alla nostra esistenza, il credere alla resurrezione di Cristo diventava vita eterna vissuta, snocciolata nei rapporti nuovi, momento per momento: “guardate come si amano”. Ecco le vita eterna comincia già in questo momento. Se vogliamo vedere come comincia la vita eterna, guardiamo Maria: nel suo “SI” sta tutto il passaggio, tutto il suo esodo da una vita vissuta secondo il proprio modo di vedere alla vita vissuta secondo la proposta di Dio. E in quel momento Lei che è una creatura umana può generare da sé, può produrre dalla Sua carne niente di meno che la Parola stessa di Dio. E la vocazione di Maria è la vocazione della Chiesa ed è la vocazione di ciascuno di noi. Vivere dunque non nell’attesa di una resurrezione che dovrà venire in tempi lontani che noi non riusciamo ad immaginare, ma vivere nella fede di una resurrezione che comincia ad essere veramente tale nel momento in cui viviamo non più per noi stessi, ma per Gesù che è morto ed è risorto per noi. Allora si scopre come la vita del cristiano non è impegno per la morte, lasciatemi dire, quando noi siamo le persone che viviamo soltanto per il paradiso che sta per venire, per il “posticino” in paradiso, come si dice nei bravi manuali di pietà, e sembra un impegno per la morte e non per la vita. La vita del cristiano è impegno per la vita proprio nella certezza della fedeltà a Dio, al Suo amore che non ci farà cadere neanche di fronte alla morte, ed ecco l’esempio dei Maccabei che dovrebbe passare nella nostra esistenza. Veramente credere alla resurrezione significa battersi per la vita dell’uomo, significa entrare, come abbiamo detto altre volte, in ogni lotta di liberazione dell’umanità, perché l’umanità possa avere la speranza e la certezza dell’amore di Dio; significa fare di ogni rapport
o con l’umanità non un rapporto di sciocca rassegnazione ma un rapporto di liberazione; vorrei dire significa fare lotta ad ogni motivo di sofferenza, perché già sulla terra la condizione dell’umanità possa essere la condizione dell’amore che …… perciò del Dio presente. È per questo che, tornando a casa e incontrando le solite pene di ogni giorno, non bisogna dire: le sopporto per amore del paradiso, bisogna dire le combatto per amore del Dio che vince, del Dio che ama, del Dio che è Dio dei viventi non dei morti, perché questa è la fede nella resurrezione. Per questo una comunità cristiana non può essere ferma in una sterile contemplazione delle realtà che sono da venire, ma vive tutto il suo impegno, attivo e generoso impegno, perché la fede generata in lei dal Battesimo e dall’Eucarestia, possa essere testimoniata nella vita, nella vita per l’uomo, anche quando costa, anche quando conduce alla morte, come nel Mistero che stiamo celebrando. Questa fede nella resurrezione, fratelli, Dio ci dia veramente la grazia di poterla comprendere, possedere e vivere.
