Solennità di Tutti i Santi – Anno A
(Ap 7,2-4.9-14; Sal.23; 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12)
All’inizio della Preghiera Eucaristica ascolteremo :
“Oggi ci dai la gioia di contemplare la città del cielo
la santa Gerusalemme che è nostra madre”
La liturgia ci propone oggi una festa di contemplazione di tanti volti, noti e meno noti: tante vicende umane, diverse e irripetibili come ogni esistenza, ma tutte confluenti nel raggiungimento definitivo di Dio, cercato e amato. L’Apocalisse parla di una “moltitudine immensa”, la cui entità sfugge ad ogni calcolo umano. Noi siamo abituati a catalogare secondo confini di appartenenza, di schemi ideologici, di pregiudizi morali, invece questa moltitudine è radunata con una libertà che va oltre gli schematismi della nostra mente, delle nostre consuetudini ed è abitata dal canto della riconoscenza eterna: “la salvezza appartiene al nostro Dio”. Ricordiamo, non per nostalgia del passato, ma per desiderio di futuro, i lineamenti di questi volti, come una certezza verso cui camminare.
Nei loro lineamenti c’è qualcosa che li accomuna, il desiderio espresso dal salmista:
“O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco.
Di te ha sete l’anima mia,
a te anela la mia carne,
come terra deserta, arida, senza acqua” (Sal.63)
La ricerca di Dio, vissuta con serietà e portata concretamente nella vita di ogni giorno, è la radice della “purezza di cuore” che conduce a Dio, è la disposizione intima dell’uomo, che rende possibile a Dio di entrare nel suo cuore. Quello che fa la differenza tra un santo e un mediocre è la radicalità di questa ricerca. Per il santo, Dio è al primo posto, non episodicamente, ma in ogni ora del giorno. Il santo è un uomo unificato, uno che sta fermo dentro, pur movendosi tra le tante opere che gli competono. Il nostro dramma di persone appesantite dalla mediocrità, sta proprio nell’essere frammentati, a volte attenti alle esigenze del “dentro”, a volte piegati al compromesso, con la tristezza di non riuscire a “vedere Dio” e con quella “amarezza” che oscura la vita e pesa sugli altri, le donne e gli uomini con cui conviviamo, perché siamo senza gioia. Dal Paradiso affollato di santi cogliamo la necessità per i credenti di fare sul serio con Dio, di sceglierlo con tutta la nostra volontà.
“Beati i puri di cuore perché vedranno Dio”
Gesù domanda agli uomini la purezza del cuore, della coscienza delle ragioni per cui viviamo, lavoriamo ed amiamo. Purezza della ricerca del bene, senza sovrapposizioni di secondi fini, senza doppiezze, sapendo che Dio non ci distoglie dalle responsabilità del presente, ma potenzia l’amore e le capacità di realizzarlo.
È bello che la meditazione ravvisi la santità nei lineamenti di tanti e tante che hanno attuato la parola del Salmo 23:
Chi ha mani innocenti e cuore puro,
Chi non pronunzia menzogna”
Guardiamo a questa santità al di là di ogni curiosità: in questa moltitudine immensa vi sono tanti umili lavoratori, artigiani, donne di casa, minatori, che non hanno smesso gli indumenti del proprio lavoro. Una folla di persone che magari non hanno saputo parlare di Dio, ma lo hanno amato nella quotidianità, lo hanno detto con parole che la nostra presunzione intellettuale è incapace di pronunciare, parole di quella sapienza popolare che attinge al libro di Giobbe: “Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore”. Per questa santità occorre essere uomini e donne di fede.
E’ bello che la liturgia si faccia voce di lode e di riconoscenza per ogni donna ed ogni uomo che Dio accoglie in sé per sempre, dopo un’esistenza consumata nella rettitudine, nella misericordia, nell’impegno per la pace. Anche persone non appartenenti alla comunità cristiana, desiderose dell’incontro con Dio in altre fedi religiose, spinti all’amore e alla solidarietà da convinzioni diverse. Fanno tutti parte di una moltitudine il cui numero non possiamo valutare.
La vera ricerca di Dio avviene nel concreto dell’esistenza umana e nel coinvolgimento con le vicende dell’umanità, perché il Dio del tempio è intervenuto nella storia umana, si sporca le mani con le vicende dell’umanità. L’autore del Salmo lo ha capito: l’incontro con Dio, se autentico, conduce all’incontro con l’uomo. Paolo VI diceva che la santità non è nei conventi, è nella carità del cuore di uomini e donne seri e motivati.
Oggi riceviamo il codice di questa santità nelle Beatitudini, che ciascuno di noi può meditare nel suo cuore, sorretto dalla grazia. Mentre vivi la sofferenza per le contraddizioni della vita, sei beato. Mentre vivi lo schiacciamento del cuore per le ingiustizie, sei beato. Il volgersi all’uomo, conseguenza dell’essersi volto a Dio, è il segno di come Dio ama l’uomo. Perciò il primato della misericordia e l’impegno incessante per la pace. Qui è il realizzarsi pieno dell’uomo in senso cristiano, il fiorire pieno dell’essere immagine di Dio nell’amore.
