V DOMENICA DI PASQUA – Anno A
(At 6,1-7; Sal.32; 1Pt 2,4-9; Gv 14,1-12)
“Non sia turbato il vostro cuore” Gesù ha conosciuto il turbamento: lo ha provato alla tomba di Lazzaro (Gv.11), lo ha sentito fortemente nell’imminenza della passione (Gv.12). Ora lo avverte nel silenzio sgomento dei “suoi”, nelle ore che scorrono tragiche e rapide nella notte del giovedì, dopo la cena. I discepoli sono coinvolti e sovrastati da qualcosa che è più grande di loro, come un prevalere della potenza del male, una vittoria del “principe del mondo”. “Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” L’invito è a uscire dalle paure profonde che attanagliano il cuore con la loro oscurità: la previsione della sofferenza, l’incertezza del futuro, l’ineluttabilità della morte … Ai discepoli è domandato di porre la radice della fiducia “in Dio” e in quel Gesù di cui hanno conosciuto le parole, i gesti, i sentimenti di un amore, che non si ferma davanti ai limiti. Quelle radici non dovranno perciò cercare la linfa della fiducia soltanto nella plausibilità dell’orizzonte immanente, terreno, ma nell’oltre del credere a Dio come Padre per sempre, fidandosi della parola di lui, Gesù, che ce lo rivela. “La casa del Padre mio” Gesù invita a guardare la vicenda storica, personale e collettiva, da questo punto luce che è la “casa”, il luogo dove Dio abita, la sua stessa vita, che è proposta come casa dell’umanità, casa definitiva, per sempre. Ma Gesù non sembra parlare solo del futuro. Una variante del testo di Giovanni preferisce leggere: “nella casa col Padre mio”. Questa casa è dovunque i discepoli vivono con il Padre, come Gesù. La loro relazione fraterna che attua concretamente la paternità di Dio nell’esistenza umana, è la casa del Padre. Essi stessi sono la casa, in cui il Padre vuole abitare, e devono essi stessi abitare, in vista della definitività. Di fronte alla complessità che opprime il cuore e toglie luce all’intelligenza, che spinge a dubitare della propria identità, i discepoli dovranno ricordarsi delle parole di Agostino: “egli prepara la dimora preparando coloro che dovranno abitarvi” (in Jo.,88,2) e dovranno rispondere alla domanda di identità, dicendo: “noi siamo cittadini del cielo, prestati alla terra e alla storia”. “Chi vede me, vede il Padre” Nella richiesta di Filippo: “Signore mostraci il Padre…” è presente la suggestione del meraviglioso, che ci appare necessario cercare, per essere rassicurati. Dobbiamo uscirne per poter entrare nell’accoglienza concreta dell’esistenza di Gesù, perché nella visibilità del Figlio l’invisibilità di Dio si è resa accessibile. Perciò l’urgenza dell’ascolto della sua Parola, la sintonia con il suo pensiero. Perciò il comandamento suo dell’amore scambievole. Qui è la via! “La casa del Padre mio!” “La casa col Padre mio” Destino definitivo e reciprocità nel presente. Ne derivano conseguenze di grande importanza. La prima preoccupazione per la presenza cristiana nella società non dovrà essere quella di vincere battaglie ideologiche o di determinare regole di comportamento con la intolleranza o con la forza della legge, ma quella di pensare con il Signore, abitando nella sua casa e di offrire questo pensiero nella relazione umana. Pensiero di fiducia. Quanto è costringente, quanto alimenta la paura, il giudicare la realtà con la sola misura della razionalità e con la parzialità scientifica, quanto è disperante non varcare la loro soglia. Penso alla giovane mamma di due figli che, per questa fiducia in un oltre che non appare razionale, sta portando avanti e sta concludendo una gravidanza che si è presentata razionalmente impossibile per la presenza di una neoplasia in contemporaneità. Come credenti siamo chiamati a sperimentare la verità di un oltre che sorge solo se ci si fida di Dio che abita con noi, con cui noi abitiamo. E siamo chiamati a donare all’umanità il frutto di questa esperienza. Domandiamolo per l’oggi di ciascuno e di tutti!
