Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo – Anno A
(Ez 34,11-12.15-17; Sal.22; 1Cor 15,20-26.28; Mt 25,31-46)
“Quando il Figlio dell’uomo verrà”
Tutta la speranza della Chiesa, che si alimenta alla vista del Crocefisso, è l’attesa del Cristo glorioso, l’ultima definitiva pagina di una storia che al presente incontriamo soprattutto nei suoi aspetti di umiltà, servizio e pazienza. Ma Gesù stesso aveva detto : “Tornerò a voi … vi prenderò con me”. Nel descrivere il ritorno la predicazione della seconda generazione cristiana si era servita delle predizioni dei profeti, influenzate dalla cultura apocalittica che attribuisce a Cristo il compito di giudice e la maestà di re, che possiamo notare anche in Matteo. In realtà il Vangelo punta sulla carità fraterna, che, come è stato detto della vigilanza delle ragazze e dell’operosità dei collaboratori, chiede di essere vissuta e sarà la chiave del giudizio.
La scena, ancora una volta, è colorita, perché si imprima nella mente dei lettori. All’incontro non sono convocati solo ebrei e cristiani, ma “tutte le genti”. È la prospettiva dell’universalità, che sta a cuore a Matteo già dall’incontro con i Magi, che Gesù darà solennemente al momento dell’ascensione (Mt.28), quando invierà i discepoli fino agli estremi confini del mondo. È una prospettiva che la Chiesa deve sempre ricordare per essere fedele al compito di essere “segno efficace di unità per tutto il genere umano”, come dichiara il Concilio Vaticano Secondo (L.G.1).
“Tutte le genti” non sta ad indicare un processo collettivo e non vuol dire innanzitutto giudizio, negativo per chi non ha aderito al Vangelo e di premio per chi lo ha fatto. Il criterio dell’incontro con il Cristo della gloria e della gioia sarà sull’attenzione alle ultime categorie della convivenza umana, sulle opere dirette all’uomo in quanto tale, non perché ebreo o cristiano. Non c’è niente di specificamente religioso in queste opere.
Approfittiamo del silenzio di questa giornata chiusa al traffico, per entrare più profondamente nel senso di questa rivelazione sconcertante: il giudice chiama gli ultimi della società: “miei fratelli più piccoli”. È la proiezione in chiave universale e definitiva dell’atteggiamento storico del Signore, tante volte mostrato nel racconto di Matteo: la piccolezza è la sua virtù fondamentale (Mt.11,28-36), che lo induce a cercare di preferenza i più bisognosi e i più colpiti dalla vita (Mt.9,12). Matteo guarda a questa esemplarità storica di Cristo e la propone a tutti, tutti chiamati da Dio.
Così Matteo dice che la sentenza che verrà pronunciata nel momento finale si prepara nella storia, dove ognuno costruisce la propria realizzazione o il proprio fallimento. In quel momento finale non verrà richiesta alcuna professione di fede cristiana, ma l’aver vissuto lo stesso agire di Gesù. Matteo scrive come un pastore, un vescovo che si preoccupa di insegnare ai fedeli della propria comunità quali sono le linee per essere riconosciuti come appartenenti al Signore. Non tutti, allora come oggi, possono conoscerlo, ma per tutti c’è una via per incontrarlo, quella delle opere di misericordia. Esse sono presenti nella tradizione ebraica e in tante culture e religioni, nella coscienza di tanti uomini e tante donne, basta pensare alla “regola d’oro”: “tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”. Vengono introdotte solennemente nel Vangelo da Matteo e glie ne siamo grati: sono opere possibili a tutti e così cadono i pregiudizi e le divisioni, cresce la speranza, si allarga la moltitudine nel Paradiso, perché viene proposto un criterio di giudizio unico per ebrei, cristiani e pagani, senza distinzione. Non è la religione che introduce nel Regno. Il testo offre come una nuova, diversa definizione della fede e del credente, in particolare cristiano.
Gesù aveva detto nel Discorso del Monte (Mt.5,44-45) che l’amore gratuito ai nemici introduce in una connaturalità, in una parentela con Dio: la fede non è tanto l’adesione a una verità, ma una comunione di amore e di vita con Cristo, con la sua carica di bene, di misericordia, che introduce nell’umano la vita di Dio e la vita umana in Dio. Il credente perciò è colui che ama, non chi pensa solo a Dio, chi agisce come Gesù, non chi parla come lui o di lui. Dicendo per “tutte le genti”, Matteo lo dice per ogni fede religiosa e per tutti i comportamenti umani: c’è una via – quella che per Agostino è “la via” – in cui tutti gli uomini si ritrovano uguali e seguaci di Cristo, cittadini del suo regno, quella dell’attenzione premurosa e concreta a quei “piccoli” che sono gli affamati, gli assetati, i forestieri, i nudi, i carcerati. Questa attenzione riproduce sul volto degli uomini i lineamenti di Cristo: il giudizio sarà la ratifica di questa somiglianza, l’essere riconosciuti figli nell’unico Figlio di Dio. Nella meditazione pensiamo alla gioia nel momento in cui saremo presentati al Padre ed egli ci troverà simili al Figlio e ci dirà: “Prendi parte alla gioia del tuo padrone!” (Mt.25,23). Con queste parole Matteo ci dà una definizione bellissima della vita eterna.
