XXIII DOMENICA T.O. – Anno A
(Ez 33,1.7-9; Sal.94; Rm 13,8-10; Mt 18,15-20)
Le parole drammatiche di Ezechiele ci dicono che la grazia e la misericordia del Signore passano attraverso la coscienza credente: la coscienza di chi ha interrotto il proprio rapporto con il Signore, ma si sente chiamato a cambiamento di vita, quella di chi è strumento di misericordia e mai può agire con superficialità.
Sempre più, nella meditazione degli scritti profetici e della sua stessa storia la comunità cristiana comprende che il debito dell’amore fraterno si vive nei fatti, perché ogni condizione umana possa essere raggiunta dall’amore che risana.
Il capitolo 18 del Vangelo di Matteo è una “istruzione di vita comunitaria”, che indica ai cristiani il modo più opportuno per mettere in pratica gli insegnamenti del Signore nelle diverse situazioni. Ne è premessa la constatazione che la comunità, quale traspare dai quattro Vangeli, non è mai ideale: vi sono arrivismi e smanie di prestigio, cattivi esempi e indifferenze verso gli umili. Rivalità e risentimenti sono realtà presenti tra i cristiani, sia pure insieme a tanti atteggiamenti positivi, che mantengono nella fedeltà. Anche il gruppetto scelto dei discepoli che seguono Gesù vive queste contraddizioni. Luca ci mostra i discepoli che discutono su chi fra loro possa essere considerato il più grande, proprio durante l’Ultima Cena (Lc.22,24).
Matteo sente il bisogno di ricordare ai cristiani della sua comunità e a tutti noi, alcuni insegnamenti di Gesù che riguardano sia i “piccoli” che i “fratelli”. I “piccoli”, i “poveri”, non devono essere trascurati e tanto meno scandalizzati a motivo dei comportamenti della comunità, non ridotti a “Cristiani di serie B” solo perché non sono andati a scuola. Matteo distingue i piccoli, i “tapinoi”, le persone senza rilevanza e i “fratelli”, più maturi, ma che spesso possono desiderare di essere guardati dagli altri. Essi sono soggetti alla gelosia e alla preoccupazione del prestigio, quel pensiero dei “primi posti”, che era stato il tarlo della convivenza del dodici. L’insegnamento del Signore – ci dice Matteo, concludendo la prima parte del capitolo sulla vita comunitaria – è paradossale, ma chiaro: nell’andare dietro a lui, come ha detto a Pietro (16,22) è avvantaggiato non chi non ha personalità, ma chi sa perderla per amore, non chi non sa ragionare, ma chi sa perdere il prevalere del proprio ragionare per il bene di tutti. La piccolezza evangelica non è infantilismo, la povertà di spirito non è deficienza: essere bambini davanti a Dio, aperti alla diversità dei fratelli è aderire a Gesù, è renderlo visibile tra gli umili. È un ideale altissimo, una sfida che anche oggi richiede convinzione e decisione, un pensiero che non sia dipendente dal sentire comune. Chiede al cristiano di non educare i ragazzi a cercare a scuola il primo posto, gli adulti ad essere costruttori di giustizia nella società, senza preoccuparsi di raggiungere la vittoria del proprio progetto personale. A questo sono chiamati i cristiani anche se spesso la vita religiosa sembra smentirlo.
Matteo fa riferimento a casi privati di offese personali ed a casi pubblici, che feriscono la vita comunitaria. Al singolo credente ricorda l’insegnamento di Gesù: il bene del fratello che ha sbagliato verso di te viene prima della fatica che ti viene domandata di andare verso di lui per aiutarlo a comprendere l’errore e per sostenerlo nel riprendersi. Già nel capitolo 5 Matteo ci aveva riferito le parole del Signore: quando portiamo un’offerta all’altare, se ci ricordiamo che un fratello ha qualcosa contro di noi, dobbiamo andare prima a riconciliarci con il fratello, non attendere che sia lui a farlo (Mt.5,23-24). Bisogna assumersi la fatica di muoverci per primi: così, dice Gesù: “avrai guadagnato un fratello”. Così si diventa famiglia di Dio, Chiesa.