Dai colloqui dopo l’ultima cena, che Giovanni riporta lungamente, è tratto il brano della liturgia. Il contesto della separazione imminente lo rende carico di affetto, ma non è solo la consolazione il contenuto, quanto il rapporto con Dio: come raggiungerlo, come vederlo… Per cogliere la profondità della pagina, meditiamone due aspetti: – La partenza del Signore è vista come evento positivo. Gesù parte per fare ritorno al Padre, che è presentato come colui che, nella grande casa dalle molte dimore, è in attesa dell’umanità. La fede in Dio che nasce dalla credibilità di Gesù, “credete in me”, fa uscire dalla costernazione, rende sicuri di un “dimorare” – l’espressione amata dal quarto vangelo – stabilmente in Dio. Non si tratta di un’aspettativa umana, non di una religiosità come aiuto a superare l’angoscia della morte. Gesù si rivela come manifestazione di Dio: io vi prometto una dimora stabile. Fine della tristezza, perciò, e fiducia. Gesù impegna se stesso con un doppio futuro: “verrò” di nuovo e vi “prenderò” con me. Quasi con disattenzione alla grammatica, il testo usa il presente per il verbo “venire”, come un attestato di presenza che non è interrotto dall’assenza: io vengo, perchè sono qui, e vi prenderò quando sarà il momento, momento che è il segreto del Padre. Gesù afferma di essere il “traghettatore” degli uomini dalla terra al cielo, il testimone che presenterà i suoi al Padre, i suoi, amati personalmente, uno ad uno – come abbiamo meditato domenica scorsa. I discepoli dovrebbero già sapere, perché istruiti da Lui. Tuttavia, costernati dall’evento della morte, vivono un’indisponibilità a credere: è uno stato d’animo che tutti abbiamo provato di fronte alla morte di una persona cara, a quei momenti della vita che rendono più difficile la fede. Gesù non risponde direttamente alla domanda di Tommaso, ma le sue parole gli permettono di definirsi “la via” che conduce al Padre perciò la verità e perciò la vita. È un’autorivelazione. La sua via, il dono di sé fino alla morte, lo conduce a Dio ed è perciò la via di quanti lo seguono, con lo stesso traguardo, la casa dalle molte dimore. – Il secondo annuncio apparentemente è solo di tipo spirituale, valido esclusivamente per alcuni, i “consacrati”, teso a sostenere ed alimentare la speranza per il “dopo”. Ma non è così. Gesù dice che il Padre è in lui e compie al presente le sue opere. Vederlo, perciò, è possibile a chi si lascia abitare da lui e al presente compie le sue opere. Il quarto vangelo insiste sulla presenza del Padre in Gesù, e questo è la garanzia per le sue parole ed i suoi gesti. Quando i discepoli, con Filippo, domandano una visibilità più chiara, Gesù li invita ad una riflessione attenta alle sue parole e alle sue opere. Da esse verrà una possibilità più immediata e certa per il loro credere. Le sue parole e le sue opere sono rivelatrici di Dio. Il Signore, al momento della sua partenza, apre ai discepoli una prospettiva altissima. Le sue opere, nel tempo della presenza, rivelano il Padre in lui. Ora è il tempo della partenza e dell’assenza: le sue opere non finiranno, ma sono affidate ai discepoli. Perciò li esorta a chiedere insieme che esse possano essere continuate, pregando nel nome di lui, e a credere che – uniti a lui – ne faranno di ancora più grandi. È molto importante, però, chiedere insieme: la preghiera collettiva è più gradita a Dio di quella privata, vissuta nell’individualismo. Essi dovranno “compiere” le opere di Gesù, che verranno suggerite pregando, e domandate. Ne scaturisce una bellissima sinergia: i discepoli “compiono” – al presente – e Gesù le “farà” – al futuro – e le presenterà al Padre. Questo permetterà al Risorto di essere presente e riconoscibile al tempo dell’assenza. È un invito a radicarsi nel cuore della fede cristiana. Le novità, le urgenze, le sfide del presente esigono questa adesione a quanto c’è di originale e radicale nel vangelo, la presenza di Dio tra gli uomini, l’incarnazione, che si prolunga nel tempo della Chiesa. Senza questa adesione, il parlare e l’agire, anche sacro, rischiano il non senso. Non si può mai conoscere Cristo solo teoricamente. Si può studiare tutta la Sacra Scrittura, ma non incontrarlo nella vita. La conoscenza vera sta sempre nella condivisione dei sentimenti, come dice Paolo, scrivendo ai cristiani di Filippi (Fil.2,5), e nel cammino insieme a lui (Lc.24,15 ss). È farsi connaturali e consanguinei di lui, per il Battesimo e l’Eucarestia, nella ricerca della giustizia, dell’amore, dell’umiltà, del servizio. Benedetto XVI, parlando all’ONU, ha sottolineato che l’unità non può farsi contro i diseredati, che la violenza non si vince con la forza, ma con la ragione, che va aiutata a crescere nei cuori. È così che si cammina sulla strada del Signore. E mentre si cammina con lui, conoscerlo è aprire l’occhio del cuore perchè è solo il cuore che “riconosce” con certezza e non è più preoccupato di sé, ma solo proteso a “compiere” quello che egli comunica. Con la scoperta gioiosa del frutto della conoscenza, che è sempre maggiore amore per l’uomo e per il mondo. “Noi non avevamo una via da seguire per giungere alla verità; il Figlio di Dio, che nel Padre è per l’eternità verità e vita, assumendo la natura dell’uomo si è fatto via. Passa attraverso l’uomo e giunge a Dio. Per Lui passi, a Lui vai. Non cercare al di fuori di Lui, per dove giungere a Lui. Se Egli non avesse voluto essere la via, saremmo sempre fuori strada. Perciò si è fatto la via per dove puoi andare. Non ti dico: cerca la via. È la via stessa a farsi incontro a te. Alzati e cammina. Cammina con la condotta non con i piedi. … È preferibile camminare zoppicando sulla via, ad un incedere energico fuori strada” (Agostino, discorso 141,4) Così Agostino, in Africa, in una domenica di aprile, commentava il vangelo di questa liturgia.