I DOMENICA DI AVVENTO – Anno A
(Is 2,1-5 ; Sal.121 ; Rm 13,11-14; Mt 24,37-44)
………. ….. .. era invece parola d’amore, parola di grazia, parola che vuole dirci la Presenza di Dio alla nostra vicenda, una presenza tutta animata dalla realtà che Dio é: cioè, l’amore, quell’amore che fa si, lo abbiamo pensato altre volte, che Egli non possa neppure per un istante abbandonare la Sua creatura a sé stessa per cui segue la propria creatura, la segue di momento in momento, di vicenda in vicenda e non ha pace, non ha requie fin quando questa creatura non riposi nel Suo amore. Questa tensione di Dio, se vogliamo dire cosi, è quella che fa assumere a noi quel linguaggio che, a volte, appare fatto come di una concitazione, di una irrequietezza umana che è tipica ai Colui che ama, che proprio perché ama, esige dall’essere amato, esige dalla persona a cui l’amore gratuitamente è rivolto, la presa di coscienza di questo amore, la modificazione della propria esistenza, perché l’amore possa essere quello che veramente vuole essere, cioè uno scambio, cioè una comunione. Dio, si può dire, non sarà contento fin quando questo scambio non à avvenuto tra la creatura e Lui stesso. Ed è proprio per vivere questo scambio che ci dona, nel mistero abissale ed infinitamente luminoso dell’Incarnazione, ci dona la Sua stessa vita nella venuta di Gesù. Ecco, siamo al tempo di Avvento, siamo qui non a preparare una festa: fratelli miei, credo che ancora una volta veda detto e veda detto anche con notevole forza, perché, purtroppo, anche noi che ci raduniamo qui nel nome della fede non riusciamo ad essere esenti e non toccati dal paganesimo che ci circonda. La televisione ci ha cominciato a bombardare con i suoi caroselli natalizi, le strade e le vetrine hanno cominciato il loro tentativo di persuaderci e spendere di più ed a spendere meglio di modo che il nostro Natale possa essere migliore e tutto, forse anche un poco per colpa di tutti noi, a cominciare da noi che nel ministero della parola forse non facciamo buon servizio alla parola di Dio, tutti siamo come in una atmosfera paganeggiante in cui aspettiamo il Natale per celebrare una festa e non per celebrare un evento, un Mistero. Ecco la Chiesa nella sua liturgia espressione autentica della sua anima, ci chiama appunto a questo; a celebrare un evento che avviene oggi: l’amore di Dio; l’amore di Dio che non fu soltanto in un tempo lontano, ma che è oggi cosi come è stato nel passato, cosi come sarà domani, quest’amore di Dio che si rende presente nella nostra vita in Gesù Cristo. La fede nella venuta di Cristo, è una fede che, mentre ci dà certezza per essere un evento già accaduto nella storia degli uomini, mentre è un evento che ha radici di certezza nel passato, ci immette in una storia, passa per le responsabilità del presente, è una fede che si proietta nel futuro. La liturgia oggi ci dice che c’è qualcosa che Dio vuol fare. Avete sentito la prima lettura: la visione di Isaia non è una favola, i popoli riappacificati che confluiscono nel tempio del Signore, che salgono da Gerusalemme nella pace cantando il proprio ringraziamento a Dio che li ha riuniti dalla disperazione, non sono il sogno vago di una persona animata da poesia, sono il disegno di Dio. Il disegno di Dio sull’umanità è, per l’appunto, la riunificazione dell’umanità in un’unica famiglia, un unica famiglia radunata non più nel tempio materiale di Gerusalemme, ma in quel tempio vivo che si chiama il Corpo Mistico di Cristo. Il disegno di Dio è che l’umanità cammini verso questa meta definitiva di una pace universale in cui finalmente non esisteranno più né spade, né carri armati, né cannoni, ma esisterà soltanto il linguaggio, lo stile e la realtà della pace. E perché questo disegno possa essere realizzato, Dio ci dona il Piglio Suo; perché questo disegno possa essere non più una vaga speranza racchiusa nei nostri cuori pieni di trepidazione, ma una certezza per la quale