I DOMENICA DI AVVENTO – Anno A
(Is 2,1-5 ; Sal.121 ; Rm 13,11-14; Mt 24,37-44)
La liturgia del tempo di Avvento si apre alla luce della condizione di precarietà delle creature, povere di certezze, così come è povera la capacità umana di prevedere i cataclismi, che giungono all’improvviso, non previsti, mentre si vivono i gesti ordinari della quotidianità. L’Evangelista si serve di immagini del linguaggio “apocalittico” – relative ad un genere letterario dell’epoca – per dire ai discepoli che devono porsi in atteggiamento costante di disponibilità e di discernimento verso il continuo venire del Signore nella vita personale e sociale.
Secondo l’annuncio delle Scritture, Gesù, è nato a Betlemme, è risorto dalla morte e rimane tra noi come “Colui che viene”, perché è il “testimone fedele” di Dio – così come ci dice il libro dell’Apocalisse di Giovanni. In ogni momento della vita Dio è per noi “Padre per sempre”(Is.9,5). Perciò i Padri della Chiesa e i primi commentatori hanno parlato di tre venute: la prima a Betlemme, l’ultima nel giorno finale, ma anche quella intermedia, nel tempo di ogni giorno, venuta che occorre discernere ed accogliere nella vigilanza.
Nel Vangelo di oggi, Matteo usa due verbi, che sottolineano questo insegnamento. Uno è negativo ed è la constatazione che gli uomini, mentre vivono nella ordinarietà quotidiana, non si accorgono della venuta del Signore. L’altro è un verbo all’imperativo: “vigilate” o “vegliate”! E’ un invito a riflettere sul nostro rapporto con il tempo, con le domande che esso ci pone, con le urgenze che ci costringe ad affrontare, con le oscurità che ci chiede di comprendere. Nel presente di oggi, a Napoli, è un invito a non compiacerci dei pastori, opera di un’arte antica, a non rimandare al futuro il nostro impegno, ma ad accogliere in questo Natale il Signore che viene, anche se accompagnato dalla violenza dei colpi di pistola.
Nella Scrittura, fin dal primo libro, l’uomo è concepito come artefice della propria storia, non come un semplice strumento nelle mani di un destino impersonale. I racconti della creazione sono totalmente altri dalle concezioni fatalistiche di tanto pensiero antico e più recente. Il tempo, non è dispotico, non è un cerchio chiuso, che racchiude in se stesso il suo significato, ma un cammino in avanti, che è sempre frutto di un incontro tra la Provvidenza rispettosa della libertà e l’accoglienza dell’uomo. Egli è il costruttore della società, deve costantemente inventare la vita. La storia della salvezza consiste proprio in questo incontro tra Dio e l’uomo. La verità che salva non è una dottrina, un’idea, ma un cammino di persone e di fatti che costruiscono il futuro, un futuro da intuire, da comprendere, da creare continuamente nella vigilanza, nell’accoglienza di Dio.
“Non si accorsero di nulla”. Il segno, presente nelle problematiche del nostro oggi, deve essere compreso e letto come rimando ad una realtà che lo sovrasta, che è oltre le apparenze dei fatti. Ma si tratta di una lettura che non può essere imposta da altri. Sono io, nell’autonomia della mia coscienza, che devo leggere gli eventi che bussano alla mia porta. Così è per tutti i segni, per il segno del quarto di pane spezzato, posto qui, dinnanzi all’altare, accompagnato dalla parola “Attenzione”. Nelle quattro domeniche dell’Avvento si ricostituirà l’intera pagnotta.
Il “non accorgersi di nulla” non appartiene solo al tempo di Noè, ma è di tutti i tempi, anche del nostro, oggi. Il Vangelo ci dice che il non comprendere i segni è delle persone appagate di come vanno le cose. Esse vorrebbero il prolungarsi dell’oggi, sono persone inerti, desiderose di staticità. Anche se il presente è positivo, che accadrà poi? Renderlo eterno, stabile, è impossibile. Le persone “sazie” non costruiscono la storia e il futuro, sono paralizzate dalla idolatria del benessere acquisito nel presente. Quella della sazietà è una beatitudine da respingere! Essa può anche provocare il suo opposto, il rifiuto totale, la ribellione, l’atteggiamento negativo di chi pensa che non sia possibile cambiare nulla e cade in preda della disperazione. Sia la sazietà che il nichilismo generano paralisi nei singoli e nella società. Il Vangelo, invece, ci dice di leggere il presente alla luce del passato, per cogliere i segni del futuro che avanza.