A questo è chiamata la comunità ecclesiale, non a nascondersi nella tolleranza, ma a vivere nella verità. Così nei confronti di chi vive la rottura del matrimonio e non può avvicinarsi all’Eucarestia, così nei confronti di chi compie ingiustizie economiche, sociali e politiche. Ma, ci dice Matteo, Gesù sostituisce alla consuetudine farisaica di allontanare il fratello che sbaglia, l’atteggiamento della discrezione, della fiducia, dell’affetto: “va’ da lui” è la parola di Gesù che ci interpella. Dio rispetta le coscienze: “In linea di principio Dio è con la Chiesa come è con ogni uomo, ma non sostituisce nessuno, né l’una né l’altro, nella propria responsabilità e decisione come non libera dagli inevitabili errori” scrive Ortensio de Spinetoli.
L’insistenza nel ritentare per evitare la rottura dei rapporti fraterni, dice quanto debba essere forte la trepidazione di perdere qualcuno, con il rischio della deriva, del rimanere senza Cristo e senza speranza. La comunità deve restare fedele all’atteggiamento del pastore verso la pecora smarrita. Egli “lascia le novantanove … per andare in cerca di quella perduta… se la pone sulle spalle…”. Così Gesù trattava pagani e pubblicani: mostrava una preferenza per loro, mangiava con loro, li invitava, si invitava alla loro tavola.
Infine Matteo ci dona una luce preziosa, che si fa strumento di grazia per l’umanità: ci dona la certezza della presenza di Cristo risorto là dove i discepoli sono “riuniti nel suo nome” e vivono impegni e fallimenti, preghiere e angosce con lui. Il verbo che usa è “sinfonein”, il tendere alla “sinfonia” con l’altro, per consentire la presenza del Signore tra noi. Radunarsi nel nome di Gesù significa raccogliersi intorno alla sua persona, per portare avanti la sua opera. Gesù è presente perché è proprio questo che gli sta a cuore: impegnare la comunità intera e ciascun credente a rapporti ben radicati nell’amore reciproco, che permettano la presenza del Signore. Come per dire la propria gioia, egli garantisce l’esaudimento della preghiera, frutto dell’amore fraterno oltre che della fede in Dio.
Abbiamo dunque la presenza di Dio quando siamo attenti ai fratelli.
Oggi il vangelo di Matteo ci dona la parola che il Signore rivolge ai suoi discepoli nel capitolo 18: è una catechesi prolungata sulla vita interna della comunità. Sarebbe molto fecondo per il nostro cammino leggere tutto questo discorso, il discorso detto “ecclesiastico”.
Quella dei cristiani a cui si rivolge Matteo intorno al 70 d.C., è una comunità umana, convocata ed aggregata dall’adesione al vangelo, e composta ovviamente da gente non perfetta – come tutti noi. Tra i destinatari dello scritto, come tra quelli cui si riferiscono Pietro e Paolo nelle lettere, sono presenti quei limiti che rendono faticosa ogni condizione umana: le preoccupazioni di prestigio, la difficoltà nel perdonare, i cattivi esempi, la noncuranza per i bisognosi. Sono limiti che non oscurano gli aspetti positivi di un’esperienza che si va facendo sempre più chiara. La comunità che vive nel mondo legge e medita la parola, si alimenta dell’Eucarestia, si preoccupa dei più deboli, combatte gli scandali e promuove il perdono dei peccati e la riconciliazione fraterna senza contare le volte, è credibile e amabile: ci insegna che il vangelo non è un’utopia, si può vivere. Appare come una grande famiglia, quasi non bisognosa di responsabili, nel senso gerarchico del termine. Più che una comunità organizzata e ben strutturata è una comunità dove Gesù stesso è il capo di quanti sono riuniti nel suo nome e rimane con loro.
Matteo insegna che “premessa” alla vita della comunità chiamata a godere della presenza del Signore è la rinuncia seria a quelle regole di prestigio e grandezza che sono il dinamismo della mondanità, la molla che ordinariamente fa emergere nella convivenza umana. Perciò dice che il progresso spirituale cristiano deve essere considerato come un cammino in senso opposto, nella dimensione dell’umiltà, della piccolezza, del disinteresse. Qualche secolo dopo Agostino scriverà ai suoi sacerdoti:
“Vi accorgerete di aver tanto più progredito nella perfezione, quanto più avrete curato l bene comune, anteponendolo al vostro”.
(Regola …)
Gesù, nel Discorso della Montagna, aveva invitato a far proprio l’atteggiamento dei poveri in spirito; insegnando il suo pensiero sulla Chiesa domanda l’umiltà, perché essa possa essere espressione visibile della fraternità, che è il massimo segno del regno di Dio. Perciò pone come simbolo concreto della propria parola un bambino, di cui in genere si presume la semplicità, l’accondiscendenza, la fiducia nel lasciarsi condurre.