vale la pena di impegnarsi e di combattere, per questo c’é stato dato quel Bambino. Dunque quel Bambino che tra quattro settimane vedremo accanto ai nostri altari, o metteremo nei nostri piccoli presepietti in casa non sarà un ninnolo da scherzare e non sarà un giocattolino che serva a custodire i più o meno buoni o più o meno pieni di sentimenti i nostri bambini o a rendere una giornata in famiglia più calda o più affettuosa. Quel Bambino non è un ninnolo. Noi purtroppo possiamo fare anche del bambino Gesù un idolo più o meno di zucchero. Quel Bambino è la garanzia di Dio, della verità della Sua parola, ed è Colui che di fronte a noi si mette come la certezza di questa parola e come il giudizio di Dio, come cioè l’interrogativo che nasce dalla contemplazione della verità. La verità è l’amore di Dio che si propone all’umanità, il giudizio è: “tu che cosa fai di fronte a questa verità?” Di fronte a questa verità c’è un atteggiamento che, nel tempo di avvento ci viene proposto come tipico, fratelli miei, e del quale dovremo umilmente prendere coscienza ed umilmente sforzarci di imitare, è l’atteggiamento di Maria, di Maria che crede alla proposta di Dio e non, la prende dilettantisticamente, non la prende come qualcosa che riguardi sempre altri e non la propria per persona, ma prende la proposta di Dio in prima persona, se ne sente direttamente investita e direttamente responsabilizzata, per cui direttamente si sente impegnata. Protagonista di questo tempo è la fede di Maria, la quale di fronte al Dio che Le si propone accantona ogni cosa di sé per essere disponibile a questa iniziativa. Il S uo dire “ecco l’ancella del Signore, si faccia di me secondo la tua parola” non è una formuletta, non è un’espressione devozionale, é un impegno di vita, ed è per questo che Maria dà al mondo Cristo Gesù. Quello che Dio farà, quello che Dio vuol fare, si comincia a vedere nella vita di Maria. Ecco, fratelli miei, quello che Dio vuol fare, questa Pace universale, questa riunificazione dei popoli nell’unica famiglia dei Suoi figli, si deve cominciare a vedere nella nostra vita. Non basta sperarlo con certezza: la speranza cristiana non é un sentimento vago, ma è un impegno di vita. La speranza nella nostra vita comincia ad essere tale quando ci impegniamo a renderla visibile anche se parzialmente. Ecco la Comunità cristiana à già di per sé un segno visibile della speranza del Dio che viene e che deve sempre venire, ma richiede di essere comunità, di essere cioè popolo fatto da una dispersione che diventa una pace. Fratelli, mi pare che questo impegno responsabile e serio per la pace, questo impegno che ci permetta di dare a noi stessi ed al mondo che vive nella disperazione e nell’attesa sia pure inconsapevole di una salvezza deve venire dall’alto, questo impegno è quello che espressamente e chiaramente la vocazione cristiana chiede a noi. Il nostro Natale non sarà il natale dei bambinelli o dei presepi né tanto meno dei panettoni o delle giornate di sci in montagna, i1 nostro natale, se vuol essere veramente tale, deve essere il Natale della pace, nella coscienza che se vogliamo che sia Natale della pace anche sui fronti lontani dove ancora, purtroppo, tuona il cannone, deve essere il Natale della pace qui, nei rapporti nostri, là dove siamo chiamati a vivere la nostra umanità quotidianamente e là dove, invece, tante volte non ci mettiamo l’uno accanto all’altro nel nome dell’unità, ma nel nome della dispersione. E siamo uno accanto all’altro nell’ambito della nostre famiglie, o nell’ambito dei nostri uffici dovunque abbiamo relazione con gli uomini e molto sovente il nostro rapporto con gli uomini è rapporto di interessi e di profitto e tante volte di disinteresse, d1 noia, di stanchezza dell’altro. E il Regno di Dio, i1 Cristo che è già venuto, il Cristo che con la Sua presenza ci garantisce quello che Dio vuoi fare nel futuro, non è visibile neppure nelle nostre famiglie cristiane, là dove magari per fare il bene siamo disposti a bisticciarci l’uno con l’altro dalla mattina alla sera; ed io parto per il mio bene da una parte e tu parti per il tuo bene da un’altra parte ed il bene mio ed
