ASCENSIONE DEL SIGNORE – Anno A
(At 1,1-11; Sal.46; Ef 1,17-23; Mt 28,16-20)
“Fu elevato in alto sotto i loro occhi
e una nube lo sottrasse ai loro sguardi”
(At.1,9)
Nella sobrietà delle parole, Luca annuncia la realtà della pienezza di vita del Risorto e si rende attento alla debolezza di fede dei discepoli, come sempre portati ad interpretare gli avvenimenti di cui sono partecipi come occasione per la ricostituzione di sogni svaniti o la ripresa di progetti non realizzati.
Gesù li rimprovera: “Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti”. Il tempo e l’esito della storia sono nelle mani di Dio, che li conduce a compimento, come appare alla loro esperienza diretta della vicenda di lui, Gesù, non sconfitto dalla morte, ma “elevato in alto”. L’Ascensione è il porsi di Cristo a principio di senso per l’umanità, a battistrada per ognuno che incroci il suo cammino.
Dirà Agostino, nell’Ascensione del 396, a Cartagine:
“Attraverso l’umanità di Cristo puoi arrivare alla divinità di Cristo. Dio è troppo lontano da te, ma Dio si è fatto uomo. Colui che era lontano da te, assumendo l’umanità si è fatto vicino a te. È insieme Dio e uomo: Dio in cui rimanere, uomo per il quale andare. Cristo è insieme la tua strada e la tua meta” (Sermo 261,7).
Radicati in questa certezza, i discepoli dovranno raccogliere l’invito:
“Mi sarete testimoni … fino agli estremi confini della terra”
È il capovolgimento della mentalità precedente. Non sono i popoli che arrivano a Gerusalemme, ma sono i discepoli ad essere inviati verso i popoli. E non ci sono confini, luoghi vietati, popoli, o uomini ai quali il Signore non debba essere annunciato e testimoniato. L’invito viene ribadito davanti alla suggestione di rimanere nell’atteggiamento del guardare in alto.
I discepoli, i primi, i lettori di Luca, ansiosi del ritorno del Signore e preoccupati del suo apparente ritardo, noi così frequentemente affascinati dalla suggestione di una religiosità vaporosa e dolciastra, siamo invitati a guardare a terra, tra la gente. Il compimento del tempo fino all’incontro con il Signore non va vissuto separandosi o restando chiusi in anguste comunità di elezione, ma nel mondo.
Allora si può comprendere la parola che il Risorto dice in Galilea all’appuntamento che aveva dato ai “suoi”, prima attraverso l’angelo (Mt.28,7), poi direttamente (Mt.28,10):
“Mi è stato dato ogni potere … andate dunque ed ammaestrate tutte le nazioni”.
È l’incarico di proporre a tutta l’umanità la sua via: “tutto ciò che vi ho comandato”.
Il discepolo deve annunciare con assoluta fedeltà, non in nome proprio, non pensieri propri, la via di Cristo, che significa l’uscire da sé, il condividere nella compassione, il darsi senza calcoli.
È un nuovo programma di vita:
richiede ascolto nei confronti di Colui che si impegna in prima persona:
“Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”
e richiede di andare: partenza, perciò tensione ad uscire verso l’altro che è sempre uno che è nel cuore di Dio, un “amato da lui”;
e richiede ancora di insegnare, non nel senso puramente dottrinale o ideologico, ma nel senso di aiutare ad entrare nell’esperienza di una relazione personale; una relazione forte di amore e di fiducia, che permette lo svelamento di quella presenza ed il legarsi alla persona del Signore, fino a condividerne la vita.
“Fu elevato in alto sotto i loro occhi”
Gesù aveva detto: “Quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me”
(Gv.12,32)
Croce e ascensione sono i due aspetti dello stesso mistero: la vita totalmente spesa e la vita totalmente fiorita.
Così Gesù appare “il più bello tra i figli dell’uomo” (Sal.45,3), il salvatore del mondo, il modello di ognuno che voglia seguirlo.
domenica 4 maggio 2008
Come in tutta la Scrittura, in Matteo il monte è il luogo dell’incontro con Dio. Dal monte della Galilea egli presenta Gesù come luce che si espande dovunque era passato e si protende verso tutta la terra, ad ogni spazio e ad ogni tempo. Perciò, nel momento della sua sparizione fisica, la missione passa ai suoi che saranno gli annunciatori della compassione di Dio.
