VI DOMENICA DI PASQUA – Anno A
(At 8,5-8.14-17; Sal.65; 1Pt 3,15-18; Gv 14,15-21)
“Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore”
Sono ancora le parole di Gesù ai “suoi”, nel Cenacolo, sul “dopo”, quando non sarà più presente la sua persona fisica, e sul tempo della fede. Sono parole preziose, parole “per sempre”, cariche di certezze, perché compimento della preghiera del Figlio, sempre esaudita dal Padre nell’intimità della relazione trinitaria. Davanti alla tomba di Lazzaro Gesù aveva esclamato: “Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. Io so che sempre mi dai ascolto, ma lo ho detto per la gente che mi sta attorno…”(Gv.10,41-42). Oggi lo dice per noi.
Il futuro è legato all’azione, misteriosa ma reale, di un “altro” da Gesù, che non ha la visibilità corporea della sua carne, maturata nel seno di Maria. Lo Spirito dimora nell’interiorità e prosegue l’opera di Gesù, perciò è Consolatore come lo è stato lui, nella disponibilità totale ad ogni situazione umana, con le parole e con i segni. Quest’opera di consolazione è continuata invisibilmente dallo Spirito: anche i discepoli hanno potuto godere di questa presenza, conoscerla, ricordando le parole di Gesù, riportate da Luca: “Chiedete e vi sarà dato … se … voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glie lo chiedono”(Lc.11,9-13). La presenza dello Spirito è legata alla conoscenza e la conoscenza alla preghiera, sempre fra loro strettamente coordinate.
La promessa di Gesù diventa esperienza nei primi discepoli. Essi avevano visto Gesù, ma non lo avevano capito. Subito prima della sua morte, mentre parlava con i discepoli nel Cenacolo, Gesù aveva detto a Filippo: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto?”. (Gv.14,9). Solo il dono dello Spirito darà loro la spiegazione di quello che avevano visto e il coraggio di testimoniare. I discepoli si accorgono che in loro agisce una presenza, che va oltre la capacità umana, percepiscono la sproporzione fra la parola umana e l’immensità della rivelazione di Dio, che è loro affidata. La loro era la voce dello Spirito stesso che parlava nelle loro povere persone di timidi pescatori, con autorevolezza e creatività, con la capacità di reinterpretare i gesti e gli insegnamenti di Gesù.
Giovanni afferma che è lo Spirito a portare avanti l’opera di Gesù. Dopo la passione e la resurrezione, dopo la morte dei testimoni oculari, lo Spirito continuerà la sua missione di rivelare la “verità tutta intera” (Gv.16,13), perché è presente in tutti i discepoli che amano il Signore ed osservano i suoi comandamenti. Così il cristiano di sempre nuove generazioni non è più lontano dai gesti di Gesù di quanto non lo fossero i discepoli della prima ora, perché lo Spirito abita in lui, come nei primi. In lui si avvera quanto Gesù aveva detto alla donna di Samaria sull’adorazione “in Spirito e verità” (Gv.4,23). Ricordando le parole di Gesù, attualizzandole nel cammino della storia, lo Spirito guida ogni generazione ad interpretare le situazioni nuove. Così Giovanni dice ai cristiani dei suoi tempi, che vivevano l’ansia per l’attesa del ritorno di Gesù, a quanti di noi avvertono con sgomento le contraddizioni del nostro temo, che il ritorno di Gesù è già attuato nel presente, anche se non ancora in maniera definitiva. Non occorre vivere con gli occhi costantemente rivolti verso il cielo, da dove il Signore tornerà, perché egli è già qui, nei nostri cuori, per la presenza dello Spirito.
Il brano della Prima lettera di Pietro, che abbiamo ascoltato, ci dà due indicazioni, su come ascoltare ed accogliere la voce dello Spirito che abita in noi.
Innanzitutto ci invita a fare esperienza dell’essere “dimora” dello Spirito:
“Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori”.
Il cuore è il centro della persona, l’ “io profondo”, che coinvolge l’intelligenza e la volontà, l’affettività e la prassi, l’individualità e la socialità. Lo Spirito adorato, ascoltato, obbedito nel cuore, conduce all’unità tutta la nostra vita e dona la possibilità di essere trasparenti verso l’esterno della presenza della sua vita nella nostra interiorità. Non è necessario preparare discorsi con cui testimoniare: basta vivere l’amore, essere amore .
