XXI DOMENICA T.O. – Anno A
(Is 22,19-23; Sal.137; Rm 11,33-36; Mt 16,13-20)
In tutti i Vangeli c’è un momento in cui i discepoli, scelti da Gesù per stare con lui, si trovano in difficoltà. Nel Vangelo di Matteo esso è evidenziato a metà dello scritto, quando l’accoglienza della gente nei confronti del Signore si alterna a problematiche e a rifiuti. Ma il camino verso Gerusalemme prosegue e si avvicina il momento in cui Gesù dovrà affrontare persecuzione e morte. Sarà quello un momento difficile per i discepoli, non solo perché amano il Maestro, ma anche perché temono di essere arrestati anche loro. Ma la croce è per loro anche un problema che potremmo definire teologale: come può il Figlio di Dio dare compimento alla propria opera attraverso l’insuccesso? Anche la spiegazione consueta delle Scritture annunciava un Messia glorioso, trionfante. La croce è scandalo comunque.
Il Vangelo ci mostra Gesù che si rivolge direttamente a Pietro usando l’immagine della pietra fondamentale, per indicare la solidità e l’unità della sua opera e la certezza della indefettibilità della verità che gli affida perché la custodisca e la trasmetta, così da permettere ai discepoli di sperimentare sempre la forza della verità presente nella Parola.
Oggi siamo in pochi e mi è più facile parlare in modo semplice e immediato:
Gesù prevede per la Chiesa un cammino ed un destino simile al suo, con accoglienza e contrasti, fecondità e fallimenti, fortune e sofferenze. Egli assicura che la sua opera durerà fino alla fine del tempo, ma sarà sempre ostacolata per il permanere del peccato, sarà sempre bisognosa di perdono, dovrà costantemente riprendere il cammino. Pietro stesso, che ha nel proprio nome la promessa di stabilità, non è garantito per quanto riguarda la santità personale e non è esentato dalla ripugnanza per la sofferenza, dal vedere la croce come scandalo. La comunità si appoggerà su Pietro, non come persona, ma perché proprio la sua debolezza permette di capire che nel suo servizio c’è un disegno di Dio, una presenza dello Spirito che gli dà la possibilità di insegnare la verità del Vangelo senza tentennamenti. Per questo Paolo avrà la certezza di “non correre invano” (Gal.2,7) e vorrà andare a Gerusalemme per incontrare Pietro, per avere da lui la sicurezza nella fede. Teresa d’Avila cercherà sicurezza in Pietro. Padre Fanuli, il professore di teologia morto circa un mese fa, è spirato con questa fiducia nel Signore, dicendo: “Gesù mi affido a te, Gesù mi fido…”. La grazia della certezza della fede che ci viene dal Signore diventa vita quando ci affidiamo al di là delle nostre incertezze. La fede non è un’opinione, ma una certezza che non dipende dal valore delle persone, ma si fonda sulla grazia, come dono del Signore.
La liturgia ci propone di fare nostre le parole del cap.11 della Lettera ai Romani: la imprescrutabile sapienza di Dio sa fare della piccola persona di Pietro e della realtà umana della Chiesa, tante volte povera e deludente, degli strumenti che permettono l’incontro personale intimo e convinto con Gesù. I discepoli seguono Pietro, ma nella propria responsabilità: a ciascuno di noi, personalmente, Gesù chiede: “Ma tu chi dici che io sia?”. Senza enfatizzare, il milione di giovani che sono andati a Colonia hanno l’esigenza di poter conoscere la grazia che era in Giovanni Paolo II in questo papa che non conoscono. Essi vanno perché il Signore chiama alla fede, che è certezza in Lui.
