Commemorazione dei defunti – Anno A
(Gb 19,1.23-27a; Sal.26; Rm 5,5-11; Gv 6,37-40)
Ieri ci siamo posti la domanda sul valore della vita, sulla santità nella vita: oggi, di fronte al passaggio stretto della morte, ce lo domandiamo nuovamente.
Per i discepoli di Gesù il valore della vita assume tutto il suo spessore e raggiunge il suo culmine nella “parousia”, nell’attesa del ritorno del Signore, che costituirà la fase definitiva del regno di Dio, per ciascuna persona con la propria morte, per l’umanità tutta quando avverrà quel ritorno definitivo di Cristo, di cui egli stesso ha parlato. Negli scritti più antichi del Nuovo Testamento, come le lettere ai Tessalonicesi, questo ritorno è ritenuto imminente e da senso all’esistenza. I cristiani, salvati dalla Parola, hanno abbandonato gli idoli “per servire il Dio vivo e vero e per aspettare dai cieli suo Figlio, che Egli resuscitò dai morti, Gesù, che ci libera dall’ira che viene” (1Ts. 1,10). L’attesa del Risorto è la meta, il traguardo finale, perciò è la spinta verso una realtà che è al di là della storia, il desiderio che accresce l’impegno a costruire i segni del regno che viene; impegno che è la caratteristica del vero credente. Così, la luce della resurrezione è la stella polare che orienta il popolo dei credenti verso il compimento, come unico e definitivo bene, tanto da provocare in alcuni un disimpegno dal presente, che s. Paolo dovrà correggere con parole nette e con fermezza: prepararsi non significa sottrarsi, ma vivere il presente come luogo di preparazione, vigilare.
Vivere concretamente la vigilanza significa vivere santamente. I vocaboli che i testi del Nuovo Testamento usano per dire l’atteggiamento cristiano di attesa del ritorno del Signore sono “santi”, “puri”, “irreprensibili”: tutto deve convergere all’essere pronti – come Gesù stesso aveva raccomandato più volte – al momento della venuta del Signore, di cui non conosciamo né il tempo né l’ora. Perciò il principio fondamentale della visione della vita cristiana è l’orientamento verso il futuro e i comportamenti vanno valutati sulla loro conformità ad esso. Per le vicende personali il ritorno è imminente: la vigilanza è anche discernimento sulle scelte da compiere, che hanno valore solo se orientate all’incontro con il Signore. In quel momento avverrà il giudizio, che non deve farci paura, perchè sarà la verità sulla nostra vita. Del passato resta solo quanto il Cristo Risorto può prendere e far proprio per presentalo al Padre come suo, perché rimanga per sempre: perciò tutto l’amore e il lavoro, ogni bicchiere d’acqua dato per amore, ogni atto di verità e di giustizia è segno del Regno e prepara il suo avveramento. Il resto è puro passato, che ormai è morto, perciò da abbandonare o da subordinare al venire di Cristo. È la fine delle illusioni e delle vanità.
Questa visione della vita dinanzi al passaggio della morte, per incontrare il Signore era stata preparata nell’Antico Testamento in modo esplicito, almeno in alcuni passaggi, come, per esempio, nel salmo 23, che parla di “pascoli verdeggianti” oltre la “valle oscura” e di “mensa” preparata da Dio a cui si approderà nell’appagamento pieno: “felicità e grazia mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita e “abiterò nella casa del Signore per lunghissimi anni” (Sal.23,6). E ancora, nel salmo 16, “non abbandonerai la mia vita nel sepolcro, né lascerai che il tuo santo veda la corruzione. Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena alla tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra” (Sal.16,11).
Il credente, già nell’Antico Testamento, si trova davanti all’affermazione che il Signore può far superare ai suoi fedeli la barriera della morte. Ma la speranza diventa certezza nel Nuovo Testamento, per la nettezza con cui Gesù afferma che Dio porta a compimento il suo proposito di introdurre l’uomo nella sua eternità, proprio perché lo fa in Lui resuscitandolo: la morte sulla croce e la resurrezione del Figlio è promessa di eternità per ogni uomo. Questo è l’evento decisivo e definitivo, così divino da non ammettere ripensamenti o diminuzioni da parte sua. Il proposito di Dio non è fermato dalla morte, ma questa è addirittura trasformata in via di salvezza, è resa capace di essere via e porta, come canta la liturgia pasquale. La morte è un inizio e non una fine come i sensi la avvertono, perché l’amore è più forte della morte.
“Essere sempre con il Signore” (1Ts.4,12) è la formula della fede nella vita eterna, senza materializzazioni e senza fantasie. Con il Signore sarà l’uomo intero, identico al se stesso nel tempo, e in quella trasformazione che rende possibile il superamento della precarietà del presente. Non ci è dato di comprendere e di descrivere concretamente le modalità di questa trasformazione, ma l’affermazione della parola di Dio è che essa fa vivere “nel Signore”, come membra del suo corpo glorioso. La vita oltre la morte porta a perfezione il legame con l’umanità già sperimentato in terra e nella Chiesa, il legame dello sposo verso la sposa, dei genitori verso i propri figli, e traspare dalla tenerezza con cui il Risorto ha incontrato i suoi fratelli. Già da ora, nei nostri morti, la vita è più forte della morte e porta a compimento l’amore vissuto sulla terra. Ne è compimento l’agape, l’amore unitario, struttura fondamentale dell’essere “con” il Signore, e di vivere “in Lui”. Sarà la forma più perfetta di amore interpersonale (1Cor,13,13), l’esperienza senza fine dell’amore più forte della morte.
Ma, soprattutto, l’essere con il Signore significa l’esperienza completa dell’incontro con Dio, in modo diretto e pieno, quello che Gesù ha annunciato e per cui ha pregato: “Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi una cosa sola…” (Gv.17,23b).
I cristiani, in questa certezza, hanno visto placarsi la lotta senza tregua fra la vita e la morte, anche quella degli innocenti, e sulla tomba hanno scritto: “pace”, quale segno della pienezza raggiunta.
Nel V secolo, al tempo di s. Agostino fu scritto sulla tomba di un bambino:
“Maco, fanciullo innocente, ormai sei tra gli innocenti.
Com’è definitiva per te questa vita!
Come ti accoglie gioiosa la madre Chiesa mentre esci da questo mondo!
Sia represso il gemito dei cuori, si trattenga il pianto dagli occhi!”
(iscrizione del V secolo, in Africa)