EPIFANIA – Anno A
(Is 60,1-6; Sal.71; Ef 3,2-3.5-6; Mt 2,1-12)
Epifania vuol dire “manifestazione” e la parola della Scrittura, in questa liturgia, lo indica con chiarezza, sia nel testo di Isaia che in quello di Paolo e nel Vangelo di Matteo. Cristo non è venuto per un solo popolo, ma per tutti, non solo per la minoranza credente, ma per la maggioranza non credente, per tutti i popoli, che, nella sua venuta, trovano il principio della propria unità. Dei Magi non sappiamo molto. Tuttavia hanno suscitato tanto fascino nella letteratura, nelle arti. Essi sono tipo e profezia di quella “moltitudine immensa” di cui parla l’Apocalisse (Ap.7,9), dei “veri adoratori”, annunziati da Giovanni (Gv.4,23). Sono il segno del grande raccolto del Vangelo. Matteo, con questo racconto ci dice che i popoli profetizzati da Isaia, che vanno verso Gerusalemme, non sono un miraggio, ma la previsione di un futuro che è incominciato e diventa realtà, per la presenza del “Bambino con Maria sua madre”. Le letture, oggi, ci rivolgono un messaggio, che ci chiama a crescere nella maturità della fede. Innanzitutto le figure rappresentative dei Magi, esponenti del mondo pagano, ci dicono che la sapienza pagana è in grado di preparare gli uomini a Cristo, di portarli all’incontro con lui, non diversamente dalla tradizione religiosa. Matteo sottolinea che la sapienza pagana è animata da una grande prontezza ad anteporre a tutto il resto la ricerca del Dio non conosciuto, è animata da un coraggio che non trova riscontro nella Gerusalemme apatica e indifferente. Egli ci dà così un avvertimento: i lontani si avvicinano e i vicini sembrano allontanarsi. Anche oggi sarebbe bello se tutti potessimo condividere la riconoscenza per tanta ricerca di Dio, presente in luoghi dove si rifiutano appartenenze e confessioni, ma dove è viva una profondità che è dono per tutti. Dovremmo dire grazie a Dio per tanti che lo cercano, senza avere la gioia di averlo trovato e crescere nella responsabilità personale per non cadere nell’indifferenza provocata da una fede abitudinaria. Matteo ci dice anche che la preparazione all’incontro con Dio è una lunga marcia di avvicinamento, un pellegrinaggio sostenuto dalla luce della coscienza e dalla attenzione ai segni. L’annotazione della “gioia immensa” dei Magi nel rivedere la luce della stella, ci fa comprendere che senza quella luce essi camminavano con esitazione, forse con angoscia. Il cammino della fede può essere duro, scomodo. Matteo ce lo ripeterà. Ma la fedeltà paziente accetta di andare avanti, anche al buio. Ci dice: “Coraggio! Se sei fermo nella determinazione, arriverai alla meta”. È una fedeltà che non si scoraggia né avvilisce di fronte alle beghe della corte di Erode e non si scandalizza della povertà della casa, dove finalmente i Magi vedono il Bambino, con Maria sua madre. Per noi è un invito a non scoraggiarci di fronte alla Chiesa, che è una povera cosa. “Beato chi non si scandalizza”. Di fronte al Bambino i Magi ”prostratisi lo adorarono” . La prostrazione per i pagani poteva essere un cerimoniale di corte, ma per gli ebrei essa esprime l’adorazione a Dio. Con questo gesto Matteo ci dice che i Magi adorarono “Gesù, il Signore”. Così si concretizza l’annuncio che Gesù è il Signore di tutti, per tutti è “la casa”. Nessuno si sente escluso davanti a lui. Luca lo colloca nella mangiatoia, perché gli umili pastori possano riconoscerlo, Matteo nella casa, in modo che possa accogliere i sapienti che vengono da lontano. In Gesù c’è l’accoglienza di tutti, secondo la misura, la capacità di comprensione, di ciascuno. I magi offrono “doni”. Scorrendo le pagine del Nuovo Testamento vedremo che, di fronte all’autorità civile, esso parla di “tributi”. Davanti a Gesù, invece, parla di dono, per dire la realtà della relazione con Dio. Il