A noi credenti spesso manca l’esperienza della beatitudine di aver incontrato il Signore, di credere in qualcuno di cui siamo assolutamente certi e di seguirlo in quanto ci propone. E allora nasce la solitudine, che ci fa vivere una fede intimistica e ci toglie la gioia di riconoscerci nel noi della comunità cristiana. Ma Matteo ci dice che la Chiesa è una realtà comunitaria, dove la solitudine è sostituita dalla comunità: la fede di Pietro è la fede degli 11, che la fede degli 11 è la fede di Pietro. Noi cantiamo, preghiamo, celebriamo insieme. Siamo usciti dalla solitudine e nella comunità, quando celebriamo bene la liturgia, quando preghiamo e cantiamo insieme, il nostro cuore diventa caldo, come accadde ai discepoli di Emmaus, che incontrarono il Signore risorto lungo il loro cammino. Nella comunità è vinto il rischio di cadere in una fede generica, che non ha mordente sulla vita. Perciò diciamo nel Credo: “Credo nella Chiesa”.
Oggi in tanti, insieme nella fede, sentiamo che crediamo in “Cristo, Figlio del Dio vivente”. Pietro non perde la sua debolezza. Quando il Signore tornò dalla morte, aspettò sulla riva del lago Pietro e gli altri che tornavano dalla pesca. Con tanta tenerezza preparò per loro il fuoco e il cibo e li invitò a rifocillarsi. E poi per tre volte domandò a Pietro: “Mi ami tu?”. Quello che hai fatto non ha importanza, voglio solo sapere se mi ami. È la fede che conta. È l’amore che conta.
Oggi, fatti più forti dall’unità con la fede di Pietro e dei fratelli che, accanto a noi pregano con noi, ripetiamo a Gesù: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente!”, nella certezza che non si tratta di una giaculatoria ripetuta automaticamente, ma della verità fondamentale della vita.
Chiediamo al Signore la purificazione della mente di fronte ad un testo che può apparire di natura istituzionale, giuridica, che risponde alla esigenza di Gesù di avere un rapporto diretto con i suoi. In una specie di sondaggio condotto sull’opinione che la gente si è fatta di lui – e specialmente sulla loro di discepoli in senso più radicale – prima di presentare le esigenze più ardue, già dal versetto 21 del capitolo 16, Matteo riferisce due domande del Signore: “chi crede la gente che io sia?” e poi incalzando: “ma voi?”
Nella meditazione personale e nella celebrazione liturgica si avverte come se Gesù volesse incalzare le singole persone con una provocazione bella e impegnativa, dicendo che – al di là dell’opinione della gente e quella dello stesso gruppo che lo segue – la domanda attende un risposta intima, perché le domande importanti della vita sono al singolare. Egli fa questa domanda prima di introdurre l’annuncio della sua passione e morte.
Meditando le parole di Matteo possiamo avvertire la voce di Gesù chiedere a ciascuno di noi, come una provocazione che suscita impegno: “ma io chi sono per te?”, “che cosa pensi e provi per me?”. Perciò è importante la fede che Pietro esprime con convinzione personale, anche se certamente con il consenso degli altri. È questa adesione senza riserve che lascia libero il Signore di rivelagli il progetto su di lui. Nella nostra vita interiore sperimentiamo che quando ci difendiamo in nome della prudenza e della opportunità, Dio non è libero di parlarci, di farci la sua proposta: Egli può entrare solo nel vuoto di noi stessi. È l’esperienza che ci è dato di fare nel cammino di fede quando, davanti a Dio che ci parla in cuore, gettiamo via le incertezze, e i ragionamenti che accrescono le paure: allora sperimentiamo l’accessibilità delle “cose grandi” che Maria ha cantato, il “beato te” di Gesù a Pietro.
In realtà il discepolo, con tutti i suoi limiti, è chiamato a diventare “pietra”, roccia sulla cui solidità si appoggia la comunità, e “chiave” che permette l’accesso alla stanza del re – come il maggiordomo evocato da Isaia, al capitolo 22 – quella intimità con Dio che è l’aspirazione del cuore umano ed è il progetto compiuto di cui la Chiesa è serva, “la dimora d Dio con gli uomini”, profetizzata dall’Apocalisse (Ap.21,3). La “mia Chiesa”, la comunità, non sarà di Pietro, ma sarà sempre di Gesù che la conduce a Dio Padre, e proprio questa appartenenza a Gesù la renderà capace di non soccombere ad avversità e persecuzioni. La professione di fede di Pietro, proprio perché frutto della grazia ed espressione della verità di Dio nella persona di Gesù, sarà il sostegno della fede della comunità, la chiave per dimorare con Lui.
