Anno 1981-82
Tempo Ordinario
II DOMENICA T.O. – Anno B
(1Sam 3,3-10.19; Sal.39; 1Cor 6,13-15.17-20; Gv 1,35-42)
Ecco, come vedete siamo ritornati al colore verde che è il colore del tempo ordinario dell’anno liturgico.
Però la Chiesa ci fa fare ancora un istante di riflessione, ci fa come sostare sul grande tema dell’Epifania che è il tema della manifestazione del Signore.
Per tre domeniche ci ha trattenuti su questo che tanto da vicino ci tocca, che è la manifestazione di Gesù al mondo.
Epifania, battesimo del Signore domenica scorsa, lo ricordate e poi oggi questa rivelazione ai discepoli comincia a diventare chiamata. Infatti, oggi, due sono i grossi temi di questa liturgia: la manifestazione di Gesù nella testimonianza di Giovanni e la chiamata dei primi discepoli.
Forse sarà difficile riuscire a meditare su tutto, però alcune linee possono restare anche per quel doveroso lavoro personale che si può fare nella giornata festiva rileggendo i testi della liturgia; un po’ anche durante la settimana.
Vedete c’è questa espressione così forte di Giovanni Battista: “eccolo”, eccolo in mezzo a noi, eccolo in mezzo a voi, eccolo finalmente. Si può forse fantasticare un pochino su questa espressione di Giovanni, ma non è una fantasia gratuita. “Eccolo” è il grande grido di tutti i secoli dell’Antico Testamento: l’atteso, quello che abbiamo visto profondamente atteso anche nei personaggi, l’atteso anche a livello personale (se vi ricordate l’esperienza di Simeone, l’esperienza di Anna e soprattutto l’esperienza di Maria) veramente il desiderato dei secoli, eccolo è venuto, eccolo è presente tra noi.
Tutto l’Antico Testamento è in questo gesto di Giovanni che sente di dover realizzare quelle che lui stesso diceva: adesso io devo diminuire e Lui deve crescere, adesso tutto quello che è stato detto o vissuto precedentemente non ha più tanto significato, adesso conta soltanto la novità della sua venuta.
Però, ci pensavo e credo che sia giusto, viene un senso di profondissima riconoscenza per la fede degli ebrei che ha preparato la possibilità di annunciare questo “eccolo”; un senso di riconoscenza per il fatto che lui apparteneva a questa fede e noi, come Chiesa, siamo figli della fede di Abramo.
Quanto è ingiusta quella maniera superficiale anche di alcuni clericali che. forse con atteggiamento di poca consapevolezza non hanno rispetto per la fede degli ebrei, anche se questa fede è rimasta come nell’oscurità, nel dolore del non vedere la gioia dell’adempimento di questo “eccolo!” Ma Giovanni passa e dice “eccolo”. Dunque Gesù c’è.
Poi c’è come Una grande testimonianza, come noi per un istante potessimo cambiare le parole della frase di Giovanni e dire: “Ecco di Dio l’agnello”.
Permettetemi questo piccolo spostamento perché per Giovanni è tanto importante che Gesù è proprio l’inviato, è l’unto, è il Messia. Dentro la venuta di Gesù c’è tutta la azione del Padre; il Vangelo poi dirà che Dio ha tanto amato il mondo, da donare il Figlio suo. Dunque eccolo l’inviato, il mandato, dunque ecco Dio è con noi, l amore di Dio non ci ha abbandonati.
E poi Gesù viene definito l’agnello; forse anche qui è importante capire il valore di questa parola antica nella Bibbia che quasi sempre viene abbinata al concetto della Pasqua. L’agnello è quell’essere buono, mite che viene condotto al macello, che viene portato davanti al tosatore, a cui viene chiesto di essere il centro del sacrificio di tutta la comunità ed è nel sangue di questo agnello che si rinnova l’alleanza, per cui anche nell’Apocalisse viene detto che l’agnello sgozzato è il vincitore.
Allora Gesù è colui che subito si presenta come colui che si fa pace tra Dio e l’uomo, tra il cielo e la terra, e ridà all’uomo di nuovo la possibilità di ritrovare la propria identità perduta col peccato: ecco, Gesù fa questo. Questa è subito la grande missione di Gesù. Allora volevo fare con voi due applicazioni di questa manifestazione, di questa presentazione che Giovanni fa con la sua testimonianza di Gesù che è venuto.
La prima è che l’essere più profondo di Gesù è essere per noi nella sua fatica, nella sua sofferenza, nel suo sangue, e questo non soltanto nel momento storico del suo passaggio tra noi, ma in tutti i giorni della vita dell’umanità, da quando Lui è venuto e fino alla fine dei secoli. Come Gesù è la salvezza di Dio per noi? Gesù è la salvezza di Dio per noi perché rimane con noi come uno che si dona, come uno che ama pagando di persona, come uno che non finisce, che non si stanca di dare se stesso per la nostra vita.
Ecco, i suoi contemporanei hanno potuto fare l’esperienza di questo. Certamente i primi discepoli avranno avuto la possibilità di ricordarsi l’uno con l’altro: Ti ricordi quando si affaticava? Ti ricordi quando lavorava? Ti ricordi quando moltiplicava il pane? Ti ricordi quando lavava i piedi? Ti ricordi quando moriva sulla croce?.
Erano contemporanei di Gesù, avevano visto, potevano testimoniare. Ma la Chiesa di tutti i tempi ha in sé la testimonianza di questo amore che non finisce e che lei, la Chiesa, celebra, ma non come un fatto passato, ma come un’esperienza presente tutte le volte che fa l’Eucarestia.
Tutte le volte che noi facciamo l’Eucarestia, quando siamo, invitati ad entrare nell’esperienza della Sua amicizia, di Gesù, la Chiesa ci dice: ecco Colui che adesso sta dando la vita per noi, ecco colui che continua ad offrire se stesso al Padre; e questo sempre nella Messa delle 9, e poi in quella delle 10 e mezza, e poi in quella li mezzogiorno, e tutti i giorni, anche quando la comunità è una piccola comunità, anche quando è distratta, anche quando ritardataria, anche quando è poco capace di comprendere. Eccolo Colui che dà la vita, è Lui che dà la vita.
Gesù è di Dio perché dona se stesso e perché dona se stesso gratuitamente è l’agnello, cioè colui attraverso il quale Dio può rifare l’alleanza e indipendentemente dalla nostra infedeltà, dalla nostra miseria.
Quando saremo al fine .. .. .. noi saremo nella certezza gioiosa di essere nell’amicizia, nella grazia di Dio non perché noi l’abbiamo meritata, ma perché Dio ha dato il suo figlio per noi gratuitamente.
E su questa cosa dovremmo riflettere tanto, perché ci può essere une tentazione nella comunità cristiana del nostro tempo così difficile e quando noi ci troviamo a Messa possiamo trovarci, a volte, in quella sensazione dolorosa, angosciante: chi siamo? poche persone; dove sono quelli che portano avanti i destini dell’umanità, dove sono i giovani?. Se ci guardiamo intorno nella Messa, la domenica, se la comunità umana dovesse udire la verità di quello che celebriamo le Chiese non dovrebbero bastare a contenere la folle.
E invece c’è come un’atonia, un’indifferenza.
Ci può venire come un dubbio: veniamo in Chiesa e annunciamo una fraternità, usciamo fuori e troviamo.. .. ..; veniamo in Chiesa, annunciamo e speriamo e cantiamo la pace … andiamo fuori e troviamo la guerra; veniamo in Chiesa e parliamo di comunione e cerchiamo di guardarci negli occhi con fiducia … torniamo nei palazzi e troviamo la sfiducia parliamo di giustizia, di verità e di pace e vediamo che tutto è condotto all’insegna della falsità, della menzogna, dell’ingiustizia, della durezza di cuore. E ci può prendere come un’angoscia: l’Eucarestia non sarà. un’utopia più grande delle nostre possibilità? La comunità cristiana non sarà una venditrice di sogni? La realtà che noi vediamo nel mondo non è talmente violenta da rendere impotente anche l’annuncio del Vangelo?
Ecco, quando Veniamo a Messa la Chiesa ci dice, al posto di Giovanni Battista: se voi credete a colui che toglie il peccato del mondo, pur essendo povere creature, pur essendo impotenti, potete fare l’esperienza della potenza di Dio in voi.
E allora mi pare che questa testimonianza di Giovanni il Battista debba diventare per noi un invito a credere fino in fondo Gesù e alla verità della sua parola, alla santità del suo sacrificio, alla potenza della sua grazia.
Veramente mai deve succedere che io mi debba sentire bloccato nel credere a Gesù dal fatto che sono una povera creatura; mai deve succedere questo.