La parola “eterno” è detta anche del fuoco, nel senso di interminabile. La prospettiva di eternità appartiene con sicurezza alla predicazione e può lasciare sgomenti. Gli studiosi dicono che forse l’intenzione di Matteo non è strettamente sull’eternità, come tempo che non finisce, perché il termine ebraico originale significherebbe “tempo lungo, incalcolabile”. La sua intenzione sarebbe stata sottolineare la centralità dell’amore, senza il quale si sbaglia per sempre. L’idea di un Dio giudice inappellabile sembra contrastare con la certezza di Dio padre, amico, sposo. È difficile comprendere come quel Dio, che da sempre domanda all’uomo di perdonare, dimenticare, usare misericordia possa essere in contraddizione con quello che domanda; che dopo aver detto a Pietro di perdonare sempre, 70 volte 7, si smentisca per quanto lo riguarda. Anche noi ci rendiamo conto che nessuno si ritrova pienamente nei suoi errori, identificandosi con essi. Forse Matteo ha calcato i colori con espressioni della cultura ebraica del tempo, per inculcare la verità del giudizio. È un argomento delicato. Dobbiamo rinunciare alla presunzione di imprestare a Dio il codice della valutazione umana.
Matteo ci ha presentato un Cristo glorioso che è capace di vedere e di valutare positivamente ogni piccolo gesto di amore compiuto anche da chi non lo ha conosciuto e venerato, invitandoci così a cercare il positivo in ogni creatura, anche se ha molto sbagliato. Sembra dirci, mentre ci congediamo da lui con gratitudine, l’invito a fidarci di questo amore vittorioso del Padre che si manifesta in Gesù e sapere che questo amore vince sulle ottusità e durezze e che questa vittoria è il suo Regno.
L’accoglienza della pagine di Matteo sulla conclusione della storia è ben preparata dalle parole di Ezechiele che, in polemica con i pastori di Israele interessati e poco fedeli, rivendica a Dio solo il titolo di pastore del suo popolo, che gli appartiene e sarà perciò il “suo gregge”, di cui egli si prende cura direttamente, in senso collettivo e di premura personale e costante. Dobbiamo prestare molta attenzione ai verbi “andrò … ricondurrò … fascerò” – tutti nella prima persona singolare – espressione chiarissima dell’attenzione di Dio per ogni figlio del suo popolo. La forza del messaggio dice quanto stia nel cuore di Dio l’amore paterno per ogni sua creatura, che gli costa l’eterno, continuo abbassarsi su ogni persona e dona la certezza che la morte non è caduta nel nulla, perché tutti saremo accolti dalla sua mano che si cala nel tempo. Allo tesso tempo questo messaggio richiede la fedeltà per chi deve esserne mediatore tra lui e il suo popolo. L’infedeltà nel servizio porterebbe alla revoca dell’incarico della mediazione.
Il testo del capitolo 25 di Matteo, con immagini che provengono dai profeti, presenta Gesù glorioso nella veste di giudice definitivo della storia. Non è una parabola, neppure un insegnamento autoritario e minaccioso. Ma è una descrizione che rivela la realtà alla luce della verità escatologica, cioè ultima e definitiva.
Matteo ci mette di fronte ad un dialogo serrato, premio o rifiuto, stupore, spiegazione. Per quattro volte vengono ripetuti i vocaboli che indicano le opere di misericordia, già indicate da Isaia e presenti nella tradizione ebraica. Dio è colui che fin dalle origini interviene nella storia, ama per primo: la sua presenza provvide a vestire Adamo ed Eva nudi, fu lui che ascoltò il gemito del popolo, schiavo in Egitto, e scese dal cielo per condurlo verso la libertà.