Quindi Pietro ci chiama a fare esperienza di franchezza nella testimonianza: “pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi”. I primi discepoli si scontravano con l’incomprensione e con la persecuzione, come noi ci troviamo di fronte al rifiuto della società in cui viviamo. Al nostro sgomento viene domandato di non tirarci indietro di fronte alla fatica dell’incontro con il mondo, ascoltando lo Spirito che rassicura e dona speranza, ci guida a comunicare il Vangelo “con dolcezza e rispetto”. Comunicare “le ragioni della nostra speranza” è il debito cosante che il cristiano ha nei confronti del mondo…
È bello, a distanza di 60 anni, sentire l’importanza di questa nostra testimonianza attraverso le parole di Bonhoeffer e di Benedetto XVI:
“Dovremmo essere capaci di parlare delle cose della nostra fede in modo tale che le mani possano tendersi verso di esse più velocemente di quanto noi non siamo capaci di riempirle” (da “Risposta alle nostre domande).
Così Bonhoeffer.
E ai nostri giorni Benedetto XVI:
“La santa inquietudine di Cristo deve animare il pastore: per lui non è indifferente che tante persone vivano nel deserto. E vi sono tante forme di deserto. Vi è il deserto della povertà, il deserto della fame e della sete, vi è il deserto dell’abbandono, della solitudine, dell’amore distrutto. Vi è il deserto dell’oscurità di Dio, dello svuotamento delle anime senza più coscienza della dignità e del cammino dell’uomo. I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo perché i deserti interiori sono diventati così ampi… La Chiesa nel suo insieme… (deve) mettersi in cammino per condurre gli uomini fuori del deserto, verso il luogo della vita, verso l’amicizia con il Figlio di Dio … che ci dona la vita in pienezza” (Omelia dell’inizio, 24-04-05)
L’affetto del papa verso tanti deserti, anche quello dell’amore distrutto è un dono per noi. Oggi celebriamo questa Eucarestia insieme a un gruppo di fidanzati prossimi al matrimonio. Essi sanno che non devono cullarsi nelle favole: tutti conosciamo l’esistenza del deserto dell’amore distrutto. Ma abbiamo anche la certezza che Gesù Pastore ci cerca con inquietudine, quanto più siamo nel deserto.
Perciò preghiamo il Signore perché ci renda suoi discepoli nel cuore e nella parola.
Anche la liturgia di questa domenica, l’ultima delle domeniche “dopo Pasqua”, è immersa nell’atmosfera della partenza imminente di Gesù. Mentre domenica scorsa il messaggio era collegato allo sgomento dei discepoli, oggi il Signore annuncia che la sua partenza inaugura una stagione nuova, una nuova era di cui lo Spirito donato dall’alto sarà l’anima.
Mentre va incontro alla morte, il Signore esorta i suoi ad amare come Lui ha amato, vivendo il suo comandamento. Frutto di questa tensione vissuta reciprocamente sarà la sua preghiera al Padre. Solo apparentemente assente, Egli otterrà il dono di “un altro Consolatore” – il termine Paraclito significa Consolatore – che “rimanga per sempre”. Gesù è già Consolatore – “Avvocato”, come dirà s. Paolo. Questo suo pregare lo assicura. Ma lo Spirito è presentato con una modalità distinta, più interiore, che non sarà sottomessa alla esteriorità della vicenda umana. È lo “Spirito di verità”, lo Spirito che comunica la verità. Chi accoglie la verità di Cristo, lo riconoscerà. Chi dovesse chiudersi ad essa, non riconoscerà lo Spirito: questo il risvolto drammatico che abita l’intimo dell’uomo. Alla comunità che entra nel tempo dell’assenza di visibilità del Signore, viene assicurato che quanti credono a Lui e si sforzano di seguire la sua via, sperimenteranno che la presenza dello Spirito permetterà loro di crescere nella conoscenza della verità, fino a raggiungerla “tutta intera” (Gv.16,13) per l’azione di un magistero continuativo e interiore in coloro che seguono Gesù amando i fratelli. Essi avranno il dono del “discernimento”, la capacità di distinguere nella realtà “l’ultimo” dal “penultimo”, il fine da quello che è solo un mezzo per andare verso il Signore. È la scoperta del “Maestro interiore”, come dirà Agostino, facendone la fonte di una pedagogia nuova, che insegna a guardare la realtà con l’occhio di Dio e a valutarla con il suo pensiero, ognuno secondo la propria responsabilità personale:
“Sul mondo intelligibile poi non ci poniamo in colloquio con l’individuo che parla dall’esterno, ma con la verità che nell’interiorità regge la mente stessa… e insegna colui con cui si dialoga, Cristo, di cui è stato detto che abita nell’ uomo interiore…”
(Il Maestro, 11,38)
La percezione della verità “dal di dentro” richiede un vero combattimento spirituale, cui dobbiamo sottoporci ogni giorno, un lavoro a due, in cui abbiamo Dio come compagno. Tutti siamo coinvolti, perchè tutti siamo condizionati dalle voci esteriori degli avvenimenti. È un fatto di grande attualità.