Mai deve apparirmi come più forte il mio fallimento di quanto non sia l’annuncio della grazia del Signore. Sempre devo credere più all’Agnello di Dio che mi salva piuttosto che alla mia capacità di salvarmi con la mia bravura e con la mia santità.
Io volevo dirvi in questi giorni che vengono, in questi tre giorni che sono dedicati all’adorazione, se trovate il tempo per la preghiera silenziosa, per l’adorazione, e penso che tutti dobbiate trovare il tempo, per l’adorazione davanti a Gesù Eucarestia, ecco provate veramente a lasciarvi riempire dall’annuncio di questo amore che non si stanca dì amarci; allora facciamo quest’esperienza, che se uno scopre che qualcuno continua ad amarci allora non può fare altro che riamare, riamare.
Allora: dove abiti? voglio stare con te … cosa fai? voglio fare quello che fai tu … perché sei venuto? voglio condividere la tua missione … Perché mi hai chiamato? vado a chiamare i tuoi fratelli …
Vedete com’è la logica del Vangelo, fatta l’esperienza di questo amore, quest’amore diventa comunione.
Allora i primi due diventeranno tre … e poi i tre diventano cinque … e poi i cinque diventano dodici … e i dodici diventa 72 e po1 diventano 120 e poi è Pentecoste e diventano duemila … cinquemila …
E questa è la Chiesa. Non l’organizzazione, ma la testimonianza, la comunicazione di un’esperienza, di un perdono e di un amore ricevuto, più grande di noi, che ci permette di dire ai nostri fratelli: vieni e vedi … vieni e vedi …; c’è qualcuno che mi ha voluto bene! Ma come, sei un poveraccio. Si, anche se sono un poveraccio qualcuno mi ha voluto bene.
Allora, nella Messa di oggi, vogliamo chiedere al Signore Gesù di poter credere fino in fondo all’amore suo che si svela nell’incarnazione per poterlo vivere e per poterlo donare.
III DOMENICA T.O. – Anno B
(Gio 3,1-5.10; Sal.24; 1Cor 7,29-31; Mc 1,14-20)
.. .. .. .. nel tempo che viene chiamato ordinario dell’anno, mentre ordinario non vuole dire solo così, nel senso come noi usiamo nel linguaggio concreto, noi diciamo: questa stoffa, è ordinaria intendiamo che non è tanto buona, mentre invece il tempo ordinario nell’anno liturgico è proprio il tempo in cui viviamo le conseguenze dell’annuncio forte che ci è stato dato nei momenti delle solennità; è come se adesso fossimo chiamati a vivere, in questo tempo che va dalla celebrazione dell’Epifania fino agli inizi di quaresima, come se la Chiesa ci dicesse: vedete, Gesù è venuto a stare veramente con noi, allora … — ecco: allora — oggi inizia il primo impegno di questo “allora”. Il vangelo di Marco ci dice: convertitevi e credete nel vangelo perché il regno di Dio si è fatto vicino, è vicino.
Non è tanto vicino nel senso di tempo, quasi che ancora debba venire, ma è vicino perché si è fatto vicino, perché Gesù è con noi.
Ma vediamo le cose un momentino distintamente. Vediamolo con attenzione, perché di queste parole dobbiamo vivere per tutta la settimana e anche altre, ma almeno per tutta la settimana.
Vedete, c’è una profonda diversità tra la prima lettura e la paginetta del vangelo.
Anche Giona, profeta di Dio, andò ad annunziare la penitenza, la conversione ad una grande città che fa pensare tanto alle nostre metropoli: correvano tre giorni di cammino, dice il testo.
Giona rendeva forte la sua parola; era una parola difficile perché questa città sembrava essere sorda agli inviti alla conversione, sembrava attenta a tante realtà completamente diverse, opposte a quello che significa convertirsi. a Dio, e Giona doveva rendere forte il suo invito con la minaccia: ancora quaranta giorni e questa città sarà distrutta; .. .. .. nella popolazione di Ninive di essersi convertita sin pure sotto la spinta, sotto l’aspetto della minaccia. Ma quando viene Gesù è un’altra epoca, un’altra era; vedete come l’evangelista dice: dopo che Giovanni fu arrestato. Quindi Giovanni non c’è più, il Testamento Antico non c’è più, la minaccia non c’è più. Viene Gesù e propone tutto positivo il sue invito; non fa delle minacce, non dà delle scadenze, non dà criteri da ultimatum, ma con tutta la passione del su o cuore Gesù dice: convertitevi e credete al Vangelo.
Che significa questo vangelo, questa buona, notizia in un mondo così ossessionato dalle cattive notizie per cui il nostro primo gesto istintivo, premendo il pulsante della nostra radio sul comodino a prima mattina, per sentire le notizie, è di chiederci: sentiamo chi hanno ammazzato oggi, sentiamo quale banca hanno assaltato o quale bomba hanno buttato. In questa ossessione delle cattive notizie che cosa significa buona notizia?
Ecco, buona notizia significa: Dio non è stanco dell’uomo, Dio si è fatto vicino all’uomo; ecco il collegamento con le feste che abbiamo celebrato: Dio ha tanto amato il mondo da mandare il Figlio suo.
Domenica scorsa Giovanni diceva: eccolo, oggi Gesù dice: eccomi.
Ed è nel credere a questa verità non come ad un fatto intellettuale.
Qui bisognerebbe farsi un esame di coscienza forte per tutto il tradimento che noi facciamo al Vangelo quando confondiamo la fede col capire con la testa.
– Quello ha la fede perché ha studiato il catechismo – diciamo,- sa tutte le risposte a memoria, è un ragazzo preparato. – Che tradimento per i nostri bambini! Non è certo conoscere le rispostine, non è certo – a livello adulto — conoscere il libro di teologia che porta nella nostra vita la fede. La fede è la conversione, è credere a questo amore che si é reso presente. Ed è la-gioia di sentirsi amati con certezza perché c’è Gesù, e c’è Gesù: ne abbiamo fatto l’esperienza nei tre giorni di adorazione: ma se Tu stai qui allora mi vuoi bene, allora da Te mi viene la libertà; la libertà dalla paura, la libertà dalla preoccupazione, la libertà dalla situazione
Tante volte noi siamo portati a pensare: io sarei un uomo realizzato, sarei un uomo felice, sarei una donna libera se ci fosse quella situazione, quell’altra situazione, se avessi sposato un altro uomo, se avessi degli altri figli, se abitassi in un’altra casa …
Quante volte facciamo dipendere il progetto o l’ideale della nostra vita, i sogni della nostra vita, che poi così difficilmente si realizzano, lo facciamo dipendere da tutti questi “se”. E invece Gesù dici: voi credete all’amore di Dio perché io sono qui, vicino.
Ho trovato un racconto sulla vita dei monaci della comunità di .. .. .. dove S. Bernardo aveva fondato la sua comunità. È detto che c’era un fratello converso, sapete che non celebrano la Messa, che sono un po’ come un diacono (ora ce ne sono pochi ma allora erano abbastanza numerosi). Il fratello converso era nel monastero e attraverso di lui il Signore operava tanti miracoli; un giorno l’abate lo chiamò, l’abate, questa grande autorità dei monasteri benedettini, e gli domandò: Fratello, ma comete spiega che Dio attraverso di te opera tante cose meravigliose? E il fratello rispose con umiltà: – Padre io non ne so niente. Io non faccio più preghiere dei miei confratelli, io non faccio più penitenze, io a tavola mangio, la notte dormo. Ho un’unica passione: fare sempre bene, nella gioia e nel dolore, nei momenti facili e nei momenti difficili, la volontà di Dio. E la mia preghiera è che la Sua volontà si faccia in me e in tutte le creature di Dio. Perché sono certo che quella volontà mi ama.
Ecco, è un episodio; forse sarà vero, forse sarà una leggenda, ma comunque c’è tutta la sapienza del Vangelo. Credere che Gesù è qui significa veramente fare della parola Sua la regola della nostra vita, cominciare a vivere come persone che non hanno più la radice nella propria gioia, nella propria libertà, nella situazione. Avete sentito S. Paolo, come veramente ciascuno è chiamato a vivere di questa certezza di sentire il fatto di certezza dell’amore di Dio.
Certo, sentire il fatto di certezza forte dell’amore di Dio: allora può essere sposato e vedovo, può essere in buona salute e malato, può restare e può partire, tutte le contraddizioni possono essere vissute in questa libertà. E questa è la libertà che Gesù ci porta nel nome dell’amore di Dio. Ma occorre una conversione; perché fin quando davanti a noi c è un progetto elaborato per noi, magari anche in buona fede, che ci sembra vero, giusto, ci sembra utile che noi dobbiamo realizzare, allora nella perdita di quel progetto io perdo la libertà e la pace, e non solo questo, ma rischio di assoggettare Dio al mio progetto e le mie preghiere tendono a comprare la Sua grazia per benedire il mio progetto: aiutami a fare questa che ho pensato io.