Al di là della materialità delle opere compiute o non, che potrebbero essere considerate un programma etico, nel discorso di Gesù la novità sta nel fatto che il giudice si considera oggetto delle azioni, anche se coloro che le compiono o non siano stati in grado di riconoscerlo o meno, anche per chi non ha riconosciuto la sua presenza. C’è come una luce che suscita stupore, riconoscenza, lode al Signore, che rende universale la salvezza, perché il metro di essa consiste nella misericordia verso i più bisognosi. L’appartenenza al Regno non esige l’esplicita conoscenza di Cristo, ma solo l’accoglienza concreta del fratello bisognoso: lo spazio della speranza si allarga.
I discepoli che hanno avuto la grazia di riconoscere il Signore nel dono di sé sulla croce dovranno testimoniarlo seguendolo, nella concretezza dei gesti operativi di accoglienza e condivisione, a cominciare dalla premura per “questi miei fratelli più piccoli”, espressione che fa pensare ai portatori del vangelo. Così renderanno visibile nella storia la realtà intima di Dio, l’amore che si prende cura di persona dei più piccoli e deboli. Proprio come aveva fatto Gesù in tutto il racconto di Matteo, non parlando del bene, ma facendolo.
Ripercorriamo il camino fatto seguendo il vangelo di Matteo.
“Padre nostro, che sei nei cieli”. Tutto era cominciato così. Poi una lunga teoria di incontri, di parole, di commozioni, di gesti: l’amore a chi ci ha fatto del male, l’elemosina nel segreto, l’occhio limpido che vede il fratello nella luce, la rinuncia radicale al giudizio, il perdono “settanta volte sette”, il superamento degli steccati dell’impurità e degli errori religiosi. Quando Giovanni Battista lo aveva interpellato sul suo compito, Gesù aveva dettato il suo biglietto da visita e Matteo lo aveva scritto: “i ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona novella, e beati colui che non si scandalizza di me” (Mt.11,5).
Questo tutto questo ci ha detto Matteo.
Oggi, mentre – nella conclusione del ciclo liturgico – ce ne separiamo temporaneamente, ci dice che il cielo di Dio sono i poveri, che entreremo nel suo regno solo se saremo entrati nella vita dei poveri, di chi soffre. Ci rivela quello che Gesù gli ha detto, che Dio sta nel posto in cui non vorremmo mai stare, perché ci fa paura e ripugnanza. Su questo entrare il Signore, alla sua venuta, ci chiederà conto, non sulle nostre debolezze, che egli ha pagato in croce.
Dirà Giovanni della Croce nel 1550, nell’Europa delle gradi povertà: “alla fine della storia saremo giudicati sull’amore”. Dio ci chiederà conto del nostro essere entrati concretamente con il bene di un pezzo di pane, di un bicchiere d’acqua, forse del vestito che invecchia nei nostri guardaroba strapieni e che può proteggere dal freddo un nostro fratello…
Questa è la misura che Dio presenta all’uomo, allo scadere della storia individuale e di tutta la creazione. La misura della verità: il povero è lo specchio della verità della vita. Quello che rimarrà di quanto abbiamo vissuto.
Concludiamo con un pensiero di Madre Teresa di Calcutta, scritto in un momento di sofferenza anche fisica. Meditando sul capitolo 16 di Matteo, quando Gesù domanda agli apostoli, “La gente chi dice che sia il Figlio dell’Uomo?” e poi “Voi chi dite che io sia?” (Mt.16,13-15) ella si chiede: “Chi è Gesù per me?” e scrive questa pagina:
“ Gesù è la Verità da dire.
Gesù è la Via da percorrere.
Gesù è la Luce da accendere,
Gesù è la Vita da vivere.
Gesù è la Pace da donare…
Gesù è l’affamato da nutrire.
Gesù è l’assetato da dissetare.
Gesù è l’ignudo da vestire…
Gesù è l’alcolizzato da ascoltare
Gesù è il malato di mente da proteggere.
Gesù è il piccolo che va abbracciato.
Gesù è il prigioniero da visitare.
Gesù è il vecchio da servire.
Gesù è il mio Dio.”
(M. Teresa, malata nel 1983, su Mt.16,15: “Voi chi dite che io sia?)
L’anno della liturgia, che la Chiesa vive come memoria degli avvenimenti di Gesù e come formazione continua alla fede matura, si chiude con la celebrazione di Cristo, Re dell’universo. Essa dice che essere credenti, discepoli del Signore, vuol dire scegliere e restare con perseveranza alla sua scuola di vita, per approdare a Lui. Questo è lo scopo della liturgia, l’incontro ritmato del tempo con Cristo, maestro della verità e pane della vita a cui siamo chiamati nella fede. Egli è il modello e la misura, dal momento che la creazione nasce in Lui, il Logos, il pensiero e la Parola del Padre nell’eternità; per mezzo di Lui ogni realtà è chiamata all’esistenza e trova in Lui il suo compimento, perciò il senso della propria vita. Lo dice san Paolo: “C’è un solo Signore, Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per Lui” (1Cor.8,6).
