XXVI DOMENICA T.O. – Anno A
(Ez 18,25-28; Sal.24; Fil 2,1-11; Mt 21,28-32)
Matteo è l’annunciatore forte della paternità di Dio, unica, universale, fedele, che propone a tutti gli uomini la possibilità di avere con Lui la stessa relazione filiale che Gesù mostra nella sua umanità e che Giovanni descrive, contemplandola nell’eternità con profondità e abbondanza di sfaccettature. Matteo conosce bene l’umanità e vede come la paternità di Dio rende gli uomini uguali tra loro, ma tuttavia il loro rapporto con Lui – rapporto di figli con il Padre – si diversifica nella libertà dei cuori, raggiungendo anche a volte toni drammatici.
Il capitolo 21 racconta insegnamenti e gesti forti del Signore, arrivato a Gerusalemme – la purificazione del tempio, la maledizione del fico che non porta frutti, la disputa con i sacerdoti. Questo insegnamento di Gesù, ormai vicino all’ora della passione, domanda impegni veri nel culto e nella vita. La parabola dei due fratelli è il segno di due modi diversi di rapportarsi all’unico padre: c’è il modo formale, c’è quello reale, vero. Ogni lettore del Vangelo è invitato a specchiarvisi, per identificarsi davanti a Dio, per capirsi, ma anche per capire sempre più Dio.
La risposta formale del secondo figlio è netta e dura, come quella di tanti adolescenti: “non ho voglia”, ma poi egli va realmente a lavorare. L’atteggiamento del primo, invece, è ossequioso, la sua risposta correttissima – chiama anche il padre “signore” – ma lui non va a lavorare. Gesù conclude la parabola con una domanda retorica, una domanda che contiene già la risposta: “Chi dei due ha compiuto la volontà del Padre?”. Essa porta alla sintesi di tutta l’etica cristiana, sottolineata più volte da Matteo: il Vangelo è vita quando lo si attua concretamente, il riconoscimento solo formale è di chi è figlio solo a parole, non in senso reale.
Che significa: “fare la volontà di Dio”? Significa portare avanti concretamente la sua opera , in se stessi e negli altri, come sta facendo Gesù ora, nel capitolo 21 di Matteo, in cui ci viene presentato nell’obbedienza al Padre, vissuta attraverso il duro impatto con Gerusalemme, infedele perché chiusa. La parabola contrappone due atteggiamenti religiosi, uno falso e uno vero, due categorie di discepoli di Gesù: quelli che ascoltano e non praticano, quelli che mettono in pratica dopo aver recalcitrato nel primo tempo della chiamata, perdendo tempo come i braccianti nella piazza, che abbiamo incontrato domenica scorsa, nel capitolo 20.
Matteo pensa alla sua e alla nostra comunità cristiana, a quelli che dicono: “Signore, Signore”, ma non sono disponibili alle esigenze del Vangelo – come egli ha già sottolineato al capitolo 7, concludendo il Discorso della Montagna. La disobbedienza consapevole e libera al volere di Dio conduce alla perdita del rapporto vero con Lui. Non essere attenti al “sì” del cuore e della vita può portare a non sentirsi più figli, fino all’incredulità. Matteo sa, anche per sua esperienza personale (come abbiamo visto al capitolo 9, quando Gesù lo ha chiamato, mentre era seduto al banco di esattore delle imposte per conto dei romani) che il contatto con Gesù può produrre veri e propri cambiamenti di vita anche in chi, per le scelte fatte in precedenza, è ritenuto non ammissibile nel “recinto dei giusti”. Con le parole: “i pubblicani e le prostitute vi passeranno avanti nel regno di Dio” (21,31) Gesù vuol far capire che niente nella vita dell’uomo deve essere considerato come scontato: dopo il “sì” può esserci il “no”, dopo il “no” la docilità alla chiamata. Per tutti la parabola è un ammonimento a temere per la propria continuità e perseveranza: tutti possono diventare figli ribelli, come tutti i ribelli possono diventare docili. Non vi sono posizioni di scontata sicurezza. Siamo provocati, come dice Ezechiele nella prima lettura, ad essere uomini e donne di coscienza. Il “sì” a Dio nella nostra vita è fatto serio.
All’uno e all’altro figlio il padre della parabola si rivolge con affetto e fiducia: “Figlio, và oggi a lavorare nella vigna”. “Oggi” è detto con chiarezza. Nella vita di ogni discepolo di Gesù c’è la responsabilità per quello che accade a lui e al suo prossimo, la responsabilità dell’essere chiamati al lavoro per un mondo secondo il cuore di Dio. Il cristiano sa che questo mondo non sarà mai pienamente realizzato nel tempo, perciò non mitizza mai un progetto politico, ma sente di dover essere “fedele ala terra “ (come ha detto Bonhoeffer), in maniera concreta, secondo le proprie possibilità. Il monachesimo, che sorge nella Chiesa dopo le persecuzioni, nel IV secolo, non è mai fuga dal mondo, non prescinde mai dalla sorte della gente. Il monaco, anche l’eremita, è sempre un referente per l’uomo in cerca di senso. Perciò il lavorare nella vigna non si esaurisce mai nella sola professione di fede o nella celebrazione rituale, ma è vita vissuta nell’ordinarietà del quotidiano. Quando le situazioni vengono immobilizzate nei riti, c’è sempre decadenza nella Chiesa e aridità per la società civile.
“Oggi”, dice la parabola: la vera fedeltà a Dio sta nella condivisione, nella solidarietà, nel lavoro per la fraternità, perciò nella fedeltà alla terra nella realizzazione della volontà del Padre, nella logica delle Beatitudini.