il bene tuo, invece di confluire nell’unita dei figli di Dio, cozzano nella disunità dei figli di Satana. Questa chiamata ad essere i costruttori della presenza di Dio, sia pure nelle piccole realizzazioni della nostra esistenza, ad essere i costruttori della pace, questo è l’impegno che mi sembra nasca dall’avvento. Perché questo sia possibile, fratelli miei, mi pare che una cosa sola resti da dire. Maria può dare concretamente Cristo al mondo, può accogliere concretamente l’iniziativa di Dio in sé, perché è una creatura di preghiera. Io non ho ricette da suggerire, io non ho programmi da proporvi, posso soltanto dirvi che qui in Parrocchia tutte le sere cercheremo di celebrare l’avvento insieme celebrando l’Eucarestia, a cominciare da oggi, a cominciare da domani, così, nel pensiero di Maria Immacolata. Non ho ricette da proporvi, ma ho soltanto una realtà da annunziare: Maria può essere riempita dall’iniziativa di Dio, può essere fecondata dall’azione dello Spirito Santo, può donare Cristo al mondo perché è creatura di preghiera. Allora la pace che noi siamo chiamati a costruire anche nella nostra comunità, dove è cosi difficile vivere la pace, dove cosi difficilmente riusciamo ad essere poveri, l’uno accanto all’altro, perché sia vivo soltanto Dio e per essere vivi soltanto della Sua presenza, questa pace dipenderà dal modo e dalla generosità con cui pregheremo. Lasciatemi dire questo col profonda responsabilità e con piena coscienza che una pace fatta di parlamentarismo, di dialettica, di mettersi d’accordo non realizza la presenza di Dio. La presenza di Dio è realizzata soltanto dalla azione dello Spirito Santo in noi. Allora oggi, mentre continuiamo la celebrazione dell’Eucarestia, credo che nell’umiltà dobbiamo chiedere a Maria che interceda per noi, che ci dia veramente la possibilità d’imitarlo in questo Suo atteggiamento di fede e di conseguente responsabilità, perché anche il nostro Avvento, come il Suo Avvento, possa essere pieno di Dio.
III DOMENICA DI AVVENTO – Anno A
(Is 35,1-6.8.10 ; Sal.145 ; Gc 5,7-10; Mt 11,2-11)
Fratelli, nella luce della profezia che ci viene ancora una volta annunziata in questa liturgia dell’Avvento, attraverso la voce del profeta Isaia, “Dio stesso verrà e vi salverà”, in questa luce non possiamo non sentire in qualche modo nostro l’interrogativo pieno di dubbio di Giovanni il Battista, i1 precursore. Di questo Giovanni di cui lo stesso Gesù dice un elogio cosi grande come quello che abbiamo ascoltato nella lettura del Vangelo. In effetti, anche con Gesù venuto, sembra che la grande attesa dell’umanità non sia esaurita, non abbia trovato una sufficiente risposta. Anche con Gesù venuto, anche nella stessa Chiesa dei battezzati sembra sovente doversi porre, e noi siamo protagonisti di questo dubbio di questo tempo d’incertezza e di revisione profonda della nostra vita e della vita di tutta la Chiesa, sembra quasi di doversi porre la domanda: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attendere qualche altro?” Ed ecco mi sembra che questo interrogativo che, anche se non teoricamente, praticamente tuttavia ci riguarda, quando nel vivere giorno per giorno noi siamo come nell’attesa di una salvezza e di una sicurezza che venga da qualcuno e molto peggio da qualcosa, per esempio, dallo stesso benessere materiale e dalla stessa sicurezza della casa o della carriera, quando non è da teorie, da persone, da movimenti; ecco a noi che certamente siamo portati da questo dubbio, Gesù oggi nella liturgia che stiamo celebrando presenta la sua carta d’identità: “Dite a Giovanni …”. E il mio compito è di presentarvi stamattina, questa carta d’identità di Gesù e non con le mie parole, ma con profonda trepidazione, perché