III DOMENICA DI AVVENTO – Anno A
(Is 35,1-6.8.10 ; Sal.145 ; Gc 5,7-10; Mt 11,2-11)
La liturgia di domenica scorsa, nel terzo capitolo di Matteo, ci ha fatto già incontrare Giovanni, la sua scelta di vita, austera per essere meglio concentrata sull’essenziale, il suo distacco da ogni interesse personale, per essere libero di indicare Cristo, la sua predicazione franca ed esigente, che gli causerà persecuzione, carcere e martirio.
Oggi lo ritroviamo, si direbbe immerso nell’incertezza. Sembra stano che un uomo così forte e deciso diventi incerto proprio mentre sperimenta la solitudine del carcere. Egli è incerto perché aveva aspettato Gesù come chi “ha in mano il ventilabro e purificherà la sua aia” (Mt.3,12), lo aveva pensato come chi rivendica la gloria del Padre con gesti potenti e spettacolari. Ora invece sa, dai discepoli che lo visitano o riescono a tenere i rapporti, che il ministero di Gesù, le sue “opere”, non coincidono con quanto egli aveva annunciato, nella linea dell’attesa del popolo e degli oracoli degli stessi profeti. Invece di purificare l’aia e di affondare la scure nelle radici marce, il Messia va predicando la pace e il perdono – così come ci dice Matteo, specialmente nel Discorso della Montagna, che Gesù aveva pronunciato proprio mentre Giovanni era in prigione. Il Messia tanto atteso non si coinvolge nelle rivendicazioni politiche, si circonda di gente povera e umile, dialoga con tutti, con i peccatori e perfino con gli occupanti romani. Ma allora il comportamento del Dio di Israele è cambiato! Egli non è più il Dio “dal braccio teso” dei tempi dell’Esodo, non è il Dio del “fuoco dal cielo”, che garantiva le parole di Elia, ma un Dio pastore, medico, pronto all’accoglienza di quanti gli si rivolgono, come ci narrano i capitoli 8 e 9 del Vangelo di Matteo. Di fronte a questa predicazione, Giovanni e i suoi discepoli provano meraviglia, dubbio, esitazione: Gesù intende il Messia come glorioso e potente, o intende altro? Il suo comportamento è sconcertante. Perciò essi decidono di condurre una “inchiesta” per comprendere ed inviano un’ambasceria che chiede: “Sei tu colui che viene o dobbiamo aspettare un altro?” (v.3). “Colui che viene” è la definizione del Messia, il sempre atteso, il Dio di sempre, e sarà la definizione del Cristo risorto nell’Apocalisse (Ap.1,8). Gesù non si sottrae e risponde che le sue opere, che turbano Giovanni perché umili e nascoste nella sofferenza dell’umanità, non solo non sono ambigue, ma sono esse le opere della salvezza, che non è nei riti e nelle celebrazioni, ma proprio in questo operare. Gesù è diverso da quello che era generalmente atteso dal messianismo precedente. Egli è un altro. Il suo messianismo sta nell’attenzione e nella misericordia, non punta alla realizzazione di un gruppo di puri, ma all’unità, all’incontro, dei figli di Dio che si accolgono nella reciproche diversità e limitazioni. Matteo lo dice solennemente alla fine del capitolo 25: il criterio per l’ingresso nel Regno saranno i gesti di fraternità, di aiuto a chi è nel bisogno. Il resto non conta. Ma questo sconvolge chi pensa il bene come perfetta armonia, la dottrina come perfezione pura, senza la partecipazione attiva del credente. Gesù lo sa, ma non rinuncia alla verità che porta in sé e a cui chiama, e aggiunge una nuova beatitudine: “Beato chi non si scandalizza di me”. Come nel Discorso della Montagna la beatitudine deriva dalla disponibilità sincera a rinunciare alle proprie schematizzazioni per aprirsi all’accoglienza dell’oltre dell’iniziativa di Dio. Questa beatitudine ha il suo corrispettivo solenne nel capitolo 13 del Vangelo di Giovanni, quando, la sera del Giovedì santo, Gesù dopo aver lavato i piedi ai discepoli, dirà. “Se io, il Signore e maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri… Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica.”