Vale ricordare che quando, un giorno, dicono a Gesù: ci sono tua madre e i tuoi fratelli che vogliono parlarti, Lui dice “stendendo la mano verso i suoi discepoli: “Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella madre” (Mt.12.49-50).
Non c’è progetto più alto: essere fratelli, sorelle, madri di Gesù.
Ringraziamo il Signore che, attraverso la liturgia di questa domenica, ci permette una meditazione che tocca le nostre coscienze, stimola il nostro impegno.
Un filo lega i tre brani della Scrittura, che abbiamo ascoltato: l’invito a considerare seriamente la risposta personale e responsabile a Dio, che ci fa il dono dell’esistenza e della fede.
Ezechiele ha vissuto la sua missione profetica durante l’esilio a Babilonia: sono stati oltre 60 anni vissuti in una situazione durissima, paragonabile a quella dei lager o dei gulag. Egli combatte la deresponsabilizzazione che insidia la speranza del popolo deportato, alimentata dai propagatori di scetticismo; essi insegnavano che il peccato dei padri aveva causato la perdita definitiva dei beni ricevuti in promessa e della stessa alleanza con Dio. Le generazioni nate nell’esilio, anche se non ne erano state protagoniste, subivano le conseguenze della colpa dei padri: ora si sentivano senza avvenire, come sperare?
Il profeta chiama in causa la solidarietà nel bene e la responsabilità personale. Chi assume la vita nelle proprie mani, anche dopo aver sbagliato; chi, riflettendo, si allontana dalla propria colpa e ridiventa protagonista di se stesso nella verità, compie un’inversione di tendenza, un giudizio di verità nella propria coscienza, che rimette in vita, “fa rivivere se stesso”,
sperimenta la possibilità di diventare elemento positivo nella società, costruttore di unità. Tutto il creato viene ad essere così riarmonizzato.
Matteo, nel capitolo 21 riporta parole e gesti di Gesù, che si riferiscono all’unità di vita che i credenti devono impegnarsi a raggiungere senza separare la professione di fede dalla vita, la dimensione religiosa da quella etica. Egli ribadisce che non è tanto importante il comportamento perfetto da presentare al Signore o il non avvertire reazioni di resistenza o di ribellione a quello che ci viene domandato nella vita, ma importante è quel riflettere che induce al superamento delle proprie difficoltà quando viene chiesto di rinnegarsi e non è dato vederne la positività. Importante è l’adesione fiduciosa alla chiamata. Matteo coinvolge chi legge il suo racconto, ricordando che la sua comunità è formata da fratelli che sperimentano in se stessi, contemporaneamente, l’essere disponibili e il rifiutarsi, la prontezza al compromettersi e il defilarsi della paura, il sentirsi credenti ed atei nello stesso tempo. Egli vuol dire ai credenti che la vita si trova superandosi: ha fatto la volontà del Padre chi ha detto “no” e poi è andato a lavorare nella vigna. Non la ha fatta chi chiama Dio Signore, prega, ma non si impegna.
È l’antropologia che nasce dal vangelo, in cui appare il senso profondamente positivo dell’evoluzione della creazione, che Theilard de Chardin vedeva come il compiersi di tutte le cose in Cristo. L’evoluzione passa per il tormento del divenire, come s. Paolo insegna nella famosa pagina delle lettera ai Romani, a cui il credente non può sottrarsi: “Tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo” (Rm.8,22-23). Come dice Bonhoeffer, un credente maturo deve compiere lo sforzo di porsi dal basso, accanto a quelli che sono più schiacciati dal tormento, per accompagnare la fatica della luce.
E proprio a Cristo invita a guardare la liturgia con la proclamazione della pagina di s. Paolo ai Filippesi. Gesù sa guardare alla propria vita come unità, come totalità da avere tra le mani e da offrire a Dio, come espressione e primogenito dell’umanità che consente a Dio senza riserve.
Noi abbiamo difficoltà a considerare la vita come un insieme, come totalità che include pienezza e perdita, entusiasmo e fatica: perciò viviamo a segmenti, a stagioni. Anche se brevi, sono importanti i momenti di meditazione sul senso della nostra vita, unico tessuto in cui il Signore costruisce le storie personali e ci rende solidali con tutti gli altri. Per non vivere a segmenti è importante la contemplazione della croce. Gesù ci insegna a prendere nelle mani la nostra vita, accogliendola nella fede dalle mani di Dio, e ridonandogliela nella reciprocità dell’essere disponibili per la sua vigna. Il Signore non si spaventa dei “no” e della contestazione – c’è anche la preghiera di contestazione – ma attende che andiamo a lavorare. Gesù nella passione, dove appare sconfitto, dice se stesso come libero, protagonista della propria vita, non condannato, ma “Re”, come ama dire il vangelo di Giovanni: la libertà non è nell’evitare la sofferenza, ma nell’essere protagonista della propria vita, perché essa appartiene alla storia universale.
Chi vuole, nella fede anche oscura, quello che Dio vuole, conosce la fatica del cammino della luce, ma sfocia negli spazi ampi della libertà di vivere oltre se stesso, oltre i propri limiti e le proprie preoccupazioni, accogliendo la nascita di una realtà nuova.
Capire questo è una grande grazia. Rendiamocene conto. Chi non vive questa visione è come oppresso dagli eventi della vita, dalle ansie. Da qui hanno origine tante frustrazioni, malinconie, scoraggiamenti, depressioni, abbandoni.
Oggi domandiamo il dono di esprimere il nostro consenso non nel senso perfezionistico della bravura personale, ma nel credere alla possibilità di ricominciare per favorire il cammino faticoso della luce.