È, perciò, Cristo colui che opera a favore dell’uomo il discernimento tra quello che vale e quello che non vale, tra quello che resta e quello che non resta. Ed è docilità del credente la tensione a comunicare con tutta la sua vicenda, quella storia drammatica ed affascinante della vita ripresa dopo la morte in croce, che il Vangelo ci trasmette. Accogliere la sua regalità significa accogliere l’interezza della sua vita, anche e soprattutto in quegli aspetti che alla mentalità umana possono suonare contraddittori e provocare il rifiuto. Infatti la regalità che Cristo afferma di sé appare crocefissa e perdente, e perciò estranea ad ogni logica.
Tutti dovremmo interrogarci sulla verità dell’adesione personale e collettiva alla via di Cristo, segnata dalla vergogna della condanna e dall’impotenza a scendere dalla croce, quando la si guardi con i canoni della valutazione corrente, mentre egli la considera il dono più grande del Padre per l’uomo e la vive come il più grande atto di amore di Lui, il Figlio, e di ogni figlio di Dio. Tutti, per vivere nella regalità che celebriamo nella liturgia, siamo chiamati a questo “pensiero” di Cristo, al suo compimento in ciascuno di noi.
Cristo è Re perché ha obbedito a Dio e perciò ha sconfitto la morte. Così è “primizia” dell’umanità, che allora è pienamente viva, quando si lascia coinvolgere da Lui che, attraverso il coinvolgimento, completa la sua opera:
“È necessario, infatti, che Egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi.
L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte”
(dalla II lettura: 1 Cor.15,25-26)
“Cristo regna dal legno”, hanno cantato i primi cristiani. E a questo suo stile di regalità bisogna sempre convertirsi. Gli strumenti dello scherno che i vangeli della passione racconteranno, la canna come scettro, il panno rosso come manto, le spine come corona, nella loro ironia blasfema, in realtà sono segni veri della regalità che Gesù rivendica davanti a Pilato. Perciò la Chiesa, chiamata a sua volta ad essere segno di questa regalità, sa di non poter avere pretese di vittoria e di dominio, nel senso mondano dei termini. E sa di non poter avere dubbi nel capire e proclamare che proprio questo è lo Sposo, il Cristo dileggiato e tribolato nella storia. Deve vivere l’appartenenza al suo Signore nella rinuncia radicale ad ogni seduzione di privilegi, scegliendo al contrario, con altrettanta radicalità, il privilegio del servizio.
Oggi la liturgia propone l’ultima pagina di Matteo con l’annuncio del momento finale della storia umana, non un giudizio di condanna, ma lo svelamento della verità di ciascuno nella propria vita. Ci dice che la vita del Signore, spesa nell’attenzione premurosa a quanti verrebbe istintivo rifiutare e tenere lontano, sarà la misura della valutazione della vita di ciascuno. Gesù è Re per la sua dedizione all’uomo, si è fatto prossimo delle sue necessità: affamato, assetato, nudo, forestiero, carcerato, malato, “ultimo”. Il rapporto di Gesù con i poveri è analogo a quello della madre africana che diceva di sé: “È brutto quando ho fame nel mio stomaco, ma è più brutto quando ho fame nello stomaco del mio bambino”.
Il povero non è Gesù. Ma Gesù, nell’amore, fa sua la fame dell’affamato, la sete dell’assetato, la nudità del nudo, la malattia del malato, la solitudine del forestiero, l’acredine del carcerato. Gesù li ama talmente che le sofferenze e le umiliazioni che vivono le sente su di sé. Questa immedesimazione responsabilizza davanti a Lui, per cui il sì e il no detti ai poveri equivalgono a sì e no detti a Lui stesso.
Tutti i popoli, dice Matteo, non solo i credenti. Credenti e non credenti sentiranno l’abbraccio riconoscente di Lui, “l’avete fatto a me” come risposta ala loro domanda: “Quando?”. Forse Matteo ci vuol donare quello che ha capito vivendo con il Signore, cioè che il cuore e la coscienza di ogni uomo è abitato dal desiderio e dal sentimento, anche senza motivazioni esplicitamente religiose, di condividere la vita nella solidarietà e nella misericordia.
Perciò il Signore ha invitato tante volte, Matteo ce lo ha insegnato bene, a non fermarsi alla realtà esterna per discernere la qualità morale della vita, ma a scendere nel cuore, nel “sacrario” della coscienza, dove abita il Dio della verità e dell’amore.