Ci viene dunque domandata l’umiltà della fede, anche nei momenti di incertezza, quando ci sembra che Dio non ci dia i mezzi per portare a termine i nostri progetti, quando la nostra esigenza di soluzioni definitive e di chiarezze forti sembra disattesa. Giovanni Battista ci insegna che la vita di fede non è senza notti né prove. Dobbiamo essere disponibili alla Parola, anche se ci sembra fallimentare: Matteo ci indica Gesù, che sulla croce grida: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.
Non edulcoriamo il Natale. Sarebbe un tradimento anche per la nostra storia, oggi. Non riduciamolo ad una festa! Matteo in questa pagina ci dice che la scoperta dell’identità di Gesù è una conquista personale, che ognuno di noi deve fare con fedeltà, assoggettandosi alle leggi severe del cammino di ricerca, di preghiera. Ci spinge a sporcarci le mani nell’accoglienza dei problemi delle persone che incontriamo, a stringere le mani che tremano, a capire che ogni anziano è portatore di una solitudine. Ognuno ha una sua problematica angosciosa. Natale è rendercene conto, è compiere le opere di Gesù. Questa è l’Incarnazione.
La situazione drammatica dell’oggi della nostra città, che portiamo davanti a Dio nella preghiera, ci domanda di guardare a Maria. Impariamo da lei che “prima di proclamare Gesù Cristo, bisogna farlo”. Ascoltare, meditare, riflettere attentamente, partecipare in prima persona. Questi sono i verbi del fare spazio a “Colui che viene”, sono i verbi del fare il Natale.
Incontriamo di nuovo Giovanni Battista, testimone del momento storico della venuta visibile del Signore: Matteo sembra non voler distogliere gli occhi da lui. Lo incontriamo nella luce del suo cammino di fede, fermo nella testimonianza dell’obbedienza a Dio e perciò perseguitato fino all’incarcerazione e al martirio, perchè fedele alla verità.
Matteo oggi mette in luce la sua libertà interiore volta ad una comprensione matura della missione di Gesù, di cui gli giunge notizia attraverso l’eco delle opere. Egli vive la prova della fede: queste “opere del Cristo” sorprendono, non corrispondono all’attesa messianica del popolo e neppure agli oracoli dei profeti che la tradizione comunicava, suscitando attese che Giovanni condivideva; attese cioè di un Liberatore che avrebbe usato la scure sul male e operato un giudizio severo sui malvagi, purificando così Israele, l’aia del Signore.
Giovanni deve aiutare i suoi discepoli – fra cui erano Pietro ed Andrea, che poi sarebbero diventati discepoli di Gesù – perplessi per quanto veniva riportato delle parole e dei gesti di Gesù, deve egli stesso cambiare pensiero. Perciò la domanda affidata agli inviati: “Sei tu quello che deve venire, o dobbiamo aspettarne un altro?”. Il tuo è il messianismo glorioso e potente, che attendiamo da secoli, o è di altro tipo?
Gesù risponde con le sue stesse “opere”, quelle che danno apprensione perchè apparentemente riduttive ed insignificanti. Si riferisce ad Isaia, annuncia un’altra idea di salvezza. La guarigione dei malati, l’evangelizzazione dei poveri dicono che egli non intende essere un giudice duro, che punta all’annientamento di chi opera il male, ma un liberatore, messia dagli atteggiamenti positivi, attento e misericordioso. Invece di punire i peccatori, sopprimere i malvagi, egli restituisce la salute, consola, illumina, soccorre i sofferenti, passa in mezzo agli uomini facendo solo il bene, realizzando la figura del Servo, profetizzata da Isaia: “egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori”(Is.53,4). Così si mostra diverso dal liberatore immaginato dall’attesa comune, è un altro. È l’Altro!
Questa diversità suscita scandalo, persino nell’intimo di Giovanni. Perciò Matteo ricorda alla sua comunità: “beato colui che non trova in me motivo di scandalo”. Il vangelo del servizio e della croce metterà a dura prova la vocazione degli apostoli, fino alla ribellione di Pietro, alla delusione che indurrà alla fuga, fino al tradimento di Giuda. Allora e sempre. I credenti devono imparare che seguire Gesù significa rinunciare alle proprie esigenze di un regno secondo la logica umana, anche quando questo cambiamento di pensiero è avvertito come una sconfitta di quanto è sentito come giusto e doveroso. Gli aspetti sociali sono importanti ma il Regno è oltre: bisogna anteporre la logica del vangelo alla logica umana.