Così i discepoli non restano “orfani”, come ci accade con la morte dei genitori. Qui morte e vita sono contemporanee nella simultaneità dello spirare di Cristo e del dono dello Spirito, in cui “tutto è compiuto”, come leggiamo nel vangelo di Giovanni (Gv.19,30). Subito inizia questa azione non visibile, che prolungherà la rivelazione della verità, annunziata da Gesù. Perciò viene detto “io vivo e voi vivrete”. Egli tornerà in una presenza vivente, che farà vivere. Non potrà essere visto alla maniera di prima della resurrezione: ma nell’esperienza della comunità che ascolta la Parola, lo adora nell’Eucarestia, si impegna nell’amore fraterno, potrà essere percepito con certezza presente e vivo.
Il frutto dello Spirito donato dal Crocefisso morente è quel prodigio che lo rende presente, Risorto, nella sua comunità, nel cenacolo degli impauriti, nel cuore degli smarriti, nella sensibilità dolente delle donne. È la verità che fa vivere la Chiesa di ogni tempo, Gesù in mezzo ai suoi discepoli. Qui è il superamento della solitudine nella fede, che spesso induce alla rinuncia, al disimpegno. Anche questo è attualissimo.
La Chiesa del nostro tempo, che conosce tante solitudini e scoraggiamenti, conosce anche questa particolare presenza di Gesù tra i suoi. È Lui che ricorda il suo rapporto con il Padre, chiamando a condividerlo. E spinge ad un criterio più ampio, non guarda soltanto alla stretta comunità dei suoi più vicini, ma a “chi accoglie i miei comandamenti”. A tutti i destinatari di questa promessa, i suoi presenti e quanti saranno suoi in futuro e nei modi più impensabili, è detto che la vita di fede e l’unione con Dio devono essere concepiti in termini di amore a Lui, che si attualizza nel dare la vita, che Lui ha “spirato” sulla croce. Questo amore sarà contraccambiato dalla presenza di Gesù in mezzo a loro, anche dopo la sua partenza, non solo nella Chiesa, ma anche nella città, nel posto di lavoro, nella famiglia.
Quelli che amano e credono, sperimentano la presenza dell’assente e possono essere certi del ritorno definitivo, quando Dio e la sua creatura si abiteranno reciprocamente:
“Non vidi nessun tempio nella città,
perché il Signore Dio, l’Onnipotente e l’Agnello sono il suo tempio.
La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna
perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello”
(Ap.21,22-23)
È il tema fondamentale della vita nella fede, che ha il suo traguardo nel futuro eterno e il suo presente nella vita tra noi del Risorto, Gesù che vuole essere in mezzo ai suoi uniti nel suo nome e nella fedeltà all’amore e rende possibile “rispondere a chiunque domandi ragione della speranza” che è in noi (II Lettura).