Il credente sa che il presente va male, ma che può andare meglio, non solo grazie alle conquiste della scienza e della tecnica, ma perché sa che il Signore viene. Questa fede lo guida a discernere nella realtà cosa può fare. Il credente non è l’uomo che si lamenta perché il mondo è ammalato, ma propone con cordialità e pazienza il progetto, che l’umanità custodisce in se stessa e che il Signore ci spinge a realizzare con il linguaggio dei segni. E’ stato un segno l’incontro tenutosi mercoledì scorso su Dietrich Bonhoeffer, il pastore tedesco, ucciso dai nazisti in un campo di concentramento durante la seconda guerra mondiale. Lo ha esposto un pastore protestante tedesco, è stato presentato da Alberta Temin – una signora ebrea che ha perso i suoi familiari durante le persecuzioni razziali – nei locali di una chiesa cattolica. Questo incontro è stato possibile perché il Dio che viene per fare nuove tutte le cose è fonte di speranza per gli uomini.
Perciò Paolo, nella seconda lettura, sembra dirci: voi siete tutti capaci di sottrarvi alla idolatria del quotidiano, che impedisce di vedere al di là delle azioni abituali, di “essere altrimenti”, di “andare oltre”, di credere all’indicibile di Dio, di sentire quello che non è narrabile. Una vita troppo schiava del fare, diventa prigioniera degli obblighi, meno disponibile alle possibilità.
L’indicibile di Dio è detto con le parole sognanti di Isaia. Tutti i popoli vanno al monte del Signore, come una famiglia unita. Gli strumenti di guerra nelle loro mani sono diventati strumenti di pace. Isaia conclude il suo sogno, tutto al futuro con un imperativo presente: “Vieni!”.
E’ l’invito a rivedere il nostro rapporto con il tempo, quello personale e quello sociale, con tutta la nostra storia. Il Natale, infatti, è l’incontro fra due tensioni di amore che si cercano tra cielo e terra, tra Dio e l’uomo. “Lo Spirito e la sposa dicono “Vieni!”. E chi ascolta ripeta:”Vieni!””. Nell’incontro fra questi due: ”Vieni!” è il Natale.
Chiediamo al Signore la grazia di poterlo sperimentare e testimoniare!
Si direbbe che non sia casuale la contiguità tra il brano di Luca, che abbiamo ascoltato domenica scorsa, e quello di Matteo nella liturgia di questa celebrazione, la prima del nuovo anno liturgico.
In effetti, l’intenzione della liturgia è quella di proporre ai credenti la visione di ogni aspetto della propria esistenza alla luce dell’evento fondamentale, che è l’incontro con il Signore. Ai discepoli, ansiosi di conoscere tempo e momento della venuta del Signore, il vangelo risponde che il punto sta nel fatto che ognuno sia pronto per quel momento. L’ineluttabilità e l’imprevedibilità della venuta finale di Cristo fa insistere Matteo sul tema del discernimento. L‘essenziale non sta nel “quando accadrà?”, ma nel “come mi preparo?”. E’ una domanda importante per ciascuno di noi, che va posta davanti a Dio, nell’attenzione alla concretezza del nostro tempo.
I giorni di Noè ci interpellano, individualmente e socialmente. Sono i miei giorni, quando li lascio scorrere aggrappato soltanto all’elenco delle cose da fare, dei bisogni da appagare, senza più sognare oltre questo cerchio ristretto; quando mi accontento della superficie delle cose e non mi accorgo più che quello che la mia vita interiore esige, il mio segreto, è oltre di essa. Quando non guardo in alto, non attendo “Qualcuno” che mi dica qualcosa, quando non mi accorgo che “Qualcuno” c’è.
Sono i nostri giorni, quando con consuetudine rassegnata, ci appaghiamo di consumismo, omologandoci a quello che ci viene proposto e imposto dalla mediaticità e dai cosiddetti doveri sociali, e non ci accorgiamo più di sciupare la vocazione alla libertà, e accantoniamo la nostra vocazione a vedere la nostra vita davanti a Dio e alle persone come un mistero che domanda silenzio, ascolto, venerazione.
L’Avvento, per un credente, è un tempo di adorazione, perchè il soggetto di esso è il Verbo di Dio, il Figlio eterno, che sta operando la cosa nuova di venire. Ed è un tempo per dare libertà alla vita e respiro profondo e sguardo ampio. Non privandosi di quello che è buono e bello, ma vivendo il buono e il bello nella felicità interiore della sobrietà, liberi dalle norme imperiose della persuasione pubblicitaria, mantenendo aperta la capacità di discernere il vero dal falso, a livello personale, familiare, sociale, con l’esercizio critico e con le scelte concrete, come cristiani maturi. Le feste della tradizione sono inutili se non sono impregnate della verità dell’Avvento come venuta del Signore.
