IV DOMENICA DI PASQUA – Anno A
(At 2,14.36-41; Sal.22; 1Pt 2,20-25; Gv 10,1-10)
“Egli chiama le pecore una per una e le conduce fuori …
e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce” (Gv.10,3b.4b)
Riflettiamo su queste due righe, che ora abbiamo ascoltato. L’immagine del pastore ci invita a riflettere sulla fede, come relazione personale tra un “io” e un “tu”. Nelle domeniche precedenti nelle sue apparizioni il Risorto si è rivelato come colui che conosce i “suoi” nell’intimo della loro vicenda personale. Il suo atteggiamento verso Maria di Magdala, verso gli Undici e poi verso Tommaso, verso i due sulla via di Emmaus è sempre diverso, attento alla storia di ciascuno. Egli ha un modo di parlare con Maria, che aveva drammaticamente vissuto il disordine della propria esistenza, ne ha uno diverso, insieme austero e tenero con Tommaso. Altro è il discorso paziente con i due di Emmaus, volto a donare la luce del Vangelo al loro scetticismo, fino allo svelamento dell’Eucarestia. Il Risorto ha un amore personale per ciascuno, e, nella sua invisibilità, manterrà fede alla sua promessa restando con noi “tutti i giorni fino alla fine del mondo”(Mt.28,20). Anche da Risorto Gesù non risparmia la sua vita, perché il suo vivere nell’eternità non è solitudine nei confronti dell’uomo, ma egli continua a farsi nostro maestro: il suo farsi vicino è svelamento dell’identità personale di ciascuno, è scoperta che, incontrandolo, ognuno fa del valore personale e irripetibile di se stesso.
“Egli chiama…”,
chiama per nome: sua è l’iniziativa, suo è il segreto di ogni vita. Così ogni creatura può uscire dall’anonimato, cui viene condannata dalla macchina stritolante dell’omologazione, che ha la sua regola nel conformismo – presente anche nella Chiesa – e può entrare con gioia nella scoperta di avere un nome, di essere amata per se stessa e chiamata individualmente. La fede è scoperta, stupita e grata, di questo “Io” che precede, di questo “prima” di ogni vicenda, positiva o negativa, che permette l’uscita dalla paura, dall’ossessione dei confronti, dalla preoccupazione delle diversità. Nel cuore del Signore ogni persona vale più dei suoi comportamenti: egli ha un disegno di amore su Maria, su Pietro … La scoperta dell’amore di Dio è scoperta della vocazione più profonda di ogni uomo, quella di vivere in reciprocità di relazione con questo “Io” che chiama per nome e che, come dice Agostino, “è più intimo a me di me stesso”.
Da questa gioiosa scoperta nasce l’invito a lasciarsi illuminare dall’amore che precede ed abbraccia tutto, ad abbandonarsi ad esso con docilità. In Giovanni Paolo II l’affidamento è stato sempre importantissimo ed egli costantemente ripeteva: “Io mi affido a lui”. Ma a volte gli eventi della vita conducono al dubbio, allo scetticismo, l’opinione corrente tende a farci concepire Dio come un’entità astratta e ci chiediamo come sia possibile che egli possa pensare alla mia persona, alla mia piccola vicenda. Un Padre che si prende cura di ogni uomo non è verità che si può dedurre dalla pura razionalità, ma può venirci solo dalla fede nella Parola di Gesù che ci invita a riscoprirlo: “In verità, in verità vi dico…”.
“E le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce”.
Il secondo invito è alla risposta personale, intima, non delegabile, ad entrare nell’avventura della reciprocità. Potremmo essere spinti dall’abitudine, dall’educazione ricevuta, a delegare alla comunità una risposta che può partire solo dall’intimo del nostro cuore. La coscienza dolorosa dell’inadeguatezza personale – soggettiva – dell’insensibilità diffusa – oggettiva – che si fa strada nei cuori più attenti, fa sì che appaia condiviso il grido di Francesco di Assisi: “L’amore non è amato”, ma che insieme fiorisca la scoperta di poter ricevere l’amore, come vertice della chiamata alla fede, quella scoperta che Teresa di Lisieux esprimeva scrivendo: “Ho capito … nel cuore dell’umanità io sarò l’amore!”.