Ritorna ancora il tema della partenza di Gesù, caro a Giovanni. Questa partenza non sarà causa di abbandono, di orfanezza in quanti vengono lasciati, ma con essa verrà inaugurata un’era nuova, un’era a cui è assicurata la presenza e la luce dello Spirito Santo, il “consolatore”, il “paraclito”, appellativo che sta ad indicare un avvocato difensore che si pone al fianco del proprio assistito. Lo Spirito, la personificazione dell’Amore che è Dio Trinità, relazione eterna di amore, interviene per confortare e sostenere i discepoli. Alla fine del primo secolo, i cristiani, che leggono il quarto vangelo, già sanno per esperienza di questa presenza confortante dello Spirito, chiamati come sono alla fede in Gesù nel tempo dell’assenza.
Lo Spirito è presenza di Dio nel mondo, non più nella carne umana e nella sofferenza della croce, ma come soggetto di continuità nella storia della verità annunciata da Cristo, che supplisce alle deficienze dei credenti, permettendo loro di affrontare le difficoltà della vita. Continuità della rivelazione di Dio, sia nell’intimo della coscienza nella persona singola, sia nella visibilità delle opere. Continuità universale, senza limiti di tempo e di spazio. Ogni tempo verrà chiamato tempo dello Spirito, ogni spazio luogo di Lui. È il passaggio importante per i primi discepoli che devono passare dalla vita con il Signore visibile con cui hanno condiviso il loro tempo e il loro spazio, alla vita della Chiesa che sta per nascere con la Pentecoste, proprio con il dono dello Spirito Santo. Passaggio che si propone ad ogni credente, nel cammino della fede che non si esaurisce nel solo aspetto rituale e celebrativo, e neppure in quello conoscitivo ed intellettuale, per quanto siano necessari e doverosi per una fede matura, ma domanda la profondità della vita interiore, da coltivare e custodire come il dono prezioso che viene offerto con la chiamata alla fede. Senza vita interiore non è possibile l’esperienza dello Spirito.
In questa esperienza, la partenza di Gesù e la promessa del suo ritorno si avverano già da ora nella continuità di uno stesso amore fedele e convincente, come di un “avocato difensore”. I cristiani che accolgono il dono del Battesimo e dell’Eucarestia e si sforzano di vivere quello che Gesù dice “i miei comandamenti”, fanno esperienza di conoscere, per opera dello Spirito, la verità della vita di Dio che consiste nell’unione perfetta del Padre e del Figlio e sentiranno possibile, non favolistica, la condivisione di essa per l’azione dello Spirito che li spinge in continuazione all’imitazione di Cristo. È la proposta che, ancora una volta, ha la caratteristica non dell’imposizione ma dell’esperienza. Quando io mi decido ad amare, quando ognuno di noi ama, succedono cose – lo sperimentiamo tutti: le azioni sono cariche di motivazione e di energia, di calore e di gioia. Il comandamento di Gesù è quello che Egli vive, il dono di sé per amore, e per conseguenza la vita nello Spirito di Lui è la vita nell’amore. Sembra dire: se mi ami, diventa come me. Uno diventa quello che ama e perciò sperimenta la libertà di donarsi senza calcoli, mite, operatore di pace, creatore di gesti positivi. “Ama e fà quello che vuoi” avrebbe detto in seguito sant’Agostino.
Questo è quello di cui lo Spirito convince i discepoli, e Gesù, nel momento della partenza, invita ad accoglierlo, adoperando ripetutamente la particella “in”, che indica desiderio di presenza, da parte di Dio che si propone, e di reciprocità nel cuore dei credenti. I primi cristiani interpreteranno quella particella “in” come invito ed augurio a vivere “nel Signore”.
È bellissima questa parola che si direbbe materna, teneramente materna, di un Dio che cerca l’uomo, che desidera dimorare nel suo cuore, che bussa perché si avveri la reciprocità. “Voi mi vedrete perché io vivo e voi vivrete”.
Dio, Padre eterno, Figlio fratello di ogni uomo, Spirito che alita delicatamente e con insistenza la sua fecondità, è colui che da la vita. La sua attività è dare la vita.
È questa la missione dei suoi figli, essere datori di vita.
Questa la speranza di testimoniare a chi domandi ragione del vivere, da custodire gelosamente come bene che salva l’umanità in ogni spazio e in ogni tempo, “tra di voi”, nella reciprocità, come dice Pietro (1Pt.3,15).