Questo insegnamento di Matteo vale per sempre, perciò per l’oggi della nostra vita e della nostra fede. A volte l’insegnamento del Signore può apparire come utopia alla nostra sensibilità intollerante. Vorremmo la verità e la giustizia trionfanti, ma questo non corrisponde al vangelo.
In uno splendido passaggio della sua lettera sulla speranza, del 30 novembre, Benedetto XVI dice a tutta la Chiesa:
“Alcuni teologi recenti sono dell’avviso che il fuoco che brucia e insieme salva sia Cristo stesso, il Giudice e Salvatore. L’incontro con Lui è l’atto decisivo del giudizio. Davanti al suo sguardo si fonde ogni falsità. È l’incontro con Lui che, bruciando, ci trasforma e ci libera per farci diventare veramente noi stessi: le cose edificate nella vita possono allora rivelarsi paglia secca, vuota millanteria, e crollare. Ma nel dolore di questo incontro, in cui l’impuro ed il malsano del nostro essere si rendono a noi evidenti, sta la salvezza. Il suo sguardo, il tocco del suo cuore, ci risana mediante una trasformazione certamente dolorosa ‘come attraverso il fuoco’ (1Cor.3,15). È, tuttavia, un dolore beato, in cui il potere santo del suo amore ci penetra come fiamma, consentendo alla fine di essere totalmente noi stessi, e con ciò totalmente di Dio. Così si rende evidente anche la compenetrazione di giustizia e grazia: il nostro modo di vivere non è irrilevante, ma la nostra sporcizia non ci macchia eternamente, se almeno siamo rimasti protesi verso Cristo, verso la verità e l’amore. In fin dei conti, questa sporcizia è già stata bruciata nella Passione di Cristo. Nel momento del giudizio sperimentiamo ed accogliamo questo prevalere del suo amore su tutto il male del mondo e in noi. Il dolore dell’amore diventa la nostra salvezza e la nostra gioia” (n.47).
Il messianismo di Gesù è questo e non può essere accolto senza una forte conversione alla compassione, alla misericordia ricevuta e donata.
L’elogio di Giovanni si può comprendere dal suo essere stato docile all’annuncio di Gesù. Perciò la sua bellezza non è estetica (la canna) o alla moda (le vesti morbide per le sale di corte), non è da ammirare. L’elogio è la sottolineatura della sua fermezza, della sua personalità che si realizza nella fede. La sua stessa vita precorre il vangelo. Prima che Gesù apparisse in pubblico, Giovanni lo diceva con la vita. Perciò è indicato come l’uomo più grande della storia che precede Gesù.
Domandiamo il dono di essere così profondamente convinti della verità dell’Amore, da poter diventare umili e tenaci testimoni della speranza.
Nella liturgia di questa domenica troviamo:
- Un’affermazione di Isaia, carica di speranza: “E ci sarà un sentiero, una via …”
- Una domanda che viene dall’intimo del cuore di Giovanni: “Sei tu o un altro?”
- Una risposta che parla con i fatti: “Andate e riferite …”
La presenza storica e attuale di Gesù Cristo è la ragione della gioia che la liturgia di oggi esprime nelle letture e nei cuori; è la risposta al desiderio di qualcosa di più grande e puro di quello che il mondo propone senza di lui, come se lui non esistesse. Insieme a Giovanni facciamo nostra la sua domanda e la sua accoglienza della risposta per custodirla e testimoniarla nella gioia, avvertendo la presenza del Signore vicino.
Sant’Agostino che ci ha guidato in questo Avvento, ha come prospettiva della vita di fede proprio l’attrattiva di Gesù, l’incontro con la sua persona affascinante. In un bellissimo commento alla parabola del padre misericordioso (Lc.15,11-32), lo descrive mentre accoglie il figlio che torna: “Quando era ancora lontano lo vide, commosso gli corse incontro, gli gettò il braccio al collo e lo baciò”, e spiega riferendosi a Dio Trinità: “il braccio del Padre è il Figlio”. Gesù, dunque, è il braccio di Dio Padre, il suo amore incondizionato. Non opprime, ma solleva, “rimette in piedi”. Il suo amore che abbraccia fa divenire tutto leggero. Il peso dei peccati è tolto da questo braccio, che addirittura trasforma l’uomo, a sua volta braccio di Dio, libero e capace di portare quel Dio che lo ha raggiunto. Lo onorò, non lo onerò, non gli diede pesi da portare. L’uomo può portare Dio perché Dio porta quando è portato. Ecco a quale gioia può condurre l’incontro con Gesù.