Ricordandone le parole, Matteo invita i cristiani ad uno dei passi del vangelo che richiede più coraggio: il più grande, nel senso di maturità nel discepolato, è chi abbandona il proprio pensiero per amore del pensiero e dell’agire comune. Più sa svuotarsi di sé, più è idoneo ad essere riempito dalla carità e a diventare strumento docile di Dio.
È lo spirito dell’infanzia, che non è puerilità, come la povertà di spirito che non è dabbenaggine, ma adesione fiduciosa all’azione di Dio. Colui che ama senza calcolo è vero discepolo di Gesù, un membro vivo della comunità, perché non pone ostacoli personalistici e può convivere con i più piccoli, senza scandalizzarsi.
Viene da pensare ad una qualità spirituale che diventa stile di vita, ad una condizione di coscienza che rinuncia radicalmente al giudizio negativo anche nei confronti di chi abbia fatto del male e mette in risalto quella che si potrebbe definire la “eccedenza” cristiana: guardare oltre l’ottica puramente umana, dove c’è la novità della proposta di Dio. È una qualità interiore, che viene dallo Spirito, è il dono della “ingenuità”, come onestà della mente, libera da pregiudizi nei confronti dell’altro. Ricordando l’esperienza drammatica di trincea nella prima guerra mondiale, da cui tornò mutilato per sempre, Igino Giordani scriveva:
“Quando ho visto un soldato ungherese o austriaco ferito in un crepaccio di roccia, io non lo ho saputo odiare. Reo di lesa patria? Pazienza. Non ho saputo spremere dal mio tessuto spirituale una stilla d’odio. E anche di fronte a quella faccia smorta e atterrita mi sono ricordato della parola di Gesù: vedesti il fratello, vedesti il Signore”(da: “Rivolta Cattolica”)
Tutto questo permette una comprensione più diretta e forte di quello che ci propone il brano di oggi, e che ci proporrà tra una settimana Matteo, alla fine del suo capitolo 18, che sarebbe bene leggere con calma. Si tratti di offesa personale oppure collettiva, i cristiani sono tenuti al perdono, a non lasciare solo chi ha sbagliato, ad avvicinarlo. Gesù da quasi un ordine: “va’ e ammoniscilo, tra te e lui solo” ed invita a preferire il bene del fratello al proprio disagio personale: “avrai guadagnato un fratello”. Questi sono i segni di un discepolato che manifestano la presenza del Risorto tra i suoi: essi restano deboli e fragili, ma sono resi forti da Lui, il riconciliatore dei cuori.
Anche la preghiera comune dei credenti dovrà essere finalizzata alla concordia: quando c’è consenso nella preghiera. il Signore collabora con la comunità in cui dimora e la preghiera diventa ”potente”. Quel consenso permette alla sensibilità paterna di Dio per le necessità dell’uomo di manifestarsi in maniera efficace ed evidente, “qualsiasi cosa” gli venga chiesto.
Così Matteo ci ricorda che la Chiesa, in ogni sua dimensione, dalla famiglia al convento, dalla parrocchia alla diocesi, dalla singola coscienza alla universalità della guida del Papa, è veramente se stessa quando si raduna intorno alla presenza di Gesù, ne medita l’insegnamento e si sforza di seguirne l’esempio, assumendo l’impegno di portare avanti la sua opera.
“Se tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fa te e lui solo;
se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello”
La comunità cui Matteo ricorda le parole del Signore nel capitolo 18, vive il cammino della fede trasparendo elementi di contraddizione, tipici di ogni aggregazione umana, non corrispondenti all’ideale che deve vivere e testimoniare. Assieme alla luce dei segni positivi – la frequenza nella meditazione della Parola, la liturgia eucaristica e gli altri momenti di preghiera e formazione comunitaria, la difesa dei più deboli – emergono arrivismi, ricerca di prestigio e di posti di rilievo, trascuratezza nel servizio dei poveri e anche rivalità e risentimenti personali. È il cammino della Chiesa che, fin dai primi tempi, sperimenta le difficoltà, a volte drammatiche, che le provengono dal di dentro, quando le esigenze evangeliche della rinuncia alle proprie idee e sensibilità per il perseguimento del bene comune, non sono accolte e praticate con convinzione sincera e generosità.