Gesù, nel vivere insieme ai suoi discepoli fin dall’inizio del suo ministero pubblico, non aveva nascosto i suoi sentimenti di amicizia, fino a dirsi pronto a dare la sua vita per loro, ma non aveva nascosto che il dare la vita avrebbe portato con sé il costo, la sofferenza della separazione. Si era creata perciò, nell’atmosfera del compimento e si andava attuando nel giorno della cena ultima con loro, l’aria pesante della morte-partenza. Giovanni ne parla e riferisce la costernazione del gruppo, la pesantezza del cuore dei suoi amici, quelli che egli stesso aveva chiamato perché fossero suoi discepoli e avviati sulla strada della amicizia confidente ed affettuosa per giungere alla condizione di fratelli e condividere la sua vita. Giovanni riferisce le parole di Gesù che parla del Padre come patria, come paternità accogliente, come casa in cui ci sono molti posti, molte “dimore”, parola che indica lunga, stabile permanenza. Gesù parte per preparare questa dimora, perciò la partenza non deve procurare tristezza, ma consolazione e fiducia. “Abbiate fede in me”. Gesù ha detto che sarà così. Ai discepoli che desiderano seguirlo è chiesto di credere alla sua parola. “Verrò di nuovo e vi prenderò con me”. Il senso della vita nella fede è quello di un intervallo tra la partenza e il ritorno del Signore, un tempo che è già presente per la conoscenza e per l’accoglienza della sua parola, per cui Gesù assicura che il suo ritorno sarà compimento dell’intervallo, fine dell’attesa. Il tempo si potrebbe definire un “frattempo”. I discepoli dovranno impegnarsi a percorrere la “via” che egli ha indicato in se stesso e cioè seguirlo nella verità del comandamento dell’amore reciproco, verità di Dio nella vita trinitaria e verità dell’uomo nella relazione fraterna già dal tempo presente. È l’amare la “verità” che introduce nella “vita”. Perciò Gesù è “la via”! I discepoli sapevano già della partenza, ma l’imminenza della morte oscurava in loro quello che già sapevano, perciò le domande si ponevano con dolore, perciò il “non sappiamo dove vai” di Tommaso. Sono domande a cui Gesù risponde autorivelandosi: egli stesso è la via che conduce alla patria della dimora nel Padre. Perciò la fede e la fiducia nella persona di Gesù, nella sua parola, sono la via necessaria perché già nel presente si realizzi nei discepoli l’unione con Dio. Questa è la realtà più importante, la meta di Gesù e dei suoi. Questa “via” è percorso e traguardo nello stesso tempo. L’evangelista sembra compiere un errore di grammatica identificando presente e futuro, come se fosse preoccupato di affermare che il Signore viene ogni giorno, al presente, per preparare al momento di prendere definitivamente con sé, al futuro. Sicché il presente dei credenti diventa una vigilia paziente, un “frattempo” fiducioso. La risposta a Tommaso dice il pensiero di Gesù sulla possibilità di conoscere il Padre. Guardare e contemplare le opere di Lui, che parlano di Lui e convincono di Lui. Quelle di Gesù sono le opere del Padre. Guardando Gesù che opera si vede Dio, ci si convince di Lui, ci si sente chiamati ad essere suoi figli, nel presente per poterne compiere la volontà, attuarne i desideri, portare a compimento la creazione nel rispetto del suo disegno di bene per tutta l’umanità. Perciò ogni opera per la dignità e la libertà dell’uomo è rivelazione della verità di Dio. Bisogna credere, con fede sicura, che le opere compiute da Gesù manifestano l’esistenza e la provvidenza di Dio nella storia e non cessano dopo la sua partenza, ma continuano nella vita dei credenti che si impegnano a vivere le beatitudini. Credere che Gesù è nel Padre conduce alla scoperta di poter domandare qualsiasi cosa (v.13) e di poter compiere opere in continuità con il suo operare nel tempo della sua presenza, e addirittura poter compiere delle cose più grandi ancora. Così si realizza quello che la Chiesa possiede nell’esperienza di fede. Gesù è presente nell’assenza, e la continuità della sua presenza è frutto della preghiera della comunità riunita nel suo nome, che prega per quello per cui Egli ha vissuto, è morto ed ora chiede per noi.