E come è vero il salmo che abbiamo detto tra le due letture: insegnami, Signore, le Tue vie. Insegnami! Non c’è libertà interiore se non in questo essere radicalmente di Gesù.
C’è un’altra casa che mi sembra importante dirvi perché fa parte della liturgia di oggi e Gesù ce na parla, se ne fa maestro in mezzo a noi.
Questo suo chiamare alla conversione non è un fatto soltanto interiore. Immediatamente Gesù chiama delle persone e dice: — Se l’amore di Dio vi ha raggiunti vuol dire che l’amore di Dio comincia ad essere visibile sulla terra.
Dice Marco, e lo guarderemo ancora perché lo incontreremo in tutte le domeniche di quest’anno, – ne scelse dodici, li chiamò perché stessero con lui. Cosa vuol dire dunque, il regno di Dio è vicino, si è fatto vicino?
Vuol dire che Dio è in te stesso, si è cominciato a comunicare agli uomini. Il Verbo, dicevamo a Natale ha messo la sua dimora in mezzo agli uomini.
Allora la vita di Dio comincia ad essere la vita degli uomini.
Cos’è il Regno dì Dio. Il Regno non è quelle cose che noi immaginiamo con la mentalità della vecchia monarchia, per cui pensiamo che Dio è una specie di Re Sole, come Luigi di Francia, gli facciamo dei grandi troni, dei grandi altari, dei grandi baldacchini. Non è questo il regno di Dio.
Dov’è che Dio regna? dove la sua vita circola e Gesù comincia a fare comunione e la fede nel Vangelo, la fede in Gesù diventa comunione tra fratelli.
Pietro, Giacomo, Giovanni, Andrea, venite, state con me, stiamo insieme. Stiamo insieme. E la Chiesa e il Vangelo di Gesù non è regno di Dio se non nella comunione. Non si stanca di dircelo, la Chiesa, anche se noi, purtroppo, anche del più comunitario dei gesti quale è l’Eucarestia, facciamo un fatto personale.
Vedevo com’è difficile, per esempio, trovare la capacità di pregare insieme; come quando facciamo la comunione – posso dire questa cosa, proprio tanto fraternamente -. Quando facciamo la Comunione ci prendiamo quel piccolo Gesù e ce ne andiamo nell’angoletto nostro, così ora stiamo soli, io e Te, o mi sono fatta una nicchia, fatta una piccola Chiesa – che difficoltà unirmi al canto di tutti – “No, voglio starmene in ginocchio dietro alla colonna – da solo … mentre Gesù viene perché noi facciamo comunione”.
Il regno di Dio è dove noi veramente facciamo comunione.
È una verità antica che già si intravede nell’A.T. che gli ebrei già in qualche modo sentivano, ma che Gesù ha inaugurato.
Ho letto: – Un vecchio rabbino domandava un giorno ai suoi allievi: – Da che cosa si può riconoscere il momento in cui la notte finisce e il giorno comincia? Forse quando si comincia nettamente a distinguere un cane da una pecora? No – rispose il rabbino. Forse quando si comincia a distinguere una quercia da un fico? No, rispose ancora il rabbino. Allora quando? gli domandarono i discepoli. – Quando guardando il volto di qualunque uomo riconoscerai tuo fratello e tua sorella. Fino a quel momento fa notte sul tuo cuore.-
Ecco, il regno di Dio è la comunione tra i fratelli. E la Chiesa è Vangelo di Gesù in un territorio, in una porzione di città di una delle Ninive di oggi che è la Napoli nostra. Ecco una Chiesa comincia ad essere Vangelo di Dio quando quel credere all’amore diventa il posto dell’amore, diventa darsi una mano, diventa riconoscere il giorno del regno di Dio nel volto del fratello o della sorella.
Sono cose importanti, no? E Gesù ci dice: questo è il momento. E io mi auguro che voi lo viviate così, come momento che Dio ci chiede di vivere oggi.
Allora possiamo preparaci a recitare il Credo, oggi, perché Gesù ha detto: convertitevi e credete.
IV DOMENICA T.O. – Anno B
(Dt 18,15-20; Sal.94; 1Cor 7,32-35; Mc 1,21-28)
Il Vangelo di nostro Signore da questa domenica è l’insegnamento dei Vangelo di Marco, ed io vorrei proprio pregarvi di prestare quell’attenzione di fede e d’amore che permette di cogliere la voce del Vangelo. “Parlava loro come chi ha l’autorità”. Non è tanto l’autorità di uno scriba più esperto degli altri, lo vedremo, ma è l’autorità di chi fa la verità che annuncia.
Io cercherò di essere schematico per aiutare, anche se necessariamente un tantino più lungo; forse questo potremo compensarlo riducendo al minimo gli altri gesti della Messa di queste due domeniche: questa e la prossima.
I tempi di Gesù erano tempi di una grande degradazione sociale, in Palestina in modo particolare. Alcuni fenomeni che appaiono anche nel Vangelo erano comuni: l’emigrazione per cercare lavoro, il brigantaggio (ne parla anche la parabola del samaritano) i mendicanti erano molti, il disordine sociale tanto, tanto è vero che l’autorità occupante era spesso preoccupata di questa degradazione.
Non tutto il popolo era a rimorchio dì questi movimenti di degradazione; c’erano certi atteggiamenti di contrapposizione, di reazione. Questi atteggiamenti erano o spiritualisti come il monachesimo per es. nelle tombe di Conrad si riunivano pii ebrei che rifiutavano il contatto con l’uomo impuro, peccatore, cercavano il dio della solitudine. C’era la reazione degli zeloti, che forse toccava anche qualcuno dei discepoli di Gesù, come Giuda, che vedevano il ristabilimento dell’ordine sociale nella rivoluzione, e non solo dell’ordine sociale ma anche del regno di Dio: cacceremo i romani, faremo l’ordine, sarà il regno di Dio.
C’erano, quasi in corrispondenza di una massa di mendicanti che spesso incontriamo nel vangelo, tanti che andavano dietro a teorie nuove, tanti che potremmo chiamare, senza riferimento indubbiamente ai movimenti di oggi, carismatici, persone cioè che non si appellavano ad avvenimenti del passato, ma che guardavano ad un futuro tutto da inventare.
Gesù porta la sua dottrina; non la porta come i monaci di Conrad che si ritirano nella solitudine; non la porta, lo sappiamo bene, come i rivoluzionari che vogliono la spada, la durezza e non la porta neanche come questi carismatici che non sanno dove poggiare i piedi.
Gesù non rifiuta il suo tempo; già questa è una cosa molto importante da meditare e dice il Vangelo “entra in Cafarnao”. Per quelli che leggono i testi con attenzione quella piccola particella “in” significa molto. Gesù entra dentro la città dell’uomo e, dopo, il Vangelo ci farà incontrare Gesù a contatto con tutte le situazioni dell’uomo, in casa del ricco e in casa del povero, a colloquio con il puro o con i peccatori, per strada e al coperto; Gesù non avrà limiti per questo suo entrare nella città dell’uomo.
Gesù insegna con autorità. Quello che colpisce la gente è che Gesù insegna ed era simultaneamente. Il prodigio à proprio questo.
I prodigi del Vangelo non sono dei racconti fatti per far sgranare gli occhi alla gente né per indurre ad atteggiamenti quasi di una mentalità magica.
Non è venuto per togliere tutti i mali del mondo, non é venuto per guarire tutte le malattie, far vedere tutti i ciechi e risuscitare tutti i morti. È venuto per insegnare una dottrina e per operarla.
Gli scribi potevano soltanto insegnare una dottrina, studiarla; il loro limite era che insegnavano soltanto. E anche questa è una cosa da meditare.
Oggi, dirà l’enciclica di Paolo VI sull’evangelizzazione, il mondo non ha bisogno di maestri ma di testimoni.
Andiamo avanti.
Gesù annuncia la verità di Dio sull’uomo, viene per dire che Dio è Padre e l’uomo, nella sua natura più intima, è figlio di Dio.
E allora libera l’uomo dall’ostacolo – la parola Satana vuol dire ostacolo.
Noi sappiamo che Satana è anche un essere vivente, personale, ce lo dice la fede, angelo ribelle a Dio. Ma quello che ci deve colpire nella meditazione del vangelo non è tanto Satana, quanto quello che impedisce all’uomo di essere figlio di Dio.