Allora, quando il Signore pronuncia nel vangelo le parole che abbiamo ascoltato: “Andate e riferite … i ciechi vedono … gli storpi camminano …” non propone innanzitutto delle opere da compiere, ma propone se stesso come braccio del Padre che raggiunge e si posa sul dolore dell’uomo e compie tutte le opere. Dove Gesù tocca, porta vita, guarisce, fa fiorire. Non promette di risolvere i problemi della storia con i miracoli, ma di farsi prossimo, vicino a ciascuno e a tutti nella storia. Diciamolo in questi giorni così poveri di speranza: la carità è il braccio di Dio che si svela in Gesù Cristo.
L’incontro con lui, come tra maestro e discepolo, tra via e seguace, ha come effetto la crescita nella fede, nell’interiorità, nell’impegno di testimoniare nella carità concreta Dio che viene anche oggi nella nostra città. È quello che chiede ai discepoli: mettere tempo e cuore nell’aiutare chi soffre, nel curare ogni germoglio con la premura che san Giacomo indica con l’esempio del contadino. Occhi per vedere il presente, speranza per vegliare il futuro.
Sant’Agostino lo propone come un traguardo altissimo e concreto: “Se vedi la carità, vedi la Trinità” esclama. Come per dire chi vede un gesto di carità , si accorge che non può nascere dalla sola iniziativa umana, ma da un’appartenenza che avvolge la libertà, la porta a maturazione piena, la rende trasparenza di Dio. Non sono affermazioni da relegare nel campo della mistica, ma frutto dell’intelligenza illuminata dalla fede.
Questo il distintivo dei cristiani: “Da questo vi riconosceranno” (Gv.1.35).
Ciò che distingue – dice Agostino – non è il cantare l’Alleluja, non il rispondere “Amen”, neppure il costruire basiliche, né il solo appartenere alla Chiesa. Quello che distingue i discepoli di Gesù è la carità che è da Dio. Il cuore si riempie di riconoscenza per il venire in evidenza di tutte le azioni che sono suggerite dall’amore e realizzate nelle opere più varie delle donne e degli uomini che si rendono come Gesù, anche se inconsapevolmente, braccio di Dio Padre disteso sulla povertà del mondo. Di loro si può dire la beatitudine di coloro che non si scandalizzano di Gesù, del suo lavare i piedi ai poveri.
Gesù, anche non nominato, è lo spessore, il senso di tanto volontariato, di tanto dono di sé. Sono il braccio stesso di Dio sulle miserie del nostro tempo, lo spendersi di Cristo che abbraccia il volto e la povertà dell’uomo.
Dobbiamo ringraziare e testimoniare per questo oceano di bene che è il continuo venire del Signore nella storia.
Fin quando non sarà possibile dirci nella reciprocità le parole di Agostino:
“Amerai, ti dice Dio, lo stesso amore mi rende a te presente …
Lì, in questa attrattiva amorosa è il nostro fine.
Per questo corriamo verso questo abbraccio, e quando vi giungiamo lì sarà il riposo”
Ogni anno la liturgia del tempo di Avvento propone per la seconda e la terza domenica la figura di Giovanni il Battista, facendoci sensibili alla sua testimonianza forte e drammatica, precorritrice del cammino di fede di ogni credente, al suo compito di battistrada per quanti desiderano incontrare Gesù e seguirlo.