È la festa della patria definitiva, e della promessa del Signore:
“vado a prepararvi un posto: quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io” (Gv.14,2-3)
Ci troviamo uniti nella patria di Dio Trinità come raggi che convergono da una moltitudine di punti di partenza, amandoci nella reciprocità del dono e dell’accoglienza, saremo dono e gioia l’uno per l’altro, Paradiso l’uno dell’altro.
Amen!
Della vita si può parlare in modo astratto, come avviene spesso. Ma vivere è innanzitutto una realtà di fatto, di cui siamo protagonisti alla luce di quanto ci viene tramandato come valore dalla comprensione della cultura in cui nasciamo, in cui “venimmo alla luce”, come si usa dire.
Quale è il valore della vita per un discepolo di Gesù? A questa domanda possiamo dedicare il pensiero di meditazione oggi e domani.
Subito viene l’esigenza di guardare a Gesù: il suo modo di vivere illumina il nostro di discepoli. Lo precede e si propone come modello. Egli stesso dice: “Imparate da me” e “Vi ho dato l’esempio”.
Una sollecitudine senza riserve per le necessità della vita concreta di quanti incontrava, insieme alla relativizzazione dell’attaccamento alla vita stessa; la premura per i malati, il non sottrarsi ai gesti di guarigione, il compito affidato ai primi discepoli: “guarite gli infermi, risuscitate i morti, mondate i lebbrosi, scacciate i demoni” (Mt.10,8) tutto dice l’idea alta della vita umana nel pensiero di Gesù.
Un’idea alta che si esprime nella precedenza concreta data ai bisogni altrui, piuttosto che all’ansia per la propria vita. Da qui la povertà, la rinuncia al potere, la mortificazione, intesa come base per la disponibilità alla croce e all’insegnamento che per salvare la propria vita occorre perderla.
Gesù non dice, come farebbe un filosofo, che cos’è la vita in sé, ma avverte realisticamente che l’uomo non ha in sé la possibilità di dare compiutezza alla propria vita se non guarda alla “qualità nuova” che egli introduce.
Perciò la vita dei primi cristiani, attentissimi alle parole del vangelo, subisce delle modificazioni significative dall’accoglienza della proposta di questa nuova qualità. Come riferiscono gli Atti degli Apostoli, la vita spirituale, che era conosciuta e praticata in atteggiamento di giustizia individuale, diventa comunitaria nella preghiera comune, nella celebrazione dell’Eucarestia, nella comunione dei beni, non solo in senso materiale ed economico, ma fino alla condivisione dell’esperienza di fede ed al perdono, nella missione, mai intesa individualmente, nel sentirsi responsabili per il mondo intero della grazia ricevuta con la conoscenza del vangelo.
L’esperienza delle origini dice che, con il battesimo, inizia un’esistenza continuamente costruita da Dio stesso.
Attraverso lo Spirito che opera nel cuore del discepolo docile ad andare dietro a Gesù, il Figlio, Dio si forma un popolo di figli. Il figlio è la persona di cui il padre può fidarsi incondizionatamente, che può rappresentarlo ed eseguire i suoi incarichi. Così è per Gesù. Così dovrà essere per i discepoli.
Questa vocazione altissima è la chiamata tipica del cristiano
Perciò l’aspetto drammatico dell’esistenza nella fede sta nel pericolo che la quotidianità non sia al livello della chiamata.
La tensione interiore per la sproporzione tra il dono di Dio e la inadeguatezza della corrispondenza indurrà il pensiero cristiano a cercare la fedeltà al Signore non tanto in avvenimenti spettacolari o capacità sovrumane, ma nei gesti semplici, nelle eventualità che ogni giorno propone, cercando di introdurre in esse il dono di sé come lievito fecondo per ogni realtà che il vangelo deve rinnovare. L’apparentemente “poco” di fede, di speranza, di amore, che anima persone e comunità umili e consapevoli del proprio limite, proprio quello sarà azione dello Spirito che rinnova la creazione (Rom.8). L’importante sarà il custodire l’insegnamento di Gesù sul rinnegamento di sé, insegnamento proposto nella traduzione della Bibbia ecumenica: “se qualcuno mi vuol seguire smetta di pensare a se stesso” (Mc.8,34); l’importante è cominciare ad essere uomini per gli altri. Proprio come proposto dal vangelo delle beatitudini.
Comprendiamo che la vita è santa se appartiene a Dio. Questo è il concetto biblico di santità. Perciò appartenere a Dio è il fine della vita: appartenere alla sua santità che si manifesta nel riportare a sé gli smarriti e i divisi, nel far la pace con il perdono reiterato, fino a ricapitolare in sé, nella sua vita, tutte le cose.
Perciò il cristiano santo è colui che, nascosto in Dio e cioè radicato in Lui solo, vive per recuperare ogni uomo, che va in cerca di ogni solo, che si sforza umilmente di non essere ostacolo a chi cerca la verità e la giustizia, che è pronto al dono di sé nella gioia, che comincia dalla privatezza più nascosta, sapendo che quel modo di essere appartiene alla dimensione pubblica e cosmica.
La santità è la “qualità alta della vita cristiana ordinaria”, come augurava Giovanni Paolo II (N.M.I. 31).
Così possiamo comprendere più profondamente le beatitudini e guardare i santi come modelli e testimoni di una possibilità.