Il primo luogo della reciprocità non è il fare, il darsi da fare, non è neppure, in prima istanza, la ritualità o l’organizzazione della Chiesa. È il santuario dell’interiorità personale il luogo dove si sperimentano e si celebrano l’essere conosciuti e il conoscere. Solo nel mio cuore scopro l’essere chiamato e il rispondere. La fede comincia quando dico a me stesso che sono amato e posso riamare.
Conoscere
Le pecore conoscono la voce del Pastore. Nella Scrittura, e in particolare nel Vangelo di Giovanni, “conoscere” è parola che dice comunione di pensiero e di vita quasi coniugale. Nella Genesi coinvolge la fisicità: “Adamo conobbe Eva sua moglie, la quale concepì e partorì Caino.” (Gen4,1). È una comunione che non separa anima e corpo, spirito e materia. Nella sua prima lettera, che abbiamo ora ascoltato, Pietro parla della nostra comunione con Dio, come di una vocazione: “Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme”.
Il cammino della fede è mettere i nostri piedi dove li ha messi Gesù.
Oggi domandiamo al Signore la gioia di poter concepire la vita nella fede, la relazione con lui, come un vero cammino di imitazione, di somiglianza, di condivisione di intenzioni, di gratuità, senza divisioni nel cuore, ricordando il monito di Agostino, che giunge a considerare “adultero” il cuore diviso:
“Non è adultero il tuo cuore?
Nella chiesa non cerchi i tuoi interessi, ma i miei?
Se tu tale sei, e mi ami, pasci le mie pecore”(Discorso 137,9)
Chiediamo al Signore di avere un cuore senza divisioni!
Per antica tradizione la liturgia della quarta domenica di Pasqua è ogni anno dedicata non ad apparizioni del Risorto, ma alla contemplazione di Cristo “buon pastore” ed alle conseguenze che ne derivano per la vita della Chiesa in quello che si chiama tradizionalmente “servizio pastorale”, che riguarda tutti i battezzati, pur nella distinzione dei compiti. Il quarto vangelo vi dedica 21 versetti del capitolo 10, di cui oggi leggiamo i primi dieci, ma sarebbe bene leggerli tutti, meditandoli durante la settimana, perché le nostre menti possano essere più intensamente coinvolte.
Gesù parla di sé, in modo intenso e rivela la sua vita: Egli è pastore perché conosce intimamente le sue pecore. Conoscere nella Bibbia è essere in comunione con l’altro, è quella intimità senza riserve, propria del rapporto coniugale: Adamo “conobbe” Eva e nacque Caino, nacque Abele. L’Antico Testamento aveva annunciato questa conoscenza intima che Dio ha del suo popolo, come tutti sappiamo anche dal salmo 23 o dalla pagina di Ezechiele sui pastori. Dal momento che tutta la vita e l’attività di Gesù è modellata su quello che il Padre è e fa, è logica l’affermazione di quello che Egli vive verso i suoi seguaci:
“Egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome e le conduce fuori”.
Ogni pecora riconosce il nome con cui è chiamata e risponde subito a chi la chiama per nome. E, una volta chiamate per nome, le pecore si radunano, escono dal recinto, seguono la voce del Pastore ed egli rivela che nel suo cuore c’è tutta l’umanità:
Ho anche altre pecore che non sono di questo ovile.
Anche queste io devo condurre ed esse ascolteranno la mia voce.
Allora ci sarà un solo gregge e un solo pastore”.