Matteo presenta Giovanni “che era in carcere” proprio in conseguenza del suo servizio alla verità di Dio. Lì, nella privazione della libertà, tagliato fuori dal resto del mondo, mentre da un lato sente l’eco delle “opere di Cristo”, gli sorgono dentro dei dubbi: sarà proprio Gesù colui che “deve venire” a fare quella giustizia che non appare negli avvenimenti della propria vita personale e nel disordine morale della società, a cominciare dal palazzo del re Erode? Quelle opere che Cristo va compiendo, per di più, appaiono diverse da quelle che la gente era abituata ad attendersi dal Messia di Dio: sarà proprio Gesù il realizzatore delle promesse di Dio? Saranno proprio vere quelle promesse? Giovanni chiede ai suoi discepoli di porre una domanda diretta a Gesù: “Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettarne un altro?”. È una domanda che dobbiamo prendere con serietà, perché manifesta la sofferenza, la perplessità di Giovanni per l’agire incomprensibile di Dio nelle opere di Gesù, che sembrano contraddittorie della tradizione religiosa e popolare ebraica: è una domanda che coinvolge ogni credente nel cammino di fede.
Gesù non risponde direttamente con un’attestazione chiara ed esplicita della propria identità, con un sì rassicurante ed appagante, ma indica a Giovanni la via che i discepoli e tutti noi dobbiamo percorrere: osservare i segni per interpretarli rettamente e riconoscere come opere di Dio e del suo inviato le opere compiute da Gesù, è la via della fede che, attraverso la visibilità delle opere, conduce all’invisibilità di Dio, dalla oscurità alla luce, dalla paura alla fiducia, dall’angoscia alla gioia. Gesù stesso aiuta ad imboccare questa via della fede, riferendosi alle opere enumerate dal profeta Isaia: “I ciechi recuperano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti resuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo”.
Chi sa interpretare rettamente le opere, soprattutto guardandole non solo come interventi prodigiosi e di potenza, ma nel loro insieme, non può avere dubbi. Tutto l‘insieme, le parole e i gesti del Signore, svelano il segno vivo di Dio presente che in Lui porta a compimento la propria opera di salvezza. Perciò “è beato colui che non trova in me motivo di scandalo”.
Gesù pronuncia la parola della beatitudine di coloro che scelgono Dio, privilegiando nell’ascolto e nell’azione quello che gli sta a cuore, anteponendolo alle proprie attese, anche di carattere religioso, e che, tuttavia, non appartengono allo stile di Gesù, che a prima vista può apparire dissacrante e perciò scandaloso, come il mangiare, senza attenzione alle leggi di purità, alla mensa dei peccatori.
Giovanni non si è scandalizzato di Gesù, ma ha accolto nella fede in Lui la violenza omicida su di sé, il martirio, per testimoniare la verità del Vangelo. E Gesù lo proclama “beato” perché con amore fiducioso capovolge il pensiero che tante volte paralizza, blocca la relazione con Dio, quel pensiero che da spazio maggiore alla coscienza dell’impossibilità umana che a quello della infinita possibilità di Dio, la relazione con Dio senza la quale nessuna religiosità vale. La domanda di Giovanni Battista svela una svolta del suo cammino di fede, la sua personale chiamata alla conversione dalla mentalità precedente, sia pure fondata sulla tradizione mosaica, alla visione nuova in cui l’azione di Dio salva attraverso le opere dell’amore fraterno. Giovanni Batista è beato perché fa questa conversione: non aver paura delle prove spirituali, né della fatica della ricerca.
Ha scritto papa Francesco nella sua lettera enciclica sulla fede:
“La luce della fede in Gesù illumina anche il cammino di tutti coloro che cercano Dio …. L’uomo religioso è in cammino e deve essere pronto a lasciarsi guidare, a uscire da sé per trovare il Dio che sorprende sempre.
Questo rispetto di Dio per gli occhi dell’uomo ci mostra che, quando l’uomo si avvicina a Lui, la luce umana non si dissolve nell’immensità luminosa di Dio, come se fosse una stella inghiottita dall’alba, ma diventa più brillante quanto è più prossima al fuoco originario, come lo specchio che riflette lo splendore.
La confessione cristiana di Gesù, unico salvatore, afferma che tutta la luce di Dio si è concentrata in Lui, nella sua vita luminosa.
Non c’è nessun esperienza umana, nessun itinerario dell’uomo verso Dio, che non possa essere accolto, illuminato e purificato da questa luce.
Quanto più il cristiano si immerge nel cerchio aperto dalla luce di Cristo, tanto più è capace di capire e di accompagnare la strada di ogni uomo verso Dio”
(“La luce della fede”, 28/6.2013, n.35)