Matteo dedica uno spazio ampio alla necessità di conversione, domandando di prendere esempio dai bambini che non hanno secondi fini, di guardarsi con estrema attenzione dall’essere di ostacolo, di scandalo, alla fede dei fratelli, che “credono in me”, dicono le parole di Gesù.
Matteo domanda ancora di andare alla ricerca di chi si è sviato con la parabola della pecora sbandata e smarrita, domanda che fa pensare a quanti sono delusi dalla comunità particolare e dalla Chiesa stessa. I cristiani dovranno praticare il perdono senza chiedersi fino a quante volte dovranno farlo, “fino a settanta volte sette”.
Come superare la colpa? Come vincere il male in chi lo subisce e in chi lo compie? Sono domande che toccano ogni esistenza umana, interpellano ogni coscienza, perché l’esperienza dice che la ritorsione non ferma il male, ma lo accresce. Il Vangelo è tutto percorso dall’annuncio del perdono, non solo in senso morale, ma teologico: Dio è Dio del perdono perché ama. Questo suo “essere” nel perdono insegna che l’uomo non si può presentare davanti a Lui se non si è riconciliato con il fratello. Le parole che fanno rivivere chi è stato colpito e chi, ha colpito, i verbi della vita riconciliata sono: “andare da lui”, “cercarlo”, “rimettere”, guardando a come Dio fa nei confronti di tutti noi, di ciascuno di noi. Questa è la condizione per un vero culto cristiano: Matteo lo ha ricordato già nel discorso del monte (Mt.5,23), e proposto come richiesta quotidiana nella quinta domanda del “Padre nostro”.
Ha scritto il Papa nel suo libro su Gesù:
“Che cosa è veramente il perdono? Che cosa avviene lì? La colpa è una realtà, una forza oggettiva; essa ha causato una distruzione che deve essere superata.
Perciò perdonare deve essere di più di un ignorare, di un semplice voler dimenticare…
Il perdono ha un suo prezzo, innanzitutto per colui che perdona: egli deve superare in sé il male subito, bruciarlo dentro di sé così da coinvolgere poi in questo processo di trasformazione anche l’altro”
(“Gesù di Nazaret ” 1, p.190)
Davanti a questa proposta ci troviamo con tutto il nostro limite. Non abbiamo la forza di superare il male, di guarire le ferite, di pacificare la memoria. Solo il pensiero della croce può aiutare, il pensiero che Dio, per perdonare le colpe di tutti noi, per darci la guarigione e la pace, ha pagato il prezzo del Figlio crocefisso. Ma questo non ci sembra logico e giusto. Ancora più faticosamente, a motivo della cultura individualistica, ci convinciamo che il male, comunque e dovunque operante, ferisce l’umanità intera e la debilita sempre di più e che il bene, il bene del perdono, la risana. Dobbiamo imparare ad aiutarci, a domandare, “nel mio nome” dice Gesù, di avere il più di forza per perdonare ed essere riconciliatori, gente che getta ponti e ricostituisce rapporti. Proprio perché la spinta del mondo è verso la ritorsione e spesso verso il rancore, l’odio che cerca solo l’annientamento di chi ha sbagliato nei nostri riguardi, con la conseguenza di solitudini e di amarezze senza fine, i cristiani devono sentire la responsabilità di essere misericordiosi e operatori della pace. “Nel mio nome”. È come dire: se la ricerca del perdono e l’impegno per la pace saranno vissuti senza distogliere lo sguardo da Cristo in croce, allora io sarò con voi a moltiplicare le vittorie dell’amore.
Dice ancora il Papa:
“Il superamento della colpa richiede il prezzo dell’impegno del cuore, della nostra esistenza, che è possibile solo attraverso la comunione con Colui che ha portato il peso di tutti noi”.
(ivi)
Perciò non si può esigere, ma proporre come segno altissimo di Dio che ama sempre.
La domanda del perdono che rinnoviamo anche oggi è chiamata a contemplare il prezzo della discesa nella miseria dell’esistenza umana, un invito a metterci con il Signore a vincere il male con la forza dell’amore. Sapendo che questa forza non è capacità del nostro cuore, perché ogni giorno torniamo ad essere debitori. Ma la preghiera introduce la debolezza nella forza dell’amore di Cristo, ci rende attivi con Lui per essere forza di guarigione.
Maria che in questi giorni cantiamo “madre di misericordia” ci aiuti.