DOMENICA DI PENTECOSTE – Anno A
(At 2,1-11; Sal.103; 1Cor 12,3-7.12-13; Gv 20,19-23)
Nel capitolo 19 degli Atti degli Apostoli, Paolo, recatosi ad Efeso, dove era già presente una comunità cristiana, aveva tentato di parlare dello Spirito Santo, ma gli fu risposto: “Non abbiamo nemmeno sentito dire che vi sia uno Spirito Santo” (Atti 19,2). È una risposta indicativa di una situazione diffusa: per noi è naturale rivolgerci a Gesù, di cui conosciamo i lineamenti, al Padre, magari con difficoltà, ma sempre con certezza. Lo Spirito Santo ci appare invece oscuro, difficile da definire. Eppure la Scrittura si apre con una affermazione misteriosa, ma precisa: “Lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque” (Gen1,1) e si chiude con il desiderio di reciprocità fra lo Spirito e la creatura: “Lo Spirito e la Sposa dicono: Vieni! E chi ascolta ripete: Vieni!” (Ap.22,17). È un annuncio che presenta un Dio che cerca un luogo su cui posare lo sguardo e trovare abitazione e insieme l’attesa di ogni realtà creata ad essere casa di lui. Pentecoste è la realizzazione storica dell’incontro delle due attese, l’inizio di una storia nuova per l’umanità. La corporeità, che appariva solo come peso e come divisione, che era negata dall’esigenza di purezza del pensiero classico, nella Bibbia appare “buona”, anzi “molto buona” (Gen,1,27.31), capace di germogliare vita, perché visitata ed abitata stabilmente dallo Spirito, dal soffio della vita. Perciò essa può dire che il vivente bello ed i Salmi levano inni alla bellezza della creazione. Perciò l’uomo, la vita dell’uomo, piena, libera, giusta, fraterna, è la grande passione di Gesù. Il Risorto è stato tirato dal sepolcro per opera dello Spirito che lo riempie; egli lo “alita” sui discepoli perché ogni carne si apra allo Spirito. Gesù non condanna la carne, non la reprime, non la cancella, ma la apre alla abitazione dello Spirito e la rende idonea ad essere per la vita e a dare la vita. Come un artista sa trarre dalla materia caotica, in mille mille modi, i suoni, i colori, le infinite armonie, così il Risorto, donando lo Spirito, chiama alla vita incessantemente, ad una vita mai finita nel suo evolversi. Il panorama sconfinato che si apre con il dono di Dio nel Cenacolo, compie il disegno del Creatore, che ha consegnato alle prime creature la creazione perché la completassero con il pensiero, con la ricerca, portandola a compimento, fino all’ultimo giorno. Donando il soffio della vita con le labbra della sua carne crocefissa, il Risorto mostra la strada per la quale ogni carne è principio di vita. È come una chiamata al discepolo perché non neghi e non reprima la propria dimensione corporea, ma la doni e la offra, rendendola fonte di vita. Così la missione, che il Figlio ha ricevuto dal Padre nell’eternità, ora il Figlio la trasmette ai discepoli, chiamandoli a donare lo Spirito in ogni tempo. Bisogna essere vigilanti, perché la Chiesa non si chiuda nell’efficientismo, ma sia costantemente rivolta alla sua missione universale di donare lo Spirito al mondo. Nella prima lettura abbiamo visto come Luca, negli Atti, si soffermi nel sottolineare l’eterogeneità della folla a Gerusalemme, composta da uomini di diversa nazionalità e cultura. Tutti ascoltavano la parola dei discepoli, e “ciascuno li sentiva parlare la propria lingua”(Atti 2,6). Egli ci dice, così, che lo Spirito non ha una sua lingua, non si lega ad una lingua o ad una cultura particolare, ma si esprime attraverso ogni lingua ed ogni cultura. La Chiesa è chiamata ad un compito di universalità e riunificazione di ogni realtà. Marko Rupnik, il grande artista slavo, ci dice: “Studiando i Padri della Chiesa, ho capito che la materia ha come un “desiderio”: essere usata per diventare “dono”, esprimendo così l’amore interpersonale. Ed è in tale modo che si salva: l’amore, infatti, dura in eterno, e se noi – per così dire – “fasciamo” la materia con l’amore, la custodiamo per la vita eterna” . È il compito che lo Spirito affida a ciascuno di noi. Ma la missione dello Spirito non può essere vissuta che nel perdono: perciò egli è chiamato “Consolatore”, “Paraclito”. Lo Spirito ci dice che la memoria può essere guarita, anche quando è stata offesa, che le piaghe possono essere lenite e diventare fonte di benedizione, che il gemito della creazione, di cui Paolo parla nella lettera ai Romani, può trovare sbocco in una vita più piena. Ma allora lo Spirito che ci è dato in consegna, va mantenuto vivo e zampillante, va donato reciprocamente a riconciliare tutte le creature, che già vivono e respirano in lui. È come se il Risorto, donandolo ancora, dicesse ai discepoli: non trattenete lo Spirito, non fatene una preoccupazione per il vostro benessere personale, ma datelo alla carne e alla terra, perché rifioriscano in Lui. Tutto trattate con l’amore del Padre verso il Figlio, perché tutto si realizzi nella luce che rimane. Oggi, Pentecoste, che lo Spirito Consolatore ci renda uomini e donne di compassione.