È impossibile per chi ascolta questo insegnamento sul cuore del Pastore conservare chiusure nel proprio cuore. Esso è lo svelamento di un desiderio eterno, che appare correlato con il momento della creazione, in cui Dio plasmò l’uomo a propria “immagine e somiglianza”: il sogno di Dio è portare gli uomini alla conoscenza-comunione nell’unione reciproca, alla luce della reciprocità divina nella Trinità e, attraverso di essa, vivere la vita stessa di Dio. È un progetto arduo, ma possibile, è quello che verrà domandato da Gesù al Padre, nella grande preghiera dopo l’Ultima Cena:
…che tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me ed io in te,
siano anch’essi in noi una cosa sola…” (Gv.17,21)
L’aspetto specifico della descrizione del pastore è la sua disposizione a morire per le pecore. È una novità rispetto all’Antico Testamento, ma è il comando del Padre, il segno della sintonia con Lui, del legame di amore che implica l’amore e la morte obbediente – come dirà Gesù stesso a conclusione del suo discorso (Gv.10,18). Coloro che seguono il pastore devono anche accettare il comando del Padre e fare in modo che lo si veda vissuto fino alla misura della disponibilità a darsi la vita, gli uni per gli altri, reciprocamente, al di là delle proprie debolezze, ovunque siano chiamati a vivere, nella famiglia, nel lavoro, nella società.
Non è un annuncio astratto, dunque Cristo pastore:
– conosce e chiama ciascuno per nome, è dentro la mia interiorità, è “più intimo a me di me stesso”, come dice Agostino, custodisce la mia verità, la pienezza della vita. Ne segue la dimensione personalissima della vita di fede, con le conseguenze che ne derivano per le scelte di coscienza e per gli orientamenti della vita. Non si tratta di rifugiarsi nell’individualismo, ma di dare valore prioritario alla voce di Cristo, che parla all’interno della coscienza, luogo sacro dell’incontro con Dio, così come nel secolo scorso è stato compreso dalla scuola del “personalismo”, da Maritain a Paolo VI, ed è stato confermato dal Concilio Vaticano II. La Chiesa nasce non per aggregazione umana o per motivi socio-culturali, ma per il confluire nell’unità della moltitudine dei credenti, chiamati ciascuno in maniera personalissima, con il proprio nome. È a questo livello che occorre capire e riscoprire la vita interiore e saperla privilegiare su tutti i conformismi, su tutte le voci che il mondo vorrebbe imporre.
– Così si può capire il “condurre fuori”. Gesù non è il pastore dei recinti, ma degli spazi aperti, non ha paura di proporre con fiducia nell’uomo e con l’iniziativa che il testo sottolinea dicendo “cammina avanti”, non alle spalle per controllare, ma come chi va con decisione e pace incontro al futuro, senza essere impastoiato dai rimpianti.
– Seguirlo, ascoltando la voce, è conseguenza del sentirsi amati da lui personalmente, sapendo che Egli è capace di fermarsi, per attenderci nei nostri ritardi, e anche di tornare indietro per i momenti paralizzanti che impediscono di rialzarci, pronto a portare sulle proprie spalle le nostre povere persone, frustrate dai fallimenti – tante volte raffigurato nelle catacombe – per far festa in casa con i fratelli che gli hanno creduto, come dice il vangelo di Luca, al capitolo 15, nella parabola della pecora smarrita.
– Ed è avvertire l’esigenza e l’urgenza di credenti disposti ad uniformare la propria vita alla sua, condividendone lo stile. In Brasile ho visto comunità cristiane che non possono celebrare l’Eucarestia, per mancanza di sacerdoti. La scelta di essere pastori fra gli uomini “perché abbiano la vita in abbondanza” – quella vita non frutto di ideologia, ma dono dall’alto, da essi stessi sperimentato con gioia e gratitudine – è il cuore della preghiera di questa domenica. La povertà dei sacerdoti, infatti, sia qualitativa, sia anche numerica, ritarda il cammino della parola del vangelo ed affievolisce la certezza della presenza viva del Risorto in mezzo ai suoi.
Rendiamocene conto e sentiamone la responsabilità almeno nella preghiera.