Ne deriva una conseguenza per la Chiesa. Chi ha accolto Cristo e vuole seguirlo, è tenuto a comunicare la propria esperienza ad altri, guardandoli come destinatari, nelle modalità più diverse, della loro stessa esperienza. Così il vangelo fermenterà il mondo, come per un contagio benefico, una proliferazione a catena. Il riferimento alla Trinità sarà la regola costante, la “norma” della evangelizzazione. Come il Padre è l’Amante, il Figlio l’Amato, lo Spirito l’Amore che resta, così la comunità sarà l’Amante, il mondo l’Amato, l’unità l’Amore che resta nella Chiesa perché sia rivelazione dell’amore che è Dio. Gesù assicura i suoi sul suo restare, non per prendere il loro posto, sostituendosi alla loro responsabilità, ma sostenendoli. La sua realtà non è il mondo dei morti, ma dei viventi, una realtà che gli consente di essere interpellato ed ascoltato. I suoi non dovranno ritenerlo un protagonista del passato, ma un vivente che segue la sua opera, guidandone il cammino nella storia, pur essendo nella gloria:
“Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”.
Finisce, in questo modo, il tempo degli incontri visibili, della voce chiara e forte nel chiamare, nell’insegnare, nello spronare. L’Ascensione è l’annuncio e l’inizio di una presenza diversa, che non è lontananza, ma penetrazione di tutta la realtà del cosmo, una spinta in avanti e in profondità, come dice s. Paolo “per il perfetto compimento di tutte le cose” (Ef.1,23). Anche nei momenti in cui proviamo una sofferenza aspra perchè non riusciamo a raggiungere l’armonia, il Cristo che introduce l’umanità in Dio, mette in ogni cosa la sete del superamento delle limitazioni dell’individualità, del tempo, del luogo, per puntare a sfociare nello spazio dell’unità, dell’assoluto, dell’Amore che resta. Egli continua a ricordare e a far parlare l’ordinarsi della natura, dalla forza di coesione degli atomi, alla aspirazione universale alla pace. Come ha detto Theillard de Chardin: “Il divino traspare dal fondo di ogni essere”. Farlo trasparire è una responsabilità cui siamo chiamati tutti, ma che oggi nella nostra città ha una particolare urgenza.
Ma occorre quella fede che permette il legame stretto fra chi è arrivato e chi è in cammino, chi ha compiuto e chi deve compiere. E Matteo lo fa, alla fine del suo vangelo, proponendo il Signore come punto di riferimento, di confronto, di unità. Ricorda alla Chiesa che non è un’organizzazione, ma un organismo che nasce dalla relazione personale e vitale con Cristo e dalle relazioni interpersonali dei credenti. Diventa tensione verso l’umanità per donare il dono che si è ricevuto.
“Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo,
verrà allo stesso modo in cui lo avete visto andare in cielo”
La comunità umana che nasce dall’accoglienza di questo annuncio non ha nulla di speciale, non è misurabile e definibile con esattezza, non si costruisce una volta per tutte, non sempre è solida. Ma se la fede nel Risorto da origine a quei rapporti improntati al vangelo, fatti di amore, di speranza, di perdono, di reciprocità, tutto questo forma un organismo vero e coinvolgente. Da gesti di amicizia e affetto verso fratelli e sorelle, nascono gesti di amicizia e affetto di ritorno, in quella reciprocità che è sorgente di gioia. Appunto, l’Amante, l’Amato, l’Amore che resta. Questo è il regno che l’umanità viva in Dio inaugura: non separazione boriosa nel ghetto religioso, ma un’umanità altra che è “giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo” (Rom.14,17).
Chiediamo nella preghiera la grazia di vivere così, senza lasciare che amarezza, tristezza, pessimismo soffochino questa gioia di fondo. Senza gioia non c’è cristianesimo, non c’è legame vero tra le persone, non c’è futuro. Questa gioia dell’Ascensione, che la gente antica del lavoro nei campi manifestava con le rose sugli altari e con le fragole sulla mensa, è il dono dei cristiani all’umanità di oggi.
La notte della fede, tipica del nostro tempo e dell’occidente, avvolge come una cappa nera quanto la fede propone sulla realtà del dopo la morte. Spesso anche i cristiani appaiono titubanti, anche quando l’impegno nel presente li vede generosi e pronti al sacrificio, come se la “terrenità” fosse la nostra unica possibilità di vivere in pienezza.
Oggi Gesù ci apre uno squarcio nell’oltre di Dio: chiediamo per noi e per l’umanità la certezza che da gioia.