Gesù libera l’uomo dall’ostacolo, da quello che viene chiamato immondo, impuro, ma non in senso sensuale; immondo, impuro nel senso che non è sacro, nel senso che impedisce all’uomo di essere quello che deve essere davanti a Dio.
Viene per liberare l’uomo da quello che gli impedisce di realizzare la piena dignità di uomo.
Vi porto un momentino al Cap. V del Vangelo di Marco dove è raccontato che Gesù libera un indemoniato a Gerasa. Quest’indemoniato posseduto dal male è un uomo che non ha più possibilità di avere dignità, abita i sepolcri, vive nei sepolcri, come morto.
A stento si riusciva a tenerlo legato con le catene; non aveva più relazioni con i propri simili, non aveva rapporto con Dio perché il luogo dei morti, per gli ebrei, era un luogo dove non si poteva pregare, un posto di immondizia.
Gesù, lo ricordate l’episodio un po’ sconcertante in cui la legione dei demoni esce dal branco dei porci e si gettano nel lago e il lago è il segno dell’inferno e quindi il demonio ritorna davanti a Gesù e al suo luogo che è l’inferno.
Quest’uomo è separato da Dio perché vive tra i morti, è separato dai suoi perché è legato, è separato da se stesso, è dissociato. Gesù gli ridà i vestiti, quindi gli ridà la propria identità, lo restituisce ai suoi; “va a casa”; gli fa conoscere la misericordia di Dio gli dice Dio ti ama, Dio ti ha perdonato, sei libero, e quindi lo restituisce alla terra, come un uomo ricostruito. Dunque Gesù è pienamente profeta perché annunzia e opera la ricostruzione dell’uomo.
Capite questa cosa.
Ora quello che è della persona di Gesù, questo suo essere il liberatore, colui che opera la liberazione dell’uomo dal male è anche il compito della Chiesa.
Gesù risorto, nel Cap. XVI del Vangelo di Marco, manderà i discepoli su tutta la terra e dirà: questi sono i miracoli che accompagneranno quelli che credono: scacceranno i demoni nel mio nome, parleranno lingue nuove, imporranno le mani agli infermi e questi guariranno. Allora il compito profetico di Gesù passa nella Chiesa.
La Chiesa deve dire incessantemente la verità di Dio sull’uomo e deve operarla, impegnata in una lotta continua contro tutto quello che non corrisponde al disegno li Dio.
E la Chiesa deve fare questa lotta a quello che non corrisponde alla dignità dell’uomo, alla verità sull’uomo, costi quel che costi.
L’uomo è la via della Chiesa, dice Giovanni Paolo II, e non c’è glorificazione di Dio senza impegno per l’uomo. E la Chiesa è debitrice all’uomo di ogni tempo di questo compito profetico; dire la verità.
E questo è l’aspetto più difficile della vita della Chiesa perché bisogna portare l’ uomo concreto, l’uomo di Cafarnao, l’uomo del mondo di oggi, l’uomo della Napoli di oggi, l’uomo della storia, bisogna portarlo all’incontro con Dio.
E la storia tante volte è ambigua; l’uomo è posseduto dalla menzogna, la menzogna della politica, la menzogna del consumismo. È così poco protagonista della propria vita, l’uomo!
E la Chiesa deve guardare sempre i segni dei tempi; vi ricordate Papa Giovanni, per annunziare all’uomo la verità, siccome l’uomo ha bisogno di testimonianza, la Chiesa è chiamata a porre segni concreti, che le diano autorità, che le diano credibilità, come quella di Gesù. Non insegnava come i loro scribi.
Allora quando vi sono segni concreti, per esempio, di perdono, di mitezza, di distacco dai beni, allora si comincia a capire che il Vangelo è possibile.
Quando si comincia a vedere qualche segno di politica intesa come servizio e non come profitto, di professionalità intesa come competenza e non come prestigio, di lavoro inteso come dono all’umanità e non come occasione di guadagno soltanto, allora si comincia a capire che il Vangelo è possibile.
E qui bisognerebbe domandarsi: questo compito profetico di Cristo che passa nella Chiesa, come è vissuto oggi?
Meditavo, ripensavo ieri sera, stamattina, e mi veniva di pensare con riconoscenza a quanto la Chiesa ha vissuto profeticamente negli ultimi anni: Papa Giovanni, Madre Teresa, Raul Follerau, Mons. Romero, Lech Walesa, Paolo VI Adenaur, Martin Luther King, Chiara Lubich, Giovanni Paolo II che dà il sangue in Piazza S. Pietro.
Certo non è mancato Cristo profeta nella Chiesa di oggi. Non è mancato.
E tuttavia questa vocazione profetica così forte e così esercitata deve diventare di tutto il popolo di Dio.
Ha detto il Concilio: Cristo, il grande profeta il quale o con la testimonianza della vita e con la virtù della Parola ha proclamato il regno del Padre adempie il suo ufficio profetico anche per mezzo dei laici, che perciò costituisce suoi testimoni perché la forza del Vangelo risplenda nella vita quotidiana familiare e sociale.
Allora bisognerebbe che oggi ci domandassimo come viviamo questo compito, qual è la nostra situazione dì Chiesa oggi a Napoli. In questa Napoli di degradazione individuale e sociale, dove l’uomo è posseduto, posseduto dalla violenza, posseduto dalla mancanza reciproca di riconoscimento della dignità, posseduto dallo strapotere della camorra.
Non abbiamo sentito con tutto il quartiere il rumore della bomba qui a Mergellina ieri notte?
Non é sempre più vero che chi ha intenzione di lavorare onestamente è scoraggiato e che la città diventa invivibile?
L’uomo dunque posseduto dalla violenza della camorra. È amaro sentirsi dire da un fratello come Rosario Montagna: -parto per l’Australia perché qui non c’è niente da fare; incontrare i giovani per strada e dire: – non ci si fa, non ci si può fare.
E vedevo la tristezza di decine li famiglie che devono rimettere i vetri perché siamo posseduti dalla violenza.
Ogni sfiducia, ogni fatalismo è come una connivenza segreta con il regno di. Satana e quanto responsabile di coloro che hanno la responsabilità, e mi domando chi non ne ha, la responsabilità di parlare
Quando la sfiducia e il fatalismo diventano atteggiamento allora questo diventa .. .. .. personale a Satana.
Il compito profetico della parrocchia non si esaurisce, fratelli miei, in qualche canto fatto in Chiesa o in una bella funzione.
Significa portare il riconoscimento concreto, a fatti, della dignità dell’uomo nel luogo dove facciamo l’eucarestia perché quel Gesù sia visibile e credibile.
Mi verrebbe una domanda: cosa facciamo?
Una proposta di concreto domenica prossima.
Intanto rinnoviamo la fede
V DOMENICA T.O. – Anno B
(Gb 7,1-4.6-7; Sal.146; 1Cor 9,16-19.22-23; Mc 1,29-39)
Anche questa domenica è la grande riflessione del Vangelo di Marco. Siamo sempre nel I° Cap. ma che è estremamente denso, carico di significati per presentare la persona di Gesù. Ricordiamo sempre che Marco scrive per coloro che provengono dalla fede giudaica e che ha cominciato il suo vangelo per un lettore adulto, cioè per quelli che venendo direttamente alla fede del vangelo di Gesù chiedono il battesimo.
A lui sta a cuore presentare Gesù proprio nella pienezza della su, missione per questo il primo capitolo del suo vangelo comincia già con Gesù adulto.
Abbiamo già detto questo ma va tenuto sempre presente proprio per capire i .. .. .. del discorso di Marco.
Il suo grande tema è: Gesù è il Salvatore, è colui che libera dall’ostacolo e perciò, lo dicevamo anche domenica scorsa, c’è questo scontro diretto con il Satana, vuol dire ostacolo, con il demonio.
Questa lotta con il demonio degli indemoniati, nei posseduti non è tanto un fatto di tipo magico, di tipo spettacolare che voglia eccitare nostra curiosità, ma è proprio per farci comprendere che Gesù toglie quello che impedisce all’uomo di essere veramente uomo.
Perciò Gesù viene presentato anche come taumaturgo, cioè come colui che ridona la vita a chi l’avesse persa o completamente, e in questo senso Marco racconta la resurrezione della figlia ai Giairo, il capo della sinagoga, questa ragazza di 12 anni, oppure ridona la vita a chi l’ha parzialmente perduta, come la suocera di Pietro in questa pagina del vangelo.