“Allora due uomini saranno nel campo: uno sarà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola. Una verrà portata via e l’altra lasciata. Vegliate dunque, perchè non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà”
Non si tratta di minacce. Si tratta piuttosto dell’altissima dignità dell’uomo, unico e irripetibile nella sua coscienza e nella sua libertà, persino nel rapporto con Dio che gli ha dato la vita e attende che si rispecchi nella sua luce, che è giudizio di verità. Nella vita uno può domandarsi di comportarsi da adulto, un altro può restare in atteggiamento infantile; uno può essere aperto all’oltre, un altro restare prigioniero della piccola gabbia dorata della propria esistenza; uno, nell’accettazione del limite, disponibile a Dio con umiltà, un altro no. Così, dice Gesù, uno solo è pronto. L’altro è di quelli che “non si accorsero di nulla”.
L’Avvento è un tempo di preghiera, di riconoscenza e di vigilanza per accogliere i segni del Signore già presente nella storia, ma anche di coscienza che quanto è iniziato non è ancora pienamente compiuto, deve crescere, maturare, realizzarsi.
Così le luci sono di consolazione, ma anche di richiamo al perdono di Dio che deve trasformare il buio in giorno. Chi crede deve lavorare perchè, come dice il profeta Isaia, le armi si trasformino in strumenti di lavoro. Invece oggi si stanziano ancora altri miliardi in armi. Chi vuole accogliere Dio e donarlo deve entrare in situazione profonda e serena di sobrietà – non quella brontolona, resa obbligatoria dall’inflazione, dal crescere dei prezzi. Una sobrietà che ci spinga a rinunciare all’affermazione di noi stessi, al volerci porre sempre al centro, al “rendere pan per focaccia”, che ci insegni – andando contro corrente – a privilegiare il bene comune al proprio.
E’ l’intero modo di concepire la vita che cambia. Ci dirà Gesù con Matteo nel discorso del monte: “Avete udito … ma io vi dico…”. Essere convinti che l’invisibile è più grande del visibile, e che – come diceva Pascal – un solo uomo vale più di tutto l’universo visibile. Questo richiede di superare l’illusione del visibile e farsi sensibili, attenti, delicati nei confronti dell’invisibile di ogni fratello.
Questa è la sobrietà, austera nella verginità di Maria, feconda nella sua maternità, felice nel suo Magnificat!
“A te, Signore,innalzo l’anima mia:
mio Dio, in te confido, che io non resti deluso”
(Salmo 25, 1-2)
Sono le parole con cui ha avuto inizio la messa della prima domenica di Avvento.
Torna ad emozionarci, nel ricominciare ogni anno il cammino della Liturgia, questo primo anelito a Dio della Chiesa che prega. Essa sa di poter guardare con fiducia il suo Signore, direttamente, occhi negli occhi, cercando il suo sguardo paterno, il suo cuore di Sposo. Perciò questa preghiera ci colpisce profondamente: ci svela con chiarezza per chi la Chiesa vive, non per sé stessa, non per qualche ideale umano. La sua attesa guarda oltre, verso Colui che ama e cerca. La Chiesa vede la venuta del Figlio di Dio, il Verbo, alla luce della sua glorificazione: ama il tempo di Avvento, lo propone ogni anno e lo celebra non come una rievocazione, ma come un evento che si prolunga. E’ la venuta dello Sposo che si distende nel tempo per prendere la Sposa e condurla con sé nella gioia. Il Verbo ha tanto amato l’uomo da farsi piccolo embrione nel seno della vergine Maria. L’intenzione della liturgia è di proporre e far sperimentare ad ogni credente la chiamata e vivere l’attesa e la gioia: attesa di qualcosa che è già presente come inizio affascinante e che proietta verso qualcosa di più grande. Possediamo qualcosa – ci dice – e attendiamo qualcosa. Non potremmo dire: “Il Signore è qui” senza la certezza del suo essere già venuto e senza la speranza del suo continuare a venire ancora. L’Avvento con il suo messaggio di attesa e di speranza è prezioso per la fede: un invito forte a custodire ed alimentare la certezza personale e comunitaria del Signore che è fedele nel venire: “tutti i giorni fino alla fine del tempo” (Mt.28.20). Natale non è una ricorrenza, ma il mistero che continua oggi, in un’epoca di incertezza e di angoscia. E’ innanzitutto certezza dell’amore gratuito e personale di Dio che lo spinge all’umile rimpicciolirsi nella maternità di Maria e nei contorcimenti della storia: ed è una certezza da vivere insieme con fiducia per essere segno alternativo in una società in cui le aree della disperazione appaiono sempre più grandi e più grande l’incapacità di vincerla.