veramente la mia parola di uomo non sciupi la parola di Gesù ma anche con seria responsabilità tale che possa permettere, non certo per la mia certezza intellettuale o per il valore della mia vita, ma per la forza del Vangelo di prendere stamattina con personale responsabilità la frase di S. Paolo che disse a coloro che si scandalizzarono del Cristo: “Non arrossirò del Vangelo”. Gesù la sua carta di identità la presenta in un modo che certamente scandalizza, anche lo stesso Giovanni che, figlio del suo tempo, e della sua religione, pur avendo una gigantesca figura morale, era in prigione per la sua coerenza, per la sua fedeltà alla legga del Signore, per la sua integrata fermezza nel denunciare la colpa pubblica di Erode che, a capo di quel popolo, che amava definirsi popolo eletto e religioso, tuttavia aveva creduto di poter esimersi dalla fedeltà alla legge di Dio vivendo in un pubblico adulterio, Giovanni dalla gigantesca figura morale attendeva, tuttavia un Messia come trionfatore, come condottiero, come Colui che finalmente avrebbe ristabilito la giustizia, come colui che avrebbe sconfitto il male e tutti i maligni, come che avrebbe riportato l’ordine, non ha importanza se di destra o sinistra. A questo Giovanni che attende un Messia di questo tipo Cristo manda a dire che i ciechi vedono, che gli storpi camminano, che i lebbrosi sono mondati, che i sordi odono, che i poveri vengono evangelizzati, manda, cioè, una fotografia di se stesso in cui non è rappresentato con la spada in mano, con lo scettro del re legislatore o con la bilancia del giudice, con la spada del giustiziere, ma una fotografia di un servo, di un servo che, volendo realizzare l’amore di Dio, nella gloria sua nel mostro tempo lo manifesta mettendosi al servizio di tutte le povertà umane. Il suo compito è annunziare l’amore del Padre, per tutti gli uomini, per gli uomini che vivono in ogni condizione, senza esclusione di nessuno: per questo gli emarginati, i vinti della vita sono i primi destinatari della sua missione, i ladri, le prostitute, i peccatori, tutti coloro che in qualche modo hanno una miseria fisica o spirituale. Viene ad annunciare Cristo, nella sua persona, un amore che deve essere lo specchio, la trasparenza dell’amore del Padre che è fedele al di là delle nostre infedeltà e quindi un amore che è forte come la rivoluzione, che appunto per questo è rivoluzione, perché non scandalizzandosi di nulla, entra fin nelle più intime piaghe dell’umanità malata, non le rifiuta, ma entra in questa sofferenza servendo e pagando di persona. Per questo c’è uno scontro di mentalità, ma Cristo afferma con tanta forza di fronte a Giovanni ed alla sua scuola teologica di …….., afferma Lui che viene da un’altra scuola, che è quella del Paradiso, quella del Padre, quella della vita di Dio: “Beato chi non si scandalizzerà di me”. Ecco questo suo servizio all’umanità, passa nella sua comunità, questa gloria di Dio che si manifesta nel servizio di Cristo, servo dell’umanità fino alla sofferenza della croce, deve diventare la tessera, il modo di essere della sua comunità; per questo dirà: “Vi do il mio comandamento perché come io ho amato così voi amiate”. Per questo dirà nelle sue ultime parole terrene: “Da questo vi riconosceranno per miei discepoli, se vi amerete l’un l’altro”, per questo dirà ancora che nessun amore più grande, nessuno cioè testimonia meglio Dio di colui che dona la vita per i fratelli. Ed è vero. Nella mentalità di Cristo, che la verità di Dio si fa più spazio, è più luminosa e più evidente in mezzo a noi nel servizio umile ai fratelli, piuttosto che nelle elaborate descrizioni e tormentate elaborazioni delle scuole teologiche. Ci può essere una manifestazione di Dio, e tante volte ne siamo testimoni, più nel gesto sofferto di una persona semplice che paga di persona accanto ad un fratello che soffre, ch si accolla responsabilmente la vicenda di un fratello, secondo la