MARIA MADRE DI DIO – Anno A
(Nm 6, 22-27; Sal.66; Gal 4,4-7; Lc 2,16-21)
“Ti benedica il Signore e ti protegga.
Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio.
Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace” (Nm.6,24-26)
Così, ogni inizio di anno, la Chiesa madre pone il nome di Dio sui suoi figli, nella certezza che Dio, in prima persona, li benedice. E noi siamo tanto sicuri della benedizione che ci sentiamo autorizzati a trasmetterla, donando auguri di bene a quanti amiamo.
C’è una radice antica che motiva questa fiducia: “Tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato; – dice il libro della Sapienza – se tu avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure creata … Tu risparmi tutte le cose, perché tutte sono tue, Signore amante della vita” (Sap.11, 24-26). Questa fede antica è presente nel canto dei Salmi: “Quanto sono grandi le tue opere, Signore! Tutto hai fatto con saggezza” (Sal.104,24), È fiducia anche nella propria sorte: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla … perché tu sei con me”(Sal.23,1-4). È la fede di Gesù che comunica la premura del Padre: “Il Padre vostro celeste sa che ne avete bisogno” (Mt.6,32). “Il Padre vi ama” (Gv.16,17). Questa fiducia è da sempre la fede della Chiesa, espressa in mille modi: “Tutto viene dall’amore, tutto è ordinato alla salvezza dell’uomo. Dio non fa niente se non a questo fine” (Caterina da Siena, Dialoghi, 4). È da questa radice che ha origine l’ottimismo della fede, la fiducia in Dio e nella sua azione nella storia, in tutta la creazione. Pensiamo alla tradizione dei popoli slavi, che venerano “la terra, madre umida”, una madre caritatevole che ama i suoi figli, piange sulla loro sorte nei tempi di grande calamità, ma è sorgente costante e fedele di gioia e di salute. La terra che si bacia con riconoscenza e a cui si confessano le colpe, quando la si è sporcata con il sangue della violenza e della guerra.
Ma la fede nella Provvidenza è messa a dura prova dallo scandalo del male. Dove è Dio quando i cataclismi della natura, le guerre, la fame, le malattie fanno strage di intere popolazioni? Perché i giusti e gli innocenti soffrono? Perché i bambini sono sempre i più colpiti? Sono le domande di sempre, che si sono fatte più urgenti in questi giorni tragici, che contraddicono la dolcezza del Natale e le parole rassicuranti della liturgia. Sono le domande che non aiutano ad avere luce, ed inducono il sospetto angosciante su Dio, sulla sua esistenza e bontà, fino alla negazione di lui. Tutti, come Teresa di Lisieux – quando a 23 anni scoprì di avere la tubercolosi – facciamo in questi giorni l’esperienza drammatica di quelli che non credono in Dio.
Forse, in quest’alba senza luce dell’anno, con sincerità di mente dobbiamo riscoprire, al di là di tutte le sicurezze più o meno motivate, il limite della creaturalità. Nella Bibbia, il libro di Giobbe demolisce le false sicurezze, quelle che oggi sono le false sicurezze della scienza e della tecnica, ma anche quelle della filosofia e della stessa teologia. Le false sicurezze vengono chiamate: “Sentenze di cenere”, “difese di argilla” (Gb.13,12). L’esperienza di quest’uomo saggio e sofferente invita alla coscienza del proprio limite di creatura, a non fare processi a Dio! Il Signore dice anche a noi: “Dov’eri tu, quando io ponevo le fondamenta della terra?” (Gb.38,4). La precarietà della condizione di creatura ci spinge al silenzio della contemplazione, dell’adorazione, che si pone di fronte all’impenetrabilità del mistero con la sofferenza di chi sa di non poter comprendere, ma sa di potersi fidare. Ed è proprio dal fidarsi che la libertà dell’uomo nasce e rinasce, nella determinazione di non abbandonarsi alla disperazione del nichilismo e nell’assumere la responsabilità di vivere il comando del Creatore di trasformare il caos in giardino.
La liturgia di questo giorno ci propone l’atteggiamento dolce e silenzioso di Maria che “da parte sua, serbava tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”. (Lc.2,19). È la proposta della riflessione paziente e prolungata, che permette di scoprire nella nostra storia il filo d’oro dell’amore di Dio, che collega gli avvenimenti nella loro imprevedibilità e contraddittorietà. Luca usa l’imperfetto, “serbava”, per indicare un atteggiamento costante; e lo replica parlando del faticoso procedere di Maria nella fede, quando, dopo 12 anni, giunse il tempo dell’incomprensione con Gesù adolescente, perduto nel viaggio a Gerusalemme e ritrovato nel Tempio: “serbava tutte queste cose nel suo cuore” (Lc.2,51). È come un invito a sottrarsi alla concitazione dell’emotività, che domanda risposte e soluzioni immediate, e rifiuta la fatica di comprendere quanto è più grande della nostra capacità. Un invito a chiedere, nella preghiera, la sapienza necessaria per capire le cose con il cuore di Dio. Sottraiamoci, allora, all’orgia delle notizie, trasmesse in televisione. Alla luce della maternità di Maria potremo passare dal silenzio di adorazione, nella fede oscura e faticosa, alla silenziosa opera di trasformazione della realtà. Potremo vivere l’invito che il Papa ci rivolge nella giornata della pace: “Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male”. (Rm.12,21).