Il Signore viene non solo per suscitare il desiderio del futuro, ma anche per purificare, fortificare l’impegno e rendere più umana la vita sulla terra.
Testimoniare la speranza nel rapporto tra Chiesa e mondo, tra coloro che – per grazia – vivono per Dio e coloro che, nel mistero, non hanno ricevuto o non avvertono di avere questo dono “non esigito, ma gratuito”, è il compito e l’impegno dei cristiani, dice sant’Agostino. Egli pensa la Chiesa come il popolo ebreo deportato a Babilonia: ad esso Geremia, in nome di Dio, scrisse una lettera per invitarli ad amare e a lavorare in quella terra di prigionia, che offriva loro una nuova possibilità di testimonianza.
Perciò la “Gaudium et Spes” parla dell’ “aiuto” che la Chiesa riceve dal mondo contemporaneo: “La Chiesa di Gesù Cristo, nel suo cammino qui in terra, riceve dal mondo molte cose buone, e il benessere del mondo, il progresso, interessano anche la Chiesa di Gesù Cristo, interessano anche coloro che hanno questa grazia non esigita che è la grazia della fede” (n.44).
Non dimentica la Chiesa l’insegnamento dei grandi padri:
“Se bisogna definire zizzania solo quella che persevera sino alla fine nell’essere cattivo,
fuori dalla Chiesa – tuttavia – c’è molto frumento e all’interno della Chiesa c’è molta zizzania”
(Agostino, discorso 68)
Ai credenti è affidato il dono e il compito di diffondere la speranza: la fede, infatti, per sua natura stessa, è anche speranza. Questa non è cosa che nasca dalla capacità umana: “Solo in Dio riposa l’anima mia, da lui la mia salvezza”
(Sal.62,6).
Agostino lo dice con l’espressione latina: “noli sperare de te”, cioè, non sperare partendo da te, ma dal Dio tuo. Da Dio è la speranza: non sperare da te, ma spera da Dio!
“Ed ecco che la speranza, ci allatta, ci nutre, ci sostiene, e, in questa vita che ci affatica, ci consola. E’ proprio in questa speranza che cantiamo l’Alleluja. Ecco quanta gioia ha la speranza. La realtà stessa che cosa sarà? La speranza canta Alleluja, l’amore lo canta ora, l’amore lo canterà anche allora; ma ora lo canta l’amore che desidera; lì lo canterà l’amore che gode. Se amate così la rugiada, quanto amerete la sorgente stessa?”(Discorso 255,5)
E’ bellissimo l’accostamento tra speranza e rugiada. La speranza è una goccia di rugiada di felicità, un inizio fragilissimo e prezioso di felicità.
Nell’imminenza della prima guerra mondiale, lo scrittore francese Charles Péguy diceva:
“La fede è un soldato che difende una fortezza, la città del re…
La carità è un medico, una piccola suora dei poveri che cura i feriti, i poveri del re…
Ma la mia piccola speranza è quella che dice buongiorno al povero e all’orfano…
La fede è un grande albero, è una quercia radicata nel cuore.
E sotto le ali di quest’albero, la carità ripara tutte le desolazioni del mondo.
E la mia piccola speranza non è altro che quella promessa di gemma
che si annuncia all’inizio dell’aprile”.
(“Il mistero degli innocenti”)
Un tempo di Avvento “attento” e “pronto”, come il Vangelo domanda, all’impegno di essere “gocce di rugiada” nell’umanizzazione dei rapporti, senza ritenere che “la promessa di gemma” sia troppo piccola per avere significato. La mentalità efficientistica fa sottovalutare la gemma, che è invece promessa.
Domandiamo questa attenzione e questa prontezza, chiediamo di essere persone che si “accorgono” e dicono “buon giorno” al povero e all’orfano.
Ogni anno la liturgia ricomincia il suo cammino, con queste parole, con gioia e fiducia. “Incontro al Signore” come un bambino neonato che impara a riconoscere e a fare i primi sorrisi al papà e alla mamma che lo hanno donato alla vita.