propria possibilità ma nella pienezza del suo amore, piuttosto che nella dialettica a volte inutile e tante volte dividente di coloro che aspettano sempre uno che deve venire e non si accorgono invece che è venuto e che è presente dovunque gli uomini si servono realisticamente, concretamente. “Beato chi non si scandalizzerà di me”: questa prospettiva, questa regola di vita, nel Vangelo di Cristo e nella sua comunità, si vive non proponendola o imponendola agli altri, ma assumendola su di sé, qualsiasi sia l’atteggiamento degli altri e nel massimo della misura delle proprie possibilità e del proprio disegno personale, senza schematismi, senza ingabbiare il Dio stesso nella regole di un determinato comportamento ma veramente cercando in umiltà di spirito di leggere il segno della chiamata di Dio nella propria esistenza e seguendola fino all’immolazione più piena. Per questo cristiano sarà non tanto che offre a Dio le proprie opere, sia pure buone, ma che veramente, rinnovandosi, di giorno in giorno, in questa offerta, offra a Dio tutta intera la propria persona. Per questo noi stiamo comprendendo in questa dolorosa vigilia del Natale che a Dio non servono i nostri doni, a Dio non servono i nostri soldi, a Dio non serve neanche la nostra raccolta fatta in previsione del Natale sia pure per aiutare i fratelli. Stiamo comprendendo dolorosamente perché si tratta di pagare di persona ed è difficile comprenderlo bene, che a Dio serve che noi nel momento cui celebriamo l’Eucaristia prendiamo veramente e completamente la nostra vita e lo mettiamo su questo altare, su questo calice su cui veniamo a poggiare la nostra personale particola per dire insieme con Gesù, in profonda comunione con Lui di amore per il Padre e di servizio per l’umanità: Ecco la mia persona, fa di me quello che vuoi. È soltanto partendo da questa offerta che si potrà scoprire il valore dell’oggetto donato e del biglietto da mille o non so che cosa da offrire. Un gesto quello che Cristo ci chiede per nascere in noi ed in mezzo a noi, un gesto che richiede fatica, che richiede pazienza, perché noi non siamo capaci di porlo questo gesto. Perché dopo averlo posto tante volte ce lo rimangiamo, ce lo riteniamo, perché siamo poveri, perché scopriamo mille volte in questo egoismo che ritorna e che ci impedisce di essere fin in fondo di Dio. Ed allora la parola di Dio di oggi ci parla di pazienza, pazienza che non è certo uno sterile immobilismo, non è una pazienza qualunqu
istica che fa assecondare le ingiustizie e lo esclamazioni sbagliate, ma una pazienza illuminata dalla certezza dell’amore Dio che non può venire meno e che quotidianamente ci rimette nella posizione della partenza, nella posizione iniziale, quotidianamente ci fa nuovi di fronte al Dio che ci chiama e ci fa dire: se ho sbagliato, abbi misericordia di me; ricomincio ancora una volta, e se il fratello ha sbagliato, non per questo lo emargino e lo scomunico ma ricomincio con lui, perché questo è il nostro cammino nella pazienza e nella perseveranza: attendere che si compia la beata speranza. La verità di Dio si manifesterà in questa sua fedeltà che sarà stata più forte della nostra stessa incapacità, la verità di Dio si manifesterà nel nostro tempo e nella nostra vita personale, nella misura in cui, a1 di là di ogni povertà e di ogni peccato, noi siamo capaci per la grazia sua di riassumerci questo compito messianico che da Cristo è passato nella sua comunità, di essere il seno della gloria di Dio noi servizio ai fratelli. Non so se le mie parole sono riuscite a tradurre il significato delle letture che abbiamo fatte; forse certamente non così come avrei desiderato. Ma preghiamo insieme il Signore che ci faccia capire il valore di questa sua presentazione e ci ottenga la grazia e la presenza dello Spirito Santo, perché in questa sua identità possa passare in noi come singoli e come comunità, perché il Suo Natale possa essere nella nostra storia.