Il tema del pastore è molto presente nella Scrittura come promessa di Dio, custodita ed implorata nella preghiera dei salmi, e rinnovata dai profeti. Questi dicono che l’infedeltà dei capi equivale a l’essere cattivi pastori che non si interessano del gregge loro affidato, e per assicurare che la promessa, tante volte contraddetta dagli eventi storici duri come la deportazione, sarà attuata perché Dio stesso si farà pastore del popolo (cfr. Isaia, Geremia, Ezechiele).
Il doppio “amen” di Gesù, in questo brano del vangelo di Giovanni che oggi abbiamo ascoltato, lega la sua persona al compimento della promessa custodita dalla tradizione ebraica.
Vi sono due modi per entrare nel recinto, o per far del bene alle pecore, oppure per trarre interesse da loro. Gesù rivendica a sé il primo modo, in radicale diversità dall’atteggiamento di quanti strumentalizzano il gregge–popolo per i propri interessi. Dice che la loro persona, la voce imperiosa e il rapporto violento non è riconosciuta dalle pecore che la avvertono come priva di premura, a differenza della voce del pastore buono, che chiama ciascuna per nome, suscitando la fiducia e la prontezza all’invito.
Fuori della similitudine, il lettore è portato a capire che Gesù è maestro di relazioni sane e feconde di bene, con il premettere l’amore alla parola. Si tratta di amore concreto e motivato. Il pastore è disposto ad offrire la propria vita perché le pecore abbiano la vita in abbondanza. Questa misura alta del dono di sé non ha paragoni nei testi ebraici, che pure parlano di un pastore secondo il cuore di Dio, ma non sanno immaginare questa modalità, il dare la vita. È un modo che appartiene solo a Gesù e perciò differisce da ogni altro modo.
Tutto il brano, che andrebbe letto per intero fino al versetto 21, è ritmato da due verbi, “conoscere” e “dare la vita”. Qui, in questi due verbi vissuti concretamene, si rivela il Padre che ha comandato al Figlio di condividere la vita umana, perché la sua vita sia condivisa dall’uomo. Questa unicità fa di Gesù il rivelatore di Dio nella concretezza: “conoscere” e “dare la vita” richiamano al rapporto discepolo-maestro, non possono esaurirsi nell’adesione e verità intellettuali, ma puntano ad una relazione personalissima, che permette al Maestro di essere presente nei discepoli e a questi di essere continuità di Lui,come un Cristo dispiegato nei secoli. È quello che Pietro, nella seconda lettura, ci consegna come esortazione all’impegno cristiano.
Si può comprendere perché, oltre l’allegoria del pastore, che pure è tanto significativa, Gesù propone se stesso come “la porta”. La porta non è detta come immagine di costrizione, anzi è proposta come invito ad una più grande libertà, come dicono le espressioni: “entrerà e uscirà” e “troverà pascolo”. Seguire Gesù significa saper discernere la sua voce, riconoscerla e perciò fidarsi, decidersi per lui, come uno che fa liberamente la propria scelta di campo, anche a costo di dover affrontare incomprensioni e solitudini, ma basandosi sui due pilastri dell’ascolto della Parola e della donazione della vita.
Il discorso di Pietro nel giorno della Pentecoste è l’annuncio di un Dio che si rivela nel Crocifisso Risorto. È annuncio del dono di Dio che si manifesta e della responsabilità umana della risposta nei confronti di questo annuncio di grazia. Perciò si parla di “trafittura del cuore”: infatti l’impegno responsabile della risposta fa avvertire la necessità di un cambiamento, di una trasformazione dovunque l’uomo redento si trova a vivere, da solo o con i fratelli di fede.
Battesimo nel nome di Gesù è adesione alla sua persona, appartenenza a Lui, chiamato “Signore e Cristo”, consegnarsi a Lui. Battesimo è l’atto fondamentale della comunità cristiana, niente a che vedere con l’aggregazione ad un’associazione anagrafica, ideologica, culturale o filantropica. Non è separabile dalla novità di vita che si manifesta al mondo come vita donata, per la forza del rapporto con i Maestro, perché egli sappia dove poggiare le mani per l’annuncio del Vangelo.