Oggi il dono dello Spirito dà alla Pasqua la sua pienezza. La liturgia ci propone alcuni versetti della pagina del quarto vangelo che abbiamo già letto la domenica successiva alla Pasqua, come per renderci ben consapevoli che il dono dello Spirito è il frutto diretto della morte in croce, come era stato spiegato dall’evangelista al momento della promessa che Gesù stesso aveva fatto: “infatti non c’era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato ancora glorificato” (Gv.7,39), e come era stato invece evidenziato nel suo spirare: “Chinato il capo, spirò” (Gv.19,30), effuse insieme la vita e lo Spirito. La sua morte è come una nuova creazione. Ora, apparendo nella condizione di Risorto, dona ancora lo Spirito, come Luca racconta negli Atti con una forma più ampia e solenne per spiegare la nascita della Chiesa (At.2,1-11). La condizione nuova di vita permette al Signore di fare ai discepoli con autorevolezza, come di chi ha vinto la morte, un dono ulteriore, perché possano essere per il mondo quello che Egli è stato. Cinquanta giorni dopo la Pasqua, a Pentecoste, la Chiesa nasce dal dono dello Spirito. Così chi legge sa che lo Spirito è con la comunità, che abita in essa e la spinge continuamente a superare i propri limiti, personali e di gruppo, per continuare la missione di Gesù e il mondo di ogni tempo e di ogni cultura possa conoscere l’amore del Padre. Giovanni vuole sottolineare la continuità dell’opera di Dio: “come il Padre ha mandato me, così anch’io mando voi”. Per il fatto stesso di essere discepoli siamo mandati: il dono per eccellenza del Risorto, quello che Egli garantisce e rinnova sempre alla sua comunità, è in questa direzione. Le ore della croce e della missione sono come due battiti di un cuore posto dal Risorto nei discepoli uniti nella fede e nell’amore reciproco. Due battiti che dicono il dono dello Spirito e l’incarico di testimoniare il vangelo: ciò che è stato affidato al discepolo deve essere dono per gli altri, confidato all’umanità. È il compito che Cristo affida alla Chiesa, compito da accogliere nella gratitudine. All’inizio del V secolo dopo Cristo, in un’omelia di Pentecoste, con il suo linguaggio immediato Agostino dirà: “Voi, fratelli miei, membra del Corpo di Cristo, germogli di unità, figli della pace, trascorrete con gioia questo giorno, celebratelo senza timori. Si realizza infatti in voi quanto in quel giorno, quando discese lo Spirito Santo, veniva preannunciato. Perché come allora chi riceveva lo Spirito Santo, pur essendo un’unica medesima persona, parlava tutte le lingue, così anche ora in mezzo a tutti i popoli è l’unità stessa che parla in tutte le lingue; e voi, costituiti in questa unità, possedete lo Spirito Santo, voi che con nessuna scissione dissentite da questa Chiesa di Cristo che parla tutte le lingue.” (Agostino, discorso 271,1) Esprimiamo la nostra gratitudine, per essere “figli della Chiesa”. La coscienza della presenza dello Spirito