“A te, mio Dio”. La Chiesa si riconosce nel Signore, non vive per se stessa, né per alcuna altra realtà. Il suo traguardo è Dio ed è un traguardo raggiungibile perché c’è la venuta storica del Figlio eterno che ogni anno contempliamo nel mistero del suo abbassamento nella povera natura umana. E quello che è detto della Chiesa è detto di tutta l’umanità e di ciascuna persona che, nelle situazioni più diverse, si sente guardata e chiamata a sé dal Signore che per ciascuno viene con il passo incessante di Chi ha in cuore la relazione con ciascuno. Il Signore non viene soltanto come redentore e salvatore, ma anche come sposo nei singoli cuori che lo attendono, come se ognuno fosse unico. Perciò l‘incontro vale per tutto il creato e per tutta l’umanità, ma non in senso generico. L’attesa e il desiderio riguarda l’intimo di ogni donna e di ogni uomo che sono aperti alla sua venuta. Attesa e desiderio che sono trepidazione, gioia, tenerezza. E mentre attende, la grande Chiesa e la piccola persona si sentono già visitate perché il Signore è già con noi e tra noi: Egli è “Colui che è, che era e che viene” (Ap.1,8).
Siamo invitati a vivere questo tempo liturgico, l’ “Avvento”, breve ma denso di contenuti, che propone alla fede e alla preghiera dei credenti la contemplazione del mistero dell’incarnazione, della venuta del Signore nella storia, già avvenuta e che sempre avviene fino al suo compimento pieno. L’Avvento ricorda, prima di tutto, la verità storica di Dio in Gesù di Nazaret, come il vangelo di Matteo ricorderà con continui riferimenti, e la conseguenza di tale verità nella promozione e nel rispetto della dignità dell’uomo, la sua fatica per la liberazione da quello che non corrisponde ad essa. Un tempo, quello d’Avvento, che aiuta ad orientare la vita nella direzione delle verità ultime che Dio promette all’uomo, chiamandolo a vivere alla luce del suo “giorno” e che Gesù mostra con sicurezza con il proprio insegnamento, con la propria morte per amore e con la propria resurrezione. Guardando all’incarnazione, la Chiesa fa memoria e celebra riconoscente i giorni trasmessi dalle tradizioni antiche, gioisce per il suo essere presente già ora nell’umanità, anche se non ancora nella maniera piena che la sua Parola assicura. E’ perciò un tempo opportuno per ravvivare la fede certa nella promessa di Dio che desidera essere conosciuto, amato ed annunciato come “Dio della speranza”; un tempo per testimoniarlo con la concretezza della propria esistenza agli “sfiduciati e smarriti di cuore”, come ci chiederà il profeta Isaia, come ogni anno voce dall’alto di questa verità che celebriamo, Egli invita a discernere i passi del Signore che viene nella storia dell’uomo di oggi, ad accoglierli come segni positivi. Ad ognuno viene ripetuto: “Non smarrirti, perché io sono il tuo Dio” (Is.41,10).
Come al tempo di Isaia la memoria del Signore “che viene” è affidata alla povera forza dei credenti, alla loro fragilità. La forza interiore della fede e la decisione di restare perseveranti nella speranza, non tanto nella precarietà che resta, ma nella certezza della presenza di Dio, sono l’antidoto di cui tutti abbiamo bisogno nel decadimento sociale, morale, civile e politico che ci avvolge e ci ruba l’identità più profonda di popolo cristiano, di gente che ha il senso di essere insieme per una città da costruire come Dio desidera.
La speranza non abita nei cuori appesantiti dallo scetticismo, non brilla sui volti delusi e duri. Sono per noi le antiche parole di Agostino, per noi che, stanchi del mondo e dell’umanità, come gli apostoli chiediamo: “quando?”: “Quando verrà il regno dei tuoi, quando il tempo degli umili, fino a quando l’arroganza dei superbi?”. A chi si macera in queste domande Agostino risponde; “fate bene a credere che Cristo verrà, perché questa è la verità. Ma che ti importa quando verrà? Tu preparati per quando verrà. Vivi come se dovesse venire oggi e non avrai timore quando verrà” (Disc.265,3)
Avvento, tempo per attendere Qualcosa e Qualcuno che manca al nostro intimo.
Tempo per desiderare di donare il Dio che viene ai cuori vuoti di speranza.
Tempo per accogliere la sua parola; “Sì, vengo presto!”.
Tempo per pronunciare la nostra: “Vieni, Signore Gesù! Amen!” (Ap.21).