C’è una cosa molto importante che voglio farvi cogliere nella riflessione su questa paginetta così densa: la suocera ha la febbre; la febbre le impedisce di stare in piedi, di avere la pienezza della vita. Il tocco della mano di Gesù le ridona la vita: Gesù la guarisce. Ma che cos’è la vita? La vita è lo stare in piedi e servire i fratelli. Guardatelo nel testo, non c’è nessuna forzatura.
Lei è messa giù dalla febbre.
Ieri sera leggevo una pagina di Giovanni Crisostomo che diceva:— le febbri sono tutto quello che in noi ci impedisce di vivere la carità. Per uno sarà l’ira, per un altro sarà la .. .. .., per un altro sarà l’egoismo, per un altro sarà la preoccupazione di sé, per un altro sarà il ricordo del passato, per un altro sarà la preoccupazione per il domani, fatto sta che noi ci ripieghiamo e non siamo più capaci di servire i fratelli, non stiamo più in piedi e allora siamo nella febbre e ci vuole questo tocco di Gesù.
Ho letto anche un altro dei Padri sempre della Chiesa orientale, se non mi sbaglio era S. Girolamo, e lui diceva che questo tocco, con la mano di Gesù, la forza di questa mano, la tenerezza di questa mano, la potenza di questa mano è quello che toglie da noi la febbre e ci ridà la vita, ci rimette in piedi.
Poi dopo, in questa pagina, del vangelo di Marco — forse voi potete fare anche una riflessione proprio per rendervi conto di quello che sta a cuore all’evangelista di come il rapporto di Gesù con l’umanità non si esaurisce in pone persone, in pochi chilometri quadrati, potete fare questa riflessione: in pochi versetti di questo capitolo per quattro volte è detta la parola “tutti”. Tutti i malati — tutti gli indemoniati — Poi gli. viene detto: — tutti ti cercano, e Gesù, dice l’evangelista, va per tutta la Galilea.
Questa è una cosa molto importante perché non c’è nessuno che è escluso da questa tensione d’amore e di liberazione di Gesù.
Allora vogliamo fare, ma molto brevemente, una riflessione che mi sembra molto importante: la vita che ci permette di essere vivi pienamente davanti a Dio è nella persona di Gesù e Gesù di questa realtà che la vita è in Lui ci dà un’altissima e continua testimonianza nell’eucarestia.
Questo è proprio il mistero della fede.
Questo è proprio il luogo dove Gesù diventa pane di vita, colui che continuamente ci rimette in piedi, ci guarisce da tutte le nostre febbri, E ci rimette in piedi non per una vita qualsiasi ma per la pienezza della vita. È nel contesto dell’eucarestia che Gesù dice le sue parole: “Io pongo la mia vita perché abbiano la vita e l’abbiano abbondantemente”.
Ed è nel contesto dell’eucarestia che Gesù ci fa capire che cos’è la vita in senso pieno quando Lui prega nella preghiera sacerdotale: “Padre voglio che quelli che mi hai dato siano con me dove sono io, perché abbiano la gloria – che è sinonimo di vita – che io ho presso di Te da prima che il mondo fosse”.
Gesù chiede per i discepoli, per tutti quelli che partecipano all’eucarestia, quindi per me e per ciascuno di voi, chiede la vita che Egli ha da sempre. Ed è una vita per sempre.
Allora il luogo dove Gesù ci tocca con la nano, ci raggiunge con la Sua mano è l’Eucarestia.
E qui noi siamo certi che quando proponiamo la grandezza della vita, la preziosità della vita dell’uomo, di ogni vita, non siamo preda di una esaltazione ideologica ma siamo nella verità, e siamo spinti da questa certezza a consegnarci liberamente a Gesù, a Gesù che ci raggiunge nella Chiesa e nei sacramenti non per renderci schiavi di un moralismo bigotto, retrogrado, ma per essere persone realizzate, realizzate nella pienezza della vita davanti a Dio.
Perché, dirà Giovanni, ed è la fede della prima comunità cristiana, chi ha il Figlio ha la Vita.
Allora la nostra ambizione più grande deve essere quella di avere il Figlio, di esser così uniti al Figlio di Dio da poter essere anche noi figli di Dio.
Ed è soltanto da questo rapporto forte con Gesù, e qui si capisce la preziosità dell’Eucarestia che il bene più prezioso della Chiesa, che è il luogo dove concretamente, al di là di ogni povertà, noi possiamo essere raggiunti dalla mano benedetta di Gesù.
Ecco, proprio qui capiamo che la nostra vita vale davanti a Dio e che noi possiamo diventare figli di Dio fratelli di Gesù, tanti Gesù.
Ecco la testimonianza a favore della vita.
Lo ricordiamo oggi in modo particolarissimo perché in tutta la Chiesa si prega per la vita, è la giornata per la vita.
La testimonianza della Chiesa a favore della vita non è un fatto di tipo culturale; non è neanche qualcosa che ha valore di crociata. Quando noi ci lasciamo prendere da atteggiamenti un po’ da crociata tradiamo questa idea nel mondo del valore della vita.
Se non andiamo in Dio, profondamente in Dio in questa sua intenzione di comunità con se stesso e lo fa realmente nel Figlio e lo rende realmente possibile tutte le volte che facciamo l’eucarestia, alla fine noi ci troviamo al livello delle suffraggette più o meno eleganti, più o meno solenni, come quelli che dicono: adesso facciamo un anno per la vita e si può fare tutta una serie di manifestazioni per la vita; o adesso facciamo un anno per la pena di morte e facciamo …
E non è questo, non è questo! …
La coscienza del valore della vita è qualcosa che è radicato direttamente nella prima pagina della Bibbia, là dove sta scritto; – facciamo l’uomo a nostra immagine., Lì Colui che è fa l’uomo a sua immagine perché l’uomo sia, e sia per sempre.
Ecco, questa è la radice della nostra certezza per cui mai la lotta per la vita deve diventare un atteggiamento isterico, una battaglia di carte, di documenti, di interpellanze.
Come si reprime veramente il valore della vita quando ne facciamo oggetto anche di referendum: l’abbiamo visto che cosa amara, che cosa triste, che cosa insignificante! Ma al di là dei discorsi astratti, che pure sono veri, volevo proporvi due conseguenze che mi sembrano molto importanti.
La prima è che di fronte a Gesù che vuole dare la vita nella nostra coscienza si faccia una grandissima stima della dignità di ogni creatura umana che perciò deve essere guardata con lo sguardo di Dio e senza scuse.
Le scuse, in fondo, sono il vestito della mancanza di stima che viene dalla mentalità del mondo che è sempre una mentalità di sopraffazione, di sfruttamento, di godimento, di egoismo, anche quando è un mentalità che cerca di ammantarsi di scientificità. Penso alla proposta di un noto sociologo apparsa in questi giorni su un grosso giornale italiano il quale proponeva che le famiglie si impegnassero ad avere un solo figlio. Ma quale è il valore della vita in questo senso?
Come se la logica del figlio unico fosse la logica a favore della vita; come se non fosse abbondantemente dimostrato, anche dall’esperienza che là dove esiste la logica del figlio unico esiste purtroppo la logica dell’asocialità, della lotta, dell’esasperazione di problemi. E bisogna essere attenti a queste scuse perché possono inserirsi come un’insinuazione, come un’indulgenza anche tra i cristiani.
Allora dobbiamo guardare, credo che questo ce lo dobbiamo dire almeno in questo momento all’interno della comunità che si raduna intorno a Gesù nell’Eucarestia, dobbiamo guardare a Gesù Maestro di vita che continua costantemente, incessantemente il suo insegnamento anche nel magistero dei Vescovi, e con quanta forza in questo Papa che si può dire sta vivendo un martirio i servizio alla vita e alla dignità dell’uomo su tutta la dimensione della terra.
E la seconda conclusione è che questa stima fiorisca in servizio delle opere che sostengono quella dignità. Veramente vorrei che risuonasse non come una parola secondaria quello che oggi la Chiesa ci ha fatto leggere come prima lettura, il grido di dolore e di angoscia di Giobbe. Quanti oggi urlano questa angoscia, perché non hanno il senso della vita.
Giobbe malato, abbandonato dai figli, Giobbe disprezzato nella sua malattia persino dalle persone più care, fa pensare al dramma di tanti anziani della nostra società. Fa pensare ai tanti e alle tante che maledicono la vita perché non scoprono un significato alla propria solitudine, alla propria vecchiaia, alla propria sofferenza, perché non c’è il vangelo della sofferenza, perché la società nella quale viviamo ha maledetto la sofferenza; per conseguenza ha estraniato, e vorrei quasi dire ha maledetto colui che soffre, per cui lo fa fuori.