è da sempre esperienza della comunità, dal martirio di Stefano alla “corsa” della parola del Vangelo verso l’umanità. A Gerusalemme i discepoli capirono di doversi staccare dalla osservanza della ritualità ebraica, di cui pure erano consapevoli e riconoscenti, e di scrivere un lettera coraggiosa in cui dicevano: “abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi…” (Atti, 15,28) di non imporre ai cristiani di Atiochia ritualità che provenivano dalla religione ebraica, ma che ormai non potevano riguardare “tutte le nazioni”, in obbedienza al comando del Risorto (Mt.28,19). È lo Spirito che dona forza e pazienza, là dove la condizione umana non lo potrebbe immaginare; che infonde sapienza profonda anche là dove non c’è cultura umanistica o scientifica; che suscita forme impensabili di amore creativo per testimoniare la compassione di Dio, come quei ragazzi che sono andati in un campo di Rom, chiamandoli per nome e non più “zingari” ed avviando un dopo-scuola. È Lui che rende audace anche il timido. Lui che costruisce in continuazione un’umanità di cui le categorie non sono il censo, la classe, le appartenenze, ma l’unica categoria è la fraternità. Viene fatto di pensare che il senso di orfanezza che si va estendendo in tanta parte dell’umanità di oggi, sia da ricondurre al non conoscere la preziosità del dono di Dio, che Cristo ci fa nello Spirito. Quella del nostro tempo non appare tanto come una prova della fede, la prova di chi ha fede; ma come una condizione di carenza, di chi “non ha”, di vuoto. Appunto, di orfanezza. In genere non ci si vanta di essere atei, non si è contenti di sentirsi tali, ma si subisce un senso di confusione sul presente e sul futuro, da cui deriva l’indifferenza, la freddezza, i lasciar stare, che tanto danneggia la condizione umana. Anche nelle persone che vengono al confessionale si avverte il disagio che la condizione della nostra città porta nella vita e fa star male tutti. Benedetto XVI ha detto, domenica scorsa all’Azione Cattolica, una parola importante: “In una Chiesa che quotidianamente si confronta con la mentalità relativistica, edonistica e consumistica, sappiate allargare gli spazi della razionalità nel segno di una fede amica dell’intelligenza, sia nell’ambito di una cultura popolare e diffusa, sia in quello di una ricerca più elaborata e riflessa” Vivere la Pentecoste è allargare gli spazi della ragione alla luce della fede. Quanti lavorano nelle fabbriche, negli uffici, nelle scuole, negli ospedali, nei posti di responsabilità, avvertano la propria responsabilità verso i singoli e verso la società, responsabilità di testimoniare la propria fede. Domandiamo allo Spirito Santo, nella preghiera personale e comunitaria, la compassione che ci permetta di non rifiutare la fatica dello spezzare il pane dell’incredulità alla tavola dei fratelli e delle sorelle immersi nell’oscurità, anche quando questo dovesse significare esserne avvolti noi stessi.