Ci accompagni la parola di Agostino: “È titolo più grande di gloria procurare o mantenere la pace con la pace, non con la guerra” (ep.229,2).
Diciamoci così: “Buon Anno”!
“Maria custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore”
Le parole del vangelo di Luca sembrano indicare la strada dell’interiorità, voler individuare e proporre Maria come la creatura che, nello svolgimento di quanto le accade, vive ogni cosa in profondissimo silenzio. È il suo sentirsi umile creatura. Ad eccezione del momento di incontro con Elisabetta in cui canta con gioia profonda la lode riconoscente al Signore che la ha amata e scelta, tutto è custodito da lei in cuore, “conservato con cura”, come dice letteralmente il verbo greco. Così, negli avvenimenti che si succedono, dalla chiamata dell’annunciazione a quelli della nascita e dei primi riconoscimenti del Bambino, a quelli successivi che la coinvolgono.
“Conservare con cura” la memoria di quanto il Signore ha detto e fatto, nella vita di chi crede è un fondamento essenziale per la fede. Luca pone la memoria nel cuore per indicare, secondo tutta la tradizione biblica, il cuore come centro della persona; non solo il luogo delle emozioni e degli affetti, ma lo scrigno della comprensione intima della realtà e delle decisioni che la persona vive con consapevolezza e responsabilità.
Maria – dice Luca – si lascia penetrare da quello che accade, sorretta dalla memoria che è quella di tutto Israele, perché l’azione di Dio la plasmi gradualmente e la renda collaboratrice, sempre più pienamente. Tutti dovremmo imparare da lei a “conservare con cura” la memoria di quanto nella nostra esistenza personale è segno del Dio che ci ha chiamati alla vita e alla collaborazione per l’opera della pace.
In questo senso va intesa anche la parola “meditandole”, che non può essere ristretta a come abitualmente la intendiamo, riferendola all’aspetto della riflessione mentale, al capire, al giudicare. Il verbo greco indica un significato più efficace, “mettere insieme” gli avvenimenti , nel loro accadere incessante e sconcertante di solennità e di povertà, di grandezza e di umiltà, di attesa gioiosa e di rifiuto persino di un piccolo letto per partorire, di adorazione dei pastori e dei Magi e di persecuzione. Tutto questo, come frammenti di un mosaico, Maria si sforza di comporre in unità, di farli diventare il tutto per cui vivere, anche non riuscendo a comprenderli interamente come annota Luca: “essi non compresero” (Lc,2,50). Il suo silenzio indica perciò il lavorio interiore per essere tutta di Dio: è la fatica della crescita nella fede. Come scrive Agostino: Maria “è grande non tanto per aver partorito, ma per aver creduto”.
Questo “mettere insieme” di Maria è di grande attualità per il travaglio che nel tempo nostro attanaglia frequentemente, forse perché sono venuti meno quei contesti culturali che rassicuravano sul senso dell’esistenza. Ora siamo più autonomi nel pensiero, ma anche più soli. Dobbiamo imparare a comporre i frammenti in unità. Nella lettera “Ai cercatori di Dio” i vescovi italiani hanno scritto: “Si potrebbe dire che il credente è un ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere … si potrebbe pensare che il non credente pensoso nient’altro sia che un credente che ogni giorno vive la lotta inversa” (CEI 2008), che si domanda, cioè, con sofferenza; “perché non credo?”.
Oggi, giornata dedicata alla pace, pensiamo alla “libertà religiosa, via alla pace”. Libertà religiosa non solo nel senso del diritto a credere e nella denuncia di ogni potere che, abusando della dignità umana, vuole impedire la ricerca interiore della verità come se non potesse essere cittadino leale e costruttivo chi ispira la propria vita alla fede in Dio. Ma libertà religiosa anche nel senso che i credenti devono sapere e testimoniare che Dio non parla nel vento, nel fuoco, nel terremoto, ma nella “brezza leggera del silenzio”, come comprese Elia sul monte Oreb (1 Re,19). Perciò è necessario dire “no” al fondamentalismo intollerante e al trionfalismo invadente, che sono forme di indolenza e comodità nostalgica. E dire “sì” al mettersi accanto alle donne e agli uomini che hanno rinunciato a lottare spiritualmente, contagiandoli con la propria esperienza di Dio, custodita nonostante la non evidenza dell’amore, sperando anche contro ogni speranza.