Ma la di là di queste denuncie che sono anche troppo ovvie perché sono sotto ai nostri occhi, vorrei dire deve essere impegno di colui che accoglie da Gesù il vangelo della vita, quello di passare dai principi alla pratica. Oggi vogliamo domandare a Gesù di farci sentire l’inutilità di affermazioni di principio che rischiano di diventare ipocrite quando queste affermazioni non fioriscono nella testimonianza di cui Lui è fatto maestro e di cui il mondo ha bisogno.
Paolo VI diceva nella Evangeli nuntiandi che il mondo di oggi ha bisogno di testimoni più che di maestri. Dobbiamo saper dire anche con sacrificio, fratelli miei, altrimenti diventa sterile l’esaltazione della vita nelle nostre assemblee e ancor più sterili le discussioni ad alti o a bassi livelli con le persone che magari la vedono.
Bisogna essere convinti e portare con forza la testimonianza che il vangelo della vita è possibile. Ho davanti agli occhi dell’anima la testimonianza che domenica scorsa mi davano Giovanni e Giacinta. Loro che già hanno adottato un bambino non pienamente normale e che mi dicevano che andando a visitare i bambini ricoverati in un ospedale specializzato di Napoli si sono accorti di un bambino inerte. Inerte. Hanno domandato ai medici, hanno detto: – non c’è niente da. fare; ai paramedici, hanno detto: – non reagisce, E lei, Giacinta, a stargli vicino, a prenderlo in braccio, a dirgli parole. Piano piano, dopo mesi di queste visite, il bambino ha cominciato a reagire, a muoversi, lui che era dichiarato inerte e senza vita ha cominciato a sorridere.
Allora c’è un più che viene dalla carità di Gesù, e di questo “più” noi siamo responsabili.
Quando noi non ci impegniamo per questo “più” che viene dalla carità di Gesù le nostre lotte sono sterili, le nostre parole sono ipocrite.
Dobbiamo pensare con forza a questo e oggi vogliamo pregare per questo.
(1 RE 11, 4-13 MC 7, 24-30)
La Messa di questa sera è nell’intenzione questo che abbiamo voluto come un momento di preghiera nel pensiero affettuoso, e non soltanto affettuoso ma anche riconoscente, per Gastone che ha consumato fra di noi la sua fedeltà al Signore fine alla fine.
Ecco la fedeltà al Signore.
Abbiamo visto così, quasi drammaticamente come in una vita anche particolarmente arricchita dai doni del Signore vi può essere il dramma dell’infedeltà; una infedeltà che può essere collettiva, di popolo, ma può essere tante volte anche personale individuale.
Salomone era stato colui che, lo abbiamo ricordato qualche giorno fa proprio nella lettura liturgica, era stato lodato dal Signore perché nel momento in cui aveva ricevuto l’incarico di essere re, aveva pregato per avere la sapienza come primo di tutti: i beni e poi, alla fine della vita, si trova proprio a perdere, a sciupare questa saggezza, e non è neanche per il fatto etico, il fatto morale della sua degradazione nell’andar dietro a delle creature, questo suo diventar debole di fronte al fascino delle donne, quanto piuttosto, l’aver volto, come dice la parola di Dio, lo sguardo verso dei stranieri, l’esserne stato attirato, e il suo cuore non restò più tutto con il Signore.
Questo è il punto sul quale la parola di Dio ci chiede di essere attenti perché ciascuno di noi è detto, sta scritto: amerai il Signore Dio tuo, Lui solo servirai. E questo amore per il Signore Dio di ciascuno di noi, Dio tuo, è detto, deve essere con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze.
Per questo dobbiamo sentire una grandissima riconoscenza per nostri fratelli che sono fedeli fino al punto estremo che è quello della nostra morte.
Per questo dobbiamo sentire con loro una profonda comunione perché nella realtà della comunione dei santi, a cui così poco pensiamo, ci aiutino con la loro preghiera perché possiamo, nella fedeltà, condurre tutto il nostro cammino.
Per questo la Chiesa ci ricorda che dobbiamo essere sempre nella vigilanza e nella trepidazione perché non c’è vita così ricca di doni di Dio e così santa per le opere che le vengono affidate e per il ministero che viene affidato dalla provvidenza, non c’è vita così ricca che non possa decadere nell’idolatria, in questo che la Bibbia chiama adulterio: lasciare che il Signore che vuol essere amato come uno sposo per un altro sposo, che si chiamerà idolo, che si chiamerà potere, che si chiamerà con qualsiasi nome della povertà umana. Dopo mi sembra anche tanto importante che questa fede che Gesù ci porta, questa fede del Dio unico, questo essere persone che veramente hanno un solo Dio nella loro vita, che hanno un solo ideale e perciò hanno una interezza di vita questo essere figli. Figli: bisognerebbe mettersi con molta attenzione, cercare di penetrate in questa parola che Gesù ci dice anche nel Vangelo di questa sera: Lui viene perché noi siamo suoi figli. Allora se sono figlio di questo padre non posso avere altri padri, se sono figlio di questo Dio non posso avere altri dei, se sono figlio di questa realtà non posso averne altre. È questa interezza, questo punto di unità, che Gesù domanda a quelli che sono con Lui figli del Padre.
E quando la mentalità dei suoi contemporanei si indurisce nei suoi confronti, forse per il troppo attaccamento alle cose che non riescono a lasciare, Gesù va oltre i confini della terra prediletta, di quelli che per primi sono stati chiamati figli; Gesù va oltre per dire a tutto il mondo che Lui veramente è venuto perché tutti siano figli.
Allora. Nell’incontro di Gesù con questa donna pagana che chiede a Lui di porre il suo sguardo sulla sua figlioletta ammalata, a quel punto, stasera, guardiamo anche il nostro rapporto con Gesù, con il Vangelo, proprio per domandarci come viviamo queste realtà di essere figli di Dio fino in fondo, anche nelle situazioni che a volte si presentano oscure alla nostra esistenza.
Se questa adesione al Vangelo non diventa soltanto cultuale, soltanto di principi e poi non venga dissolta dal costume. Pensavo ieri nel silenzio, vi assicuro nel silenzio perché non ci si può fare maestri di nessuno, specialmente quando si vivono circostanze difficili, pensavo ieri, mentre andavamo in pellegrinaggio dal Papa, quando ascoltavo sul pullman i discorsi che si facevano, discorsi dettati anche dal buon senso, forse, ma con cui di fronte al dilagare delle cose ingiuste, della delinquenza, del terrorismo si invocavano certe misure, certi atteggiamenti, certe repressioni che forse non hanno molto e che vedere con lo spirito del Vangelo.
Eppure andavamo a visitare un martire dell’odio che al martirio ha risposto con il perdono di Gesù.
Mi veniva fatto di pensare: ma guarda, forse non riusciamo neanche a leggere questa lezione che Dio ci dà dei fatti della storia. Un Papa che è fatto oggetto di violenza perdona e continua la sua vita di donazione all’umanità; noi invece ci chiudiamo istintivamente e magari invochiamo forme di repressione. Come siamo lontani allora, dall’essere pienamente figli, fino in fondo figli di Dio.
Allora c’è una domanda per noi; come viviamo questa realtà?
E forse c’è ancora una domanda per il nostro rapporto con tutti quelli che possono essere intravisti attraverso questa donna siro-fenicia, ed è tutta l’umanità che magari non appartiene al popolo della predilezione, che non appartiene alla Chiesa, che non vi entra, che rifiuta e che pure ha un bisogno grande della salvezza e della guarigione che può venire da Gesù.
Questa umanità. Penso alla giovane donna che ieri è entrata nello studio così, quasi di prepotenza; aveva uno di questi apparecchi per sentire la radio in cuffia anche camminando per strada: medico, usciva dall’ospedale, cinque-sei mesi di matrimonio, separata; mi diceva: porto la cuffia per non sentire la-voce degli uomini.
Lì certamente c’è un urlo che sale dall’umanità, che aspetta la visita di. Gesù. Questa visita dovrebbe essere nella Chiesa. Gesù poi dirà ai discepoli: andate, imponete le mani e guarite, visitate, in mode che se toccheranno qualche cosa di mortale non farà loro male: questi saranno i segni del mio passaggio.
Allora stasera siamo chiamati, come sempre dal Vangelo ai due ritmi: quello personale e quello missionario.
Chiediamo a Gastone che anche negli ultimi momenti della sua esistenza, quando il male lo dissolveva, lo consumava, è stato l’uomo dell’umanità in tutte le piccole e silenziose manifestazioni del suo sapersi donare: chiediamogli proprio anche per noi questa adesione al Vangelo.
VI DOMENICA T.O. – Anno B
(Lv 13,1-2.45-46; Sal.146; 1Cor 10,31-11,1; Mc 1,40-45)
Ecco, io spero che voi ricordate qualcosa della riflessione di domenica scorsa e anche di quella procedente: è tutto il I Cap. del Vangelo di Marco che oggi concludiamo con la lettura e la meditazione.