tributo è il compimento di un dovere e da esso si attende qualcosa in cambio. Il dono non ha scopo. La sua sola ricompensa è vedere il Bambino con sua madre. Il nostro rapporto con il Signore è spesso troppo questuante. La disponibilità del Signore a concederci favori è dovuta al fatto che Cristo è la vera risposta ai desideri dell’uomo. I Magi donano quello che hanno di più prezioso e ricevono in cambio il Bambino. Cristo è la risposta al desiderio profondo del cuore umano, il dono oltre cui non c’è ancora di salvezza, così come dice Agostino: “Ormai te solo amo, te solo seguo, te solo cerco te solo sono pronto a servire, perché tu solo comandi con giustizia, a te desidero appartenere” (Agostino, Soliloqui, 1,1,5) Quello che conta non è l’essere dotati di patenti di fedeltà, non è l’arrivare per primi o per secondi, ma è cercare, accogliere, trovare, prostrarsi nell’adorazione davanti al Signore Gesù.
“Dov’è nato il re dei Giudei?” Questa domanda, segno – ieri come oggi – della ricerca di Gesù, Messia di Dio, Matteo la pone – provocatoriamente – sulla bocca di persone estranee alla fede del popolo di Israele. La testimonianza della loro disponibilità all’adorazione ha una chiara indicazione polemica nei confronti di quanti, pur del popolo credente, non si accorgono di ciò che accade tra di loro; ed è, contemporaneamente, piena di gioia e stupore per il fatto che la sapienza pagana è in grado di portare ugualmente gli uomini a Gesù Cristo. Anche per la comunità cristiana il racconto di Matteo è ammonimento e fonte di fiducia. Ammonimento alla disattenzione dei credenti verso i segni del manifestarsi di Dio nella storia, pur ritenendosi “vicini”, e invito a considerare come esemplare la ricerca di coloro che siamo abituati a chiamare “lontani”. Questi appaiono non come dei turisti dello spirito, curiosi di studiare la fede di popoli diversi dal proprio, ma pellegrini guidati dalla parola silenziosa e dalla luce di Dio nelle loro coscienze, forse inquiete e certamente in ricerca premurosa e faticosa: perché il cammino della fede non è certo agevole, i suoi esiti possono apparire sconcertanti. I Magi vengono dall’Oriente, da paesi che oggi chiamiamo Iran e Iraq, che conosciamo bene proprio per l’incapacità dell’uomo a seguire un cammino di pace. Alla fine del loro cammino avrebbero potuto provare sgomento per non trovare una reggia degna di un re, ma una “casa”; non una corte solenne che dica altissima dignità, ma un bambino con sua madre, in una condizione di profondissima umiltà. L’adorazione che esprimono sia con il gesto orientale della prostrazione che con la presentazione dei doni sta a dire il superamento di ogni resistenza preconcetta, la riconoscenza nata dal cadere delle autodifese personali. Attorno a Maria e a Gesù, queste persone sono il segno dell’assemblea cristiana, della Chiesa dei popoli, formata dal convenire delle diversità, come abbiamo ascoltato nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Isaia. Questi saggi che Matteo presenta all’inizio della vicenda di Gesù, sono come prologo e sintesi di quello che verrà ribadito dal Risorto sul monte, al termine del Vangelo: “Andate dunque ed ammaestrate tutte le nazioni…” sono esempio per i credenti del cammino per l’avvicinamento sempre più vero al Signore nella vita di fede e di che cosa significhi restare alla sua presenza. Nel corso dei secoli la Chiesa, alla luce di tale esemplarità, si farà maestra di questo cammino e insegnerà l’ascolto della Parola, il ringraziamento e la lode, la supplica e l’invocazione, momenti di un unico atteggiamento di adorazione che si esprime concretamente con l’offerta a Dio dei doni che da Lui provengono con la vita e con la possibilità di conoscerlo. Adorazione come atto di fede, che Francesco di Assisi sintetizzava, rivolgendosi