La comunità è aggregata innanzitutto dall’aderire alla fede insieme, con fiducia senza limiti. Avrà in Pietro, per la grazia della fede accolta e custodita, il punto di verità e di adesione al Signore, che le permetterà di essere carismatica, di essere contemporanea ai mille interrogativi della storia con le mille risposte concrete che il vangelo suscita in ogni tempo.
Possiamo così guardare con riconoscenza e fiducia a quello che Matteo ci dice del compito di Pietro, con chiarezza e senza enfasi. Pietro sta nella Chiesa come colui che mostra il Risorto presente tra i suoi, e fa così in modo che ogni discepolo diventi a sua volta roccia e chiave, testimone nel mondo di fraternità e di pace. Pietro, con il suo servizio, è strada perché non facciamo di Cristo una dottrina, qualcosa che conosciamo, o una morale, qualcosa che esigiamo come legge, ma la Persona che ci ha preso la mente e il cuore, di cui non ci stanchiamo. Pietro, non esercita un potere, ma compie un servizio, quello che, nel vangelo di Luca, dopo la cena, Gesù gli affida: “… ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli” (Lc.22,32). Sul lago, dopo la resurrezione, Gesù per tre volte gli domanda: “Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu più di costoro?” (Gv.21,15). Gli chiede un amore più grande, per essere capace di servire.
Così comprendiamo meglio la nostra vocazione alla Chiesa, l’organismo vivente, che conosce funzioni e servizi preziosi, necessari perché si attui l’azione insostituibile di Gesù, funzioni e servizi che non sono mai occasioni di privilegio e di comando. La comunione con Dio è uguale in tutti, questa è la grazia che ci viene donata nella Chiesa; la Chiesa è il luogo dove Dio abita, è il suo popolo, più che alcuni discepoli, chiamati individualmente ad esercitare funzioni importanti. Non vi sono posti privilegiati nella Chiesa, non uffici che garantiscono una maggiore comunione con lo Spirito, è solo l’amore che permette questa comunione.
Perciò chi aiuta di più la crescita della Chiesa non sono i capi, ma i santi. Loro sono la voce che parla più chiaramente in nome di Dio. È quello che, grazie a Dio, la Chiesa del nostro tempo ha compreso ed insegnato nel Vaticano II. Ed è quello che Benedetto XVI ha ricordato mercoledì 20:
“Non necessariamente è grande santo colui che possiede carismi straordinari. Ce ne sono infatti moltissimi i cui nomi sono noti soltanto a Dio, perché sulla terra hanno condotto una vita apparentemente normalissima.
E proprio questi santi “normali” sono i santi abitualmente voluti da Dio.”
Matteo oggi ci consegna il servizio di Pietro come centro di carità e di comunione tra tutti i credenti.
Dobbiamo essere grati di questo dono e pregare per viverlo.
Ė come un cambio di stagione nel vangelo di Matteo. Dopo quella dell’incontro con le folle, segnata dagli insegnamenti e dai gesti di compassione, e dopo i momenti di polemica con i sostenitori della tradizione che Gesù sembrava trascurare perché portava uno stile nuovo (“Ma io vi dico” aveva ripetuto), viene il tempo di andare in profondità nella formazione del gruppo ristretto dei primi chiamati, che dovranno condividere quello che accadrà dopo. Gesù chiede loro di “passare all’altra riva”. C’è bisogno di un clima raccolto, perciò la separazione temporanea dalla gente e dalle occupazioni, un clima forte di preghiera e di coscienza di essere partecipi di un’azione di Dio, uno spazio di tempo per essere introdotti alla conoscenza della vera identità di Gesù, della sua scelta radicale, del perché in fondo alla strada verso Gerusalemme che percorrono con lui vi debba essere la passione, per lui ma anche per loro che sono stati chiamati a condividerne la “via”. C’è bisogno di aiutare i discepoli a rinnovare la scelta di Dio con maggiore radicalità di quella fatta al momento della prima chiamata. Perciò le due domande raccontate dai vangeli sinottici: “La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?” e: “Ma voi chi dite che io sia?”.