C’è questo vocabolo ripetuto incessantemente: che “tutti cercano Gesù”; c’è questo rapporto tra Gesù e “tutti” il che vuol dire l’umanità e non è soltanto l’umanità credente.
Gesù già ha lasciato la riva del lago di Cafarnao e se ne andato nella Galilea; la Galilea che veniva chiamata la Galilea delle genti perché c’era come l’incontro con popolazioni che non appartenevano proprio al popolo ebreo e che portavano anche, in un certo senso. secondo la mentalità di allora, una impurità, venivano da riti, da religioni diversi da quelli degli ebrei e allora la Galilea veniva considerata come luogo non tanto raccomandabile per la purezza della fede.
Gesù va lì a portare il suo annuncio il suo messaggio. Vediamo come in questo brano del Vangelo di Marco c’è come intenzionalmente nell’evangelista proprio il desiderio di raccontare il fatto però anche genericamente come per dire che Gesù è venuto per questo lebbroso ma anche per tutti i lebbrosi, per questo peccatore ma anche per tutti i peccatori; dice: un lebbroso, potrebbe dire Giovanni; dice: un peccatore, potrebbe dire Francesco: uno qualsiasi presente tra di noi stamattina. Questo mi sembra molto importante.
Allora guardiamo alcune cose che dobbiamo prendere responsabilmente nella meditazione della pagina del Vangelo. Prima di tutto entriamo in questi punti che sono detti proprio dall’evangelista con molta forza, perché all’evangelista non sta tanto a cuore raccontare il prodigio, ma quello che il prodigio significa, sia in Gesù, sia in colui che ne riceve il beneficio.
Allora vediamo: “Se Tu vuoi”. Se Tu vuoi.
Leggevo qualche brano di commento dei Padri della Chiesa ieri sera e tutti erano concordi nel dire veramente come c’è in questo atto di fede il riconoscimento della divinità di Gesù. Cioè non è come per gli apostoli che poi dovranno dire “Nel nome di Gesù io ti dico alzati e cammina”. A Gesù non viene detto: tu prega Dio, come si fa per un santo, tu prega Dio, intercedi per me. No. “Se Tu vuoi”. Dunque la vita, come dicevamo domenica scorsa è nella persona di Gesù.
Poi dopo c’è una grande certezza: la certezza del sentimento di solidarietà, quello che la teologia chiama la Koinonia, cioè questo infinito abbassamento di Cristo che si fa solidale con gli uomini, così come gli uomini sono, anche con tutte le pusto1e della lebbra: questa certezza che viene dal fatto che Gesù è mosso a compassione. Adesso è importante cogliere questa cosa; dopo alla meditazione personale, all’attenzione al Vangelo ognuno di noi deve avere anche durante il tempo feriale della nostra vita, approfondire bene questa compassione di Gesù: la troverete molte volte; in occasione della prima moltiplicazione dei pani, in occasiono della seconda moltiplicazione dei pani, di fronte al figlio della vedova li Naim, di fronte alla tomba di Lazzaro: Gesù è mosso a compassione fino alle lacrime. La compassione, cioè patire con l’uomo.
E questo essere con l’uomo nella solidarietà è proprio il frutto più grande di quell’amore di Dio che si incarna, proprio nell’incarnazione, nel diventare uomo come noi. Questa è la certezza del Vangelo: Gesù mi capisce. Gesù mi capisce.
Quando sono nel peccato Gesù non si scandalizza di me; quando sono nella lebbra Gesù non inorridisce; Gesù non si ferma al dettato del Levitico che abbiamo sentito nella prima lettura che dice: il lebbroso resti fuori della città, fuori della città santa Gerusalemme, fuori dalla città cinta di mura, perché il lebbroso non deve stare dentro.
E così si realizzava, per un principio di igiene certamente, si realizzava un principio di emarginazione e man mano che la lebbra diventava la figura del peccato, della lebbra del’anima, si ammetteva il principio dell’emarginazione di tutti quelli che sono nell’immoralità, nella scostumatezza e nella peccaminosità di una vita non rispondente ai canoni della fede. Sicché, cominciando alla lebbra fisica si arrivava ad emarginare anche quelli che erano toccati da qualche male morale.
La certezza che Gesù capisce.
Poi una gioia: la certezza che questa compassione di Gesù diventa intervento sulla nostra povertà: “lo voglio sii mondato”.
E che sia potente questa parola il Vangelo ce lo dice con tutto il racconto, vorrei lire la litania, quasi, dei prodigi che non sono tanto raccontati per farci sbalordire come di fronte ai portenti operati da un taumaturgo spettacolare, da un grandissimo mago: Gesù é il più forte di tutti: non è questa mentalità quella del Vangelo, ma quella di farci capire che Gesù è la parola potente che ci libera dal male. E voi forse vi ricorderete che in alcune liturgie, per esempio il mercoledì santo e anche durante la celebrazione della liturgia solenne dell’esposizione dell’eucarestia l’abbiamo ricordata questa lunga litania della potenza della parola di Gesù che ci vuole liberare, che libera l’uomo dal male.
Una. conseguenza? La conseguenza è che quest’uomo liberato comincia a divulgare. Ecco: che cosa divulga? La esperienza della liberazione ricevuta dall’amore di Dio. Che cosa proclama? Il vangelo della propria liberazione. Non proclama una teoria astratta, proclama quello che ha sperimentato, quello che ha provato, quello che ha vissuto. Queste cose sono molto chiare nel brano del piccolo brano del Vangelo che potrebbe scorrere quasi inavvertitamente nelle nostre orecchie perché può sembrare un miracoletto. Invece è pieno di questo annuncio, un atto di fede: “Se Tu vuoi, puoi”. Una certezza: Gesù è mosso a compassione. Una gioia: Lo voglio, sii mondato. Una conseguenza: comincio a proclamare.
Allora io vorrei proporvi due applicazioni.
Una di ordine personale. Ho letto una bellissima invocazione di un Padre della Chiesa armena vissuto intorno al 1000. Lui diceva anche a me, come al lebbroso, rivolgi la parola, come a colui che con fede si accostava: Lo voglio, sii mondato integralmente e sii puro dalle brutture del maligno. Forse questa preghiera deve entrare nella nostra liturgia di questa domenica e deve restare come una gioiosa coscienza che nei possiamo andare sempre da Gesù e portargli tutte le piccole o grandi lebbre della nostra esistenza perché Lui ci guarisca e ci metta in condizioni di ritornare nel rapporto con Dio e nel rapporto con i fratelli e nella pace con noi.
Il lebbroso, l’indemoniato è considerato un impuro, uno che non può parlare con Dio, uno che non può avere rapporti con i fratelli, uno che non è in pace con se stesso. Gesù lo riveste di dignità. Gesù gli ridà la libertà. Gesù gli ridà la santità: puoi parlare con Dio; annuncia la Sua parola.
Veramente Gesù fa questo con noi e dovremmo imparare a portare con gioia la nostra condizione di peccatori bisognosi della sua misericordia. Dovremmo imparare a portare con gioia la nostra condizione di persone sempre bisognose di perdono.
Veramente non ci dovremmo confessare nell’oscurità dei confessionali non dovremmo. cercare la penombra dietro .. .. .. Dovremmo confessarci nel mezzo delle piazze per dire che siamo nella gioia di essere perdonati da Gesù.
E in questo senso ringraziamo il Signore che la Chiesa ci dà questo strumento nuovo, questa possibilità nuova della liturgia comunitaria della penitenza perché veramente è molto più gioioso, molto più luminoso, molto più bello. Portiamo senza vergogna ma con riconoscenza e con gioia la condizione di peccatori che però sanno che hanno trovato il medico per le proprie anime.
Non sono i giusti, non son i sani che hanno bisogno del medico, ma i peccatori, i malati.
Questo per la riflessione personale.
Poi dopo un’applicazione par la dimensione sociale e mi sembra molto importante: per dimensione sociale intendo la nostra, anche quella parrocchiale, quella della comunità.
Vedete il modo con cui Gesù accoglie e tratta le persone deve sempre più diventare il modo con cui la Chiesa accoglie e tratta le persone.
Questo ce l’ha detto anche il Papa con tanta forza quando nella sua prima Enciclica ha. detto che l’uomo è la via della Chiesa.