al Signore, con le parole: “Tu sei tutto, io niente … tutto il mio è tuo”. Un’adorazione non a parole, ma che – nel silenzio e nella solitudine, dove non ha posto neanche il vincolo fra sposo e sposa – dica la verità del rapporto della creatura di fronte al Creatore, che entri concretamente nell’esistenza e non consideri il tempo, il servizio, i “doni” dati a Dio come un tributo per essere “a posto”, con un criterio “fiscale”, ma una possibilità di restituire se stessi “con immensa gioia”, a Colui che solo per amore ci dona l’essere e l’esistere nella conoscenza. Allora si coglie la grandezza e il valore altissimo del dono di sé, in un rapporto personale che ha le caratteristiche del patto di amore reciproco, che si esprime nella gratuità, sostanza dell’adorazione, e ripete le parole della liturgia: “Signore, in semplicità e gioia, offro a Te tutti i tuoi doni”. Così l’oro della vita, della salute, delle capacità intellettuali, delle competenze nella laicità … Così l’incenso, il profumo di una vita che dica verità e giustizia, positività che si esprime nella gioia di poter vivere “a lode della gloria di Dio” … Così la mirra della compassione, l’atto di amore concreto che porta a condividere la via del Signore, assumendone consapevolmente la fatica, nella volontà di amare con la stessa misura dell’amore con cui Dio ci ha amato, quale che sia il fratello che abbiamo accanto. Proprio all’amarezza della mirra ha voluto riferirsi l’Arcivescovo, invitando a vivere in clima di “lutto” proprio la celebrazione di oggi, perché la gioia della manifestazione del Signore è così drammaticamente e tragicamente contraddetta da quanto la nostra popolazione è costretta a vivere. “Per un’altra strada tornarono al loro paese” Dopo questa celebrazione eucaristica torniamo “per altra strada” alle nostre case, non per accantonare e dimenticare, ma per crescere nell’adorazione che incida nella vita. Quello che accade a Napoli è causato da persone che credono in Dio e il Signore ha dettato nelle Scritture: “che nessuno si scandalizzi di te per causa mia”(Rm.2,24). Custodiamo in cuore e nella responsabilità il modo diverso a cui ciascuno è avviato dall’incontro con il Signore, l’impegno che ne deriva, le conseguenze che comporta.
Festa dell’Epifania: celebriamo e meditiamo la manifestazione di Gesù, salvatore di tutta l’umanità. L’annuncio del vangelo di Matteo è esplicito: Dio è Padre di tutti e Gesù Cristo realizza il suo Regno includendo tutti. L’Antico Testamento aveva ricevuto, assieme alla fede radicata nella memoria storica della liberazione e dell’esperienza del Dio vicino in ogni circostanza, dal tempo del deserto a quello della monarchia, la speranza e la responsabilità di annunciare un futuro in cui tutti i popoli si sarebbero incontrati nell’unica città di Dio – la Gerusalemme piena di luce rivelata da Isaia – dove tutti i dispersi si sarebbero riuniti. I salmi che animavano la preghiera e i profeti che annunciavano, nella drammaticità del presente, il tempo lungo di Dio, avevano mantenuta viva questa fede, come testimonia la liturgia che celebriamo. E la tradizione cristiana, fin dal’inizio, ha fatto propria questa speranza, leggendola nel racconto dei Magi (presente solo nel vangelo di Matteo), visti come simbolo dei popoli pagani, chiamati a porsi in cammino di pellegrinaggio dalla luce interiore e da quella cosmica della stella, che li accompagna fino all’approdo felice che l’evangelista descrive: “ … videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono”. La loro esperienza spirituale che fa dire a Matteo: “provarono una grandissima gioia”, è il motivo conduttore della liturgia di oggi, che fa proprio il brano di Isaia: “Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te” (Is.60,1), e propone alla meditazione dei credenti il tratto della lettera ai discepoli di Efeso in cui Paolo afferma che il suo compito, affidatogli dal Signore, è di annunciare la chiamata di tutti i popoli alla stessa promessa. Non è una visione derivata dal pensiero filosofico o da una ideologia politica o dal sogno ambizioso di un imperatore, ma lo svelamento del mistero di Dio a riguardo dell’umanità. Paolo vuole che i fedeli sappiano che con il battesimo hanno ricevuto il compito profetico di annunciare questo progetto di Dio, di portare la sua parola, di non esserne solo fruitori, ma collaboratori. A conclusione del ciclo di Natale, la liturgia ribadisce che la rivelazione alle genti del mistero di Dio è opera di Dio stesso, ma è affidata alla Chiesa perché lo testimoni come luce per la vita e la speranza degli uomini, in ogni tempo. Il racconto dei Magi è chiarissimo nel vangelo di Matteo: trovare il Bambino è motivo di “gioia grandissima”. La luce interiore, la stella che li condusse è come uno strumento intelligente di Dio che è Colui che chiama. La docilità alla luce interiore rende queste persone capaci di iniziative, di farsi aiutare nell’investigare da quanto detto nelle Scritture; così giunsero a Betlemme e videro “il Bambino con Maria sua madre”. È gioia per tutti, per noi oggi, scoprire che non esistono regioni e persone troppo lontane per la luce di Dio. E fa pensare che non basta per l’incontro con il Signore l’appartenenza ad una terra segata da una storia ricca della sua presenza, ad un luogo geograficamente vicino a quello del suo passaggio come Gerusalemme e Betlemme, a un popolo che si era sentito ripetere da 1.300 anni “tu sei un popolo consacrato al Signore”. Il potere e la presunzione accrescono enormemente la distanza dalla luce di Dio anche quando le appartenenze farebbero pensare a vicinanze scontate. L’umiltà dei Magi è più eloquente delle parole, e per comprenderne bene la profondità basta leggere attentamente le parole di Matteo e contemplare i loro gesti: “si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro incenso e mirra” È la pienezza della fede che accetta di accogliere una sapienza “altra” anche da parte di chi è sapiente per natura, per cultura, per il compito vissuto nella società. Una fede capace di comprendere che Dio è da adorare a da mettere sempre al primo posto, una fede che può solo offrirsi come dono gratuito. Vi sono indicazioni forti per il nostro cammino, personale di comunità, verso il Signore che ci chiama alla fede. La prontezza del mettersi in camino fa capire che non si può rimandare a tempi diversi, imprecisati, l’esigenza di dare senso di fede alla vita. Il cammino ben motivato non confonde la stella con la meta, il segno con il tutto, la promessa con il fine, la Chiesa con il Regno: senza mezzi termini cercano “Colui che è nato”. L’aver accolto l’invito all’incontro non li esime dalla coscienza di non farcela da soli, senza la mediazione di chi, pur povero e deludente, ha pur tuttavia il compito di fare da stella, segnale. Noi posiamo pur essere stanchi, delusi, nei confronti della Chiesa, ma è essa che ci da Gesù, il Vangelo. Il culmine dell’incontro dei Magi con Gesù è il gesto dell’adorazione, l’oro della libertà, l’incenso ella preghiera, la mirra dell’offerta di sé, il profumo che è certezza dell’al di là, del futuro di Dio. Questo episodio resta nel Vangelo per dire sempre alla Chiesa che la evangelizzazione non è astratta, ma è sempre il frutto di una vita attenta agli uomini, al “bambino” che è in loro, da accogliere e servire. Guardiamo ai biglietti di auguri che sono venuti da continenti lontani con i segni dei bambini, dei sei fratellini che la nostra comunità accompagna nella crescita. Ci dicono con i loro volti qual è il modo con cui il vangelo si diffonde, la strada della carità, che raggiunge tutti.