XXVIII DOMENICA T.O. – Anno A
(Is 25,6-10; Sal.22; Fil 4,12-14.19-20; Mt 22,1-14)
Nel capitolo ventiduesimo Matteo ci racconta ancora una parabola: il banchetto è l’immagine che i profeti hanno adottato frequentemente per indicare l’era messianica, l’era del realizzarsi del progetto di Dio, dandone una visione suggestiva di gioia e di comunione, di gratuità. Un’immagine diversa dalla visione rigorista di certi movimenti dalla spiritualità cupa ebraici e poi cristiani. Il convito indica il Regno come un’armoniosa compresenza dei doni spirituali – il perdono e la pace – e di quelli materiali – pane, salute, morte vinta per sempre. Anche l’invito a questa Eucarestia è invito a vivere il Vangelo del Signore nella gioia.
In questa parabola Matteo ci dona la storia delle risposte umane alla proposta di Dio. Nella successione dei rifiuti che egli annota c’è l’indicazione che quando la vita della persona è troppo presa dagli interessi materiali, essa è indisponibile a Dio. Matteo ha certamente presente la sua storia: quando ha risposto alla chiamata di Gesù era preso dal suo lavoro e per seguire il Signore ha dovuto lasciare tutto, convertirsi, cambiare. Non solo l’attività economica, ma anche preoccupazioni affettive eccessive possono essere di ostacolo di fronte alla chiamata (Mt.6,24: 8,18-24): i discepoli lo hanno constatato nella indisponibilità del giovane ricco che non se la è sentita di fare passi concreti al seguito di Gesù perché troppo attaccato al danaro (Mt.19,21). Matteo ci mostra come molti possono perdere l’occasione dell’invito di Dio: è proprio del nostro tempo il pensiero che Dio sia superfluo. Si diventa indisponibili alla trascendenza quando si pone il centro dei propri interessi nell’economia, nel successo professionale. Ma il Signore non rinuncia alla sua festa: il secondo invito è rivolto alla gente dei crocicchi, di cui non si conosce la situazione sociale, economica, morale. Quasi con puntiglio Matteo dice “buoni e cattivi”. I crocicchi sono ritrovo di sbandati, ma proprio lì dove la vita è più umiliata e sofferta si diventa più disponibili a Qualcuno che si avvicina e ci invita. Quando cadono la presunzione e le certezze e avvertiamo di essere peccatori, la nostra debolezza, la nostra povertà diventa viale di accesso al Regno.
L’immagine della veste bianca non va, perciò, intesa come il comportamento perfetto di chi è “a posto” con i propri doveri religiosi, ma piuttosto come l’indicazione che l’invito di Dio va accolto nella coscienza della propria debolezza. Di questa disposizione interiore, dice Matteo, il convertito, ogni chiamato è personalmente responsabile nel momento in cui Dio si avvicina e chiama. L’insegnamento non è pessimistico sull’esito della festa, sul numero dei partecipanti, perché la casa è piena e tutti gli invitati sono stati accolti, ma è realistico e mette nell’atteggiamento di verità. Rinnoviamo la nostra speranza e la gratitudine per l’invito!
Soffermiamoci ora sul senso profondo dell’espressione “Amico”, che il Signore usa nel momento dell’incontro personale con uno