E adesso io vi dico una cosa che forse potrà costarci un po’ d’attenzione, ma che però è molto importante. Quando vediamo Gesù, nel Vangelo, come accoglie le persone noi ci accorgiamo di una cosa: Gesù non mette da una parte la dottrina, l’insegnamento, il catechismo e da un’altra parte il modo li trattare la gente. Il modo di trattare la gente è catechismo, cioè l’uomo stando accanto Gesù impara come Dio è, come Dio vive dal modo come Gesù tratta le persone.
Non tanto dall’ insegnamento.
Dopo l’insegnamento spiega quel modo, ma il Vangelo vero è il modo con cui Gesù tratta le persone.
Allora il Papa ci dice che l’uomo è la via della Chiesa; il molo è il Vangelo.
Perciò prima della catechesi, prima della Bibbia scritta, prima dei sacramenti, che pure sono santi .. .. .. viene, vorrei dire, la Bibbia vissuta, il sacramento diventato vita, viene quello che la Chiesa chiama l’evangelizzazione.
L’evangelizzazione non è tanto nell’insegnamento, non è tanto nei libri, l’evangelizzazione è nella fraternità, è nell’accoglienza, è nella vita di carità.
Sempre; vi ricordate nel Vangelo quando i discepoli hanno paura perché c’è la tempesta sul mare e quando Gesù interviene loro si domandano ma chi è costui al quale obbediscono anche i venti?
Cioè la possibilità di annunciare il Vangelo comincia sempre quando l’altro, sentendosi amato gratuitamente arriva al punto di dire: ma scusa, che cosa c’è in te che ti spinge in questa maniera che te lo fa fare?
E poi verrà la risposta. E questo è il modo in cui Gesù agisce.
Tante volte noi siamo qui a lamentarci del fatto che non riusciamo a comunicare, che i bambini non imparano, che i giovani non seguono, che gli adulti non se ne importano, e ci viene come un momento di tristezza. Ma non è per il fatto che abbiamo messo la dottrina da una parte e magari la insegniamo tutta bella, schematica, magari messa in colonna, e la vita da un’altra parte?
Non è forse che siamo chiamati a guardare meglio al modo in cui Gesù vive, per portarlo nella nostra vita? Ecco, sono grossi interrogativi.
Certamente questo essere venuto di Gesù per l’umanità significa un bisogno per la comunità cristiana, una esigenza imperiosa di andare a tutta l’umanità a portare questo amore che poi determini una domanda.
Noi cominciamo a vivere questa realtà del Sinodo per domandarci: ma sul nostro territorio, queste 100.000 persone che abitano a Chiaia e a Posillipo, ma che rapporto hanno con Gesù e con la Chiesa?
E forse in questa indagine, in questo guardarci intorno ci accorgeremo di tanti vuoti, di tante lacune, di tante negligenze, di tante non conoscenze, di tanti rifiuti, e allora verrà certamente per la Chiesa – bisogna che venga, magari anche stamattina, come conseguenza della meditazione sulla pagina del Vangelo una tale adesione a Gesù, a Dio, alla sua vita, da permettere di andare in mezzo ai potenti, in mezzo all’umanità come persone che diventano come degli interrogativi.
Perone che provocano dèlle domande non delle domande di curiosità, ma delle domande di desiderio: se tu vuoi io vorrei essere mondato; perché non mi prendi con te.
E qui bisognerebbe anche dire, ma non è possibile ora più per il tempo, bisognerebbe anche dire che troppe volte la comunità cristiana h paura di quelli che vengono chiamati “lebbrosi”. E avvengono le chiusure: con quello lì non ce mando i miei bambini;, in quella non ci vado.
La paura ci prende, ma la paura forse dipende dal fatto che la nostra adesione a Gesù non à così piena per cui quando c’è la paura di non essere così pienamente di Gesù allora vengono i limiti, ci mettiamo a costruire i muri.
E i muri sono la conseguenza di questa paura. Se noi fossimo più pienamente di Gesù non avremmo paura di accogliere le persone. Non avremmo paura di perdere Gesù per il fatto che incontriamo un lebbroso.
Avremmo, invece, la gioia di dire al lebbroso: vieni. E anche di toccarlo, perché quell’impurità non può toccare chi è santo, santificato dall’eucarestia di Gesù.
Ma forse su queste cose dovremo ancora ritornare.
VII DOMENICA T.O. – Anno B
(Is 43,18-19.21-22.24-25; Sal.40; 2Cor 1,18-22; Mc 2,1-12)
In questo primo giorno dell’anno la Chiesa, secondo un’antichissima tradizione, ci fa vivere il ricordo di Maria.
C’è come un collegamento tra Natale e la fedeltà. di Maria, un collegamento non soltanto fisico, di ordine fisiologico nel senso che Maria è la. Madre di Gesù, ma proprio nella fede della Chiesa il compito Maria assume una dimensione talmente grande nel senso che se Maria è la Madre di Dio qui a Betlemme, allora, e la Chiesa sempre lo ha saputo e sempre lo ha asserito, Maria è la madre di Dio in ciascuno di noi.
Questo mette ogni credente in un rapporto tanto forte con Maria proprio come da figlio a madre e difatti chiamandola madre di Dio noi la chiamiamo anche madre della Chiesa come il Concilio ha solennemente espresso in questi ultimi tempi e come la Chiesa ha sempre creduto: Maria è la madre della Chiesa.
Allora la Chiesa oggi, nella liturgia, ci vuole dire: voi avete festeggiato il Natale, ricordatevi che la nascita di Gesù in voi è possibile se Maria è madre.
Poi il rapporto della maternità non si deve insegnare; se une riconosce una donna per propria madre dopo sa quale sarà il modo per esprimerle il proprio affetto.
Ci sarà chi lo dirà con molte parole, chi con poche parole; chi lo farà con molti gesti, chi con pochi gesti. L’importante è riconoscerla e riconoscerla significa essere profondamente convinti, cioè avere la fede e credere che Gesù nasce e cresce e viene in me nella misura in cui io sono figlio di Maria.
Poi questo mio rapporto con lei si può manifestare in molti modi: nella devozione, nella preghiera, nel rosario, nell’adorazione silenziosa; questo appartiene alla ricchezza dell’espressione dello Spirito Santo nella Chiesa.
Vorrei dirvi un’altra cosa; la Chiesa, il papa, da alcuni anni desidera che in questo primo giorno dell’anno sia vissuto nella preghiera con l’intenzione della pace. È tanto importante che noi ricordiamo nella preghiera di oggi questa supplica per la pace.
Il Papa lo ha manifestato in un messaggio a tutta l’umanità, a tutti i Capi di Stato, ma anche a tutti i popoli, quindi anche noi.
Il messaggio di quest’anno ha come un titolo: la pace è un dono di Dio la cui responsabilità è nelle nostre mani.
Da una parte sentiamo tutta la responsabilità di pregare per la pace perché se è un dono di Dio,non possiamo aspettarcela da altre parti se non da Dio, come dono suo. Dono vuol dire che gli uomini devono accoglierla, con umiltà, come una realtà sacra, come un bene che viene, dal cielo e quindi non può essere sottovalutata. Da un’altra parte la parola del Papa ci dice che la pace è nelle nostre mani, è affidata alla responsabilità delle nostre mani; quindi vien fuori tutta la lucidità, l’intelligenza dei cristiani i quali sanno che se la pace è nelle nostre mani bisogna impegnarsi per continuare a costruirla non soltanto come qualcosa che riguarda i grandi, i potenti della terra, i capi dei governi e degli eserciti, ma come un qualcosa che Gesù ci ha affidato, come un impegno di vita per tutti: beati gli operatori della pace.
Forse proprio perché noi viviamo un periodo di tante ingiustizie, di tante disarmonie, di tante disunità, di tante cose che non funzionano non solo ai grandi livelli (perché abbiamo avuto paura, l’abbiamo avuto così forte nel mese di dicembre per una guerra imminente); dopo anche ai piccoli livelli: nella città, nel lavoro, nelle scuole, nelle famiglie; tante cose mettono in tensione, tante cose ci fanno dire: ecco, così non si va più avanti.
E sempre più frequente ci viene la tentazione di dire: ci vuole uno che metta le cose a posto; ci vuole uno forte.
La tentazione della risoluzione sbrigativa.
Gesù però ci dice: beati gli operatori della pace.
Certamente la pace che Gesù porta non è la pace delle carceri, la pace dei cimiteri di guerra; non è la pace del più forte che fa piegare il debole: è la pace che è nella dignità di figli di Dio e significa fatica di spiegazioni, di comprensione, di accordi; significa costruzione. Gesù dice: beati coloro che costruiscono la pace.
Allora ci deve essere il contributo di fare delle nostre piccole esperienze familiari, professionali, sociali delle esperienze di pace.
Questo oggi vogliamo chiedere a Gesù nella messa del primo dell’anno.