Le opinioni della gente contemporanea di Gesù non erano del tutto sbagliate, perché radicate nella storia e nella fede, nelle parole dei profeti e nel’attesa. Ma non potevano raggiungere l’identità di lui. Così, anche oggi vediamo tante opinioni su Gesù che non riescono ad entrare nel mistero del divino in lui. Anche per noi occorre la conoscenza che nasce e si irrobustisce nel rapporto umile e docile con la Sapienza. Pietro è il segno di questa verità: la sua risposta non è frutto della solidità intellettuale o etica, neppure della sua passionalità entusiasta del Maestro, ma è rivelazione del Padre “che è nei cieli”. Gesù lo dice beato per questo rapporto e lo incarica di custodirlo per la prima comunità e per sempre.
I cristiani in ogni tempo dovranno sapere che la conoscenza dipende dal rapporto di ciascun credente con il Maestro, tra chi segue e la “via”. È questo che permetterà loro di non venire assorbiti dall’opinione umana che considera come follia la croce, e di cui Pietro avverte di portare il condizionamento anche dopo aver ricevuto l’incarico di confermare i fratelli (Lc.22,32); fino al punto di ricevere una risposta brusca al suo tentativo di evitare la tragedia della croce: “Và dietro a me, satana! Tu mi sei di scandalo perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mt.16,23).
Matteo appare addirittura impietoso nel sottolineare i difetti di carattere di Pietro e le sue contraddizioni. Pietro non è soltanto il primo che si fa portavoce degli altri discepoli, ma colui che ha paura, che rifiuta la sofferenza, che si preoccupa di chiedere: “Quale ricompensa avremo?” (Mt.19,27), che rinnega tre volte nella notte della passione, che non sa interpretare la tomba vuota prima dell’apparizione del Risorto. Ma Pietro ama Gesù. E Gesù guarda il cuore, perché è Dio. E Dio aveva detto a Samuele del ragazzino Davide scelto come re: “L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore” (1Sam.16,7). Questo ci conforta tanto, perché tutti somigliamo a Pietro nelle contraddizioni. Pietro è affascinato dalla luce di Gesù, lo vuol seguire e difendere, ma il sapersi e sentirsi inadeguato ad un amore radicale lo opprime fino a condurlo a dire: “Signore, allontanati da me che sono peccatore” (Lc.5,8). Ma il Signore non si allontana perché “guarda il cuore”. Nel guardare il cuore sta il motivo della scelta che Dio fa, il segreto di ogni incarico a cui Egli chiama per il bene del suo popolo. E Pietro accoglie e custodisce il dono di sapere che Dio può fare di un peccatore un santo, di un debole uno che può portare la responsabilità di “confermare i fratelli” (Lc.22,32). Alla fine del discorso eucaristico Giovanni gli farà dire, quando tutti se ne vanno: “Signore da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna” (Gv.6,68).
I cristiani, pur professando la fede con amore sincero, hanno sempre la necessità di venire istruiti dal Signore sulla sua “via”. Oggi, tutti noi ci sentiamo spinti da mille paure a prendere da parte il Signore per consigliargli il “buon senso” di accantonare la croce, condizionati come siamo dalle opinioni “della gente”.
E quando ci sembra di non essere ascoltati, continuiamo a pregare per esserne esentati, in nome del bene giochiamo di furbizia con Dio. Continuiamo a pensare “secondo gli uomini”!
È il cammino incessante a cui ognuno di noi è chiamato nella fede, fino al momento dell’incontro da vicino con il Risorto.