La pace, frutto della libertà religiosa, nasce dall’umile decisone di camminare insieme nella fatica della ricerca della verità, passo dopo passo, guardando a Maria che cresce fino alla maternità universale “conservando con cura” e “mettendo insieme” il cammino fatto e quello da fare.
“Davanti a Te, Signore, sta la mia scienza e la mia ignoranza;
dove mi hai aperto, accogli il mio entrare;
dove mi hai chiuso, aprimi quando busso.
Fà che mi ricordi di Te, che intenda Te, che ami Te”
(Agostino, “De Trinitate”,15,28)
Così possiamo augurarci reciprocamente: “Il Signore rivolga su di noi il suo volto e ci dia pace”
“Fraternità, fondamento e via per la pace”
È il titolo suggerito dal Papa per la celebrazione di preghiera e di riflessione nel primo giorno dell’anno nuovo, come segno e testimonianza a tutta l’umanità della tensione costante della Chiesa per il bene prezioso della pace.
La redenzione operata da Dio nell’incarnazione del Figlio in Gesù, spiana la strada perché libera i cuori dalla paura, dal sospetto, dall’istinto di fuggire, di sottrarsi al bisogno dell’aiuto dell’altro; e nello steso tempo impegna nel rispetto, nella valorizzazione, nella promozione dell’altro. La logica di Caino: “Sono forse io il custode di mio fratello?” (Gen.4,9), si ibera dalla responsabilità. Quella di Gesù, che si lascia chiamare “fratello” dagli uomini, carica la relazione di premura fraterna e concreta.
Il Signore viene incontro con il suo aiuto alle esigenze della fraternità.
Lo fa con la sua Parola che è luce e forza di unione, di ricerca comune, di convergenza, come un vero sacramento di verità e di pace, un sacramento che dona tutta la santità di Dio, perché la Parola è Gesù stesso. Perciò la fraternità nasce dal rapporto verticale con Gesù, nella preghiera personale e comunitaria, in modo particolarissimo nell’Eucarestia, che è la ripetizione efficace di quello che Gesù ha fatto e rigenera le relazioni, nell’amore fraterno. Questa comunione con Cristo nella Parola e nell’Eucarestia fa nascere la dimensione orizzontale della pace che, fin dai primissimi tempi cristiani, caratterizza la vita delle comunità che vivono il Vangelo (Atti 2).
Scrive san Leone il grande: “La pace genera i figli di Dio, nutre l’amore, cerca l’unione; essa è riposo dei beati, dimora dell’eternità. Suo proprio compito e suo beneficio particolare è di unire a Dio coloro che separa dal mondo del male” (Discorso 6 per Natale).
Comunione nel Signore è stare insieme, è porre la propria persona accanto ad altre, è mettere a disposizione, donare agli altri riconosciuti come fratelli, condividere i beni materiali e quelli della cultura, della competenza, la propria storia e le proprie esperienze, correggendo se stessi e vivendo il perdono nella fiducia reciproca, aiutando l’altro nei suoi limiti. L’amore, diverso dal sentimentalismo e dalla sola chiarezza intellettuale, è il centro del più grande comandamento nel rapporto con Dio e con il prossimo, e per questo è il fondamento e la via per la pace. Questa fraternità che deriva dal dono di Cristo ed è esperienza della comunità lungo il corso della sua storia, accompagna i nostri giorni perché sta nella radice stessa del cristianesimo e conserva tutta la sua attualità nel saluto di papa Francesco dopo la sua elezione: “Fratelli e sorelle”. E, nella messa di insediamento, il 19 marzo, ricordando il San Giuseppe custode di Maria e di Gesù, diceva:
“È una custodia che si estende poi alla Chiesa. La sua custodia mette in luce la vocazione dei cristiani
a custodire prima di tutto Cristo nella loro vita, per custodire gli altri e l’intero creato.
Non solo, perché la vocazione a custodire l’intero creato precede l’adesione alla fede, riguarda tutti, è il custodire la gente, l’aver cura di tutti, di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore.”
”Siate custodi dei doni di Dio”.
La custodia così descritta, come vocazione universale umana, è proprio la fraternità, quella che Caino rifiutò quando negò di essere “custode” di suo fratello e che, invece, caratterizza le relazioni autenticamente umane, ai diversi livelli.
Facciamo nostre, come augurio di pace e di bene, le parole di Francesco alle famiglie:
“Quando in una famiglia non si è invadenti e si chiede “permesso”,
quando in una famiglia non si è egoisti e si impara a dire “grazie”,
quando in una famiglia uno si accorge di aver fatto una cosa brutta e sa chiedere “scusa”,
in quella famiglia c’è pace e c’è gioia.
Ricordiamo queste tre parole: permesso, grazie, scusa”
Possono essere le parole semplici della vita fraterna.
Auguriamoci di poter vivere l’anno che inizia come “operatori della pace”.