Per comprendere il significato che ha avuto per i primi cristiani l’evento dell’Ascensione, ascoltiamo le parole che l’apostolo Paolo scrive alla comunità di Efeso, negli anni fra il 70 e l’ 80: ”Avendo avuto notizia della vostra fede nel Signore e dell’amore verso tutti i santi, continuamente rendo grazie per voi, ricordandovi nelle mie preghiere” (sono le parole che precedono il testo liturgico odierno, vv.15-16 del primo capitolo della lettera agli Efesini). Paolo ringrazia il Signore per la stabilità della fede, “nel Signore”, e la concretezza dell’amore verso i fratelli nella fede, “i santi”. Questa vita della comunità lo induce alla preghiera di intercessione; Egli si rivolge al soggetto del dono, “il Dio di Gesù Cristo”, con l’appellativo di “Padre” e domanda un’ulteriore presenza dello Spirito perché quelli che ha già arricchito con il dono della fede e della carità ricevano ancora una luce nel cuore tanto forte da poter essere confermati nella speranza e nella certezza dell’eredità della gloria, resa vicina dalla potenza del suo amore che si è rivelata nella glorificazione di Gesù.
L’oggetto della preghiera è “la profonda conoscenza di lui”, di Dio alla cui paternità i cristiani sono stati chiamati con il Battesimo. L‘espressione “gli occhi del cuore” è indicazione di quanto questa conoscenza non si esaurisca nella sola dimensione conoscitiva, ma significhi comprensione stabile, profonda, visibile nella vita concreta. San Paolo chiede per i cristiani che al dono dello Spirito si aggiunga quello degli “occhi del cuore”, la capacità di discernere i doni che alimentano la speranza, così importante da essere identificata con la fede in Cristo: non una virtù soggettiva che nasce nel cuore, ma oggettiva che ”spera Dio” stesso. “La gloriosa eredità tra i santi”, la vita per sempre nell’unità con tutti gli eletti del Regno. L’eredità cristiana già inaugurata con lo Spirito nel Battesimo, è destinata a fiorire pienamente nella gloria oltre la fine di questa vita. Questo opera “la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi”. È la straordinaria grandezza della possibilità dell’amore di Dio che colma la distanza della impossibilità della condizione creaturale. San Paolo insiste sui sinonimi che manifestano “la straordinaria grandezza”: potenza come capacità di intervento, energia come efficacia, vigore come amore che non si ferma di fronte agli ostacoli… Questa manifestazione è avvenuta nella glorificazione di Cristo che perciò è rivelazione dell’amore di Dio “verso di noi che crediamo”. Paolo prega perché i cristiani abbiano questa conoscenza profonda e dice il suo dolore per il fatto che “alcuni abbiano ignoranza di Dio” (1Cor.11,34). Ci dice che il Dio dei cristiani non si conosce pienamente finché non si è certi della sua capacità di far risorgere i suoi figli come ha fatto già con Cristo. Aveva scritto il libro della Sapienza: “Conoscere la tua potenza è radice di immortalità” (Sap.15,3). La vocazione cristiana è essere la proprietà di Dio che Cristo porterà con sé nell’eternità.
Come avanti alla porta che gli si è spalancata, con attenzione personale del Signore, sulla via di Damasco, Paolo comunica con le parole più concrete la grandezza di Lui, per opera del Padre che “gli ha messo sotto i piedi tutto”. Credere nel Risorto significa credere in Dio che lo ha resuscitato e ha fatto di Lui l’inizio di un’era nuova in cui tutta l’umanità è coinvolta: l’evento pasquale è accaduto “per noi”!
Oggi viviamo la gioia di poter crescere nella conoscenza ed entrare nella preghiera di Paolo con gratitudine. La gloria di Cristo è superamento della morte perché solo chi ha la vita, il vivente, ha potere su di essa. Cristo risorto è “asceso”, cioè è “alla destra di Dio nei cieli”, una condizione di parità divina, per cui ogni fede in Dio passa, anche inconsapevolmente, per Gesù ed approda in lui. “È al di sopra”: è la sua superiorità su ogni possibile realtà che si presenta presuntuosamente come ostacolo tra il credente e Lui – a livello di potenze politiche deificate, di strutture, di leggi, di istituzioni, della stessa natura, della società, della storia. Il cristiano che guarda il Risorto sa di non potersi asservire a nulla e a nessuno, sa che niente può pretendere di dominarlo. Come “capo su tutte le cose” il Padre “lo ha dato alla Chiesa”. La Chiesa da una parte sa di non poter identificare il Cristo con i propri confini, né vantarsi di Lui come proprio patrimonio esclusivo, perché Cristo è più grande della Chiesa. Dall’altra parte deve sentirsi responsabile perché il dono che le è stato dato è per l’umanità.
Impariamo l’unità indissolubile con Cristo, nella sottomissione senza riserve a Lui come capo e guida, l’appartenenza affettuosa come quella di una sposa, il discernimento della realtà con gli “occhi del cuore”, la manifestazione visibile di Lui perché si veda “dove Cristo prende corpo sulla terra”, senza isterilirsi e morire nello smarrimento. Fino alla “pienezza di Lui, che è il compimento di tutte le cose”. Così la fede vive nel Signore glorificato che ci accompagna mentre ci distoglie dalle malinconie e ci rimanda alla storia.