Il libro degli Atti degli Apostoli è il racconto che Luca fa dell’esperienza di fede e di testimonianza vissuta dai primi discepoli all’inizio della vita della Chiesa. Non è una nascita dalla radice di una delle tante iniziative umane che la storia registra, come accade quando ci si aggrega sulla base di simpatie, di idee e di programmi condivisi. È qualcosa di originato da un fondamento ”altro”, l’iniziativa di Dio. Questo fondamento è Pentecoste, la Pentecoste cristiana che ha una certa continuità con quella ebraica, nata come festa agricola che invitava al ringraziamento per il raccolto e poi gradualmente trasformata in liturgia di lode per il dono della Torà, della Legge, perciò per ricordare l’alleanza del Sinai al tempo di Mosè. L’alleanza è sempre un compimento certo, perché opera del Signore, un patto che dona visione, senso alla vita dei singoli e della collettività, perciò da pace e gioia. Anche se l’uomo è infedele, Dio non lo è mai. Gli ebrei la celebrano ogni anno, cinquanta giorni dopo la Pasqua. Luca pone il compimento definitivo dell’alleanza nel dono dello Spirito e lo colloca nel contesto dell’antica celebrazione ebraica, per dire che in esso c’è lo svelamento della verità di Dio. Dice che in quel momento “il giorno stava compiendosi”, non certo in senso di orario, perché erano le nove del mattino. Compimento che avviene non solo in un momento storico, ma anche in un luogo preciso – “riempì tutta la casa” – e nella persona dei presenti – “furono tutti colmati di Spirito Santo”. Anche le indicazioni sulle diverse provenienze della folla non sono un gioco letterario, ma il segno che l’autore, cronista e credente, interpreta teologicamente per affermare l’universalità di quanto sta descrivendo e porre all’attenzione del lettore qual è il frutto generato dalla morte in croce di Gesù Cristo. Quel frutto è il dono dello Spirito! È la guarigione della ferita provocata dalla presunzione di Babele da cui era derivata la confusione, è la riappropriazione della visione universale della fraternità umana. Per conseguenza, il dono dello Spirito domanda a quanti gli si aprono il superamento delle inimicizie e delle divisioni. Perciò è detto dei primi destinatari e testimoni : “si trovavano tutti insieme nello stesso luogo”, come per dire che lo Spirito di verità e di comunione è libero di “alitare” a condizione che le persone sino rese idonee alla sua azione dall’ascolto e dall’amore fraterno, Questa idoneità fa comprendere il “fragore” come una voce che chiama e il “fuoco” come ardore del cuore. A Luca non sta tanto a cuore descrivere i particolari dettagliatamente e fisicamente. Egli vuol dire che lo Spirito è l’invisibilità e l’indicibilità del Dio trascendente che si rendono vicine all’uomo e lo fanno attraverso i segni di una presenza viva, perché l’uomo sappia ascoltare la voce e lasci ardere il cuore per testimoniare lo Spirito del Signore. Questi segni già sono noti all’esperienza umana: ci accade quando, dinnanzi a fatti o momenti che segnano la vita, ci si sente tremare le gambe, bruciare il cuore, scoppiare la mente … Non è tanto il racconto della capacità impensabile di parlare lingue sconosciute a loro, quanto la constatazione dei discepoli impietriti dallo stupore che il messaggio portato con la loro povera umanità raggiunge gli uditori ed induce alla trasformazione del cuore. Ne deriva la certezza che il vangelo può essere comunicato in tutte le lingue, penetrare in ogni cultura, raggiungere e trasformare qualsiasi condizione umana. Non è un’unità che annulli le diversità, ma è un chiamata alla comunione che accoglie le diversità e le fa confluire verso la fraternità di tutti gli uomini. Luca sembra voler dire che ogni uomo ha in sé una scintilla che gli permette di comprendere e consentire l’anelito dello Spirito, di cui parlerà san Paolo nella lettera ai Romani al capitolo 8, e può essere raggiunto nel rapporto fraterno vissuto “con dolcezza e rispetto” (1Pt.3,16). È lo stile del dialogo mite che valorizza l’unicità di ogni essere umano e la mette in cammino verso il traguardo della riconciliazione e della pace senza insofferenza, senza intransigenza, nell’ascolto, nella longanimità, nel silenzio interiore. Lo Spirito compie così in pienezza l’opera del Crocifisso Risorto. Ognuna di quelle lingue di fuoco incontra una libertà, consacra una individualità irripetibile, facendone dono all’altro nell’unità di un popolo di fratelli. Questa l’esperienza della prima comunità di Gerusalemme e la vocazione della Chiesa di ogni tempo. Quanto è grande, per tutti noi, l’impegno di far germogliare ed alimentare piccole oasi di riconciliazione e di pace, nei deserti di oggi. Giovanni Paolo II ci ha comunicato la sua personale passione per l’uomo, definendolo “via della Chiesa”, il suo desiderio che nella Chiesa il Vangelo possa essere trasmesso da persona a persona con premura di attenzione e di rispetto: “Io credo che l’uomo soffra soprattutto per mancanza di “visione”. Se soffre per mancanza di visione, deve allora aprirsi la strada fra i segni, fino a ciò che gravita dentro e matura come frutto della parola” Domandiamo il dono di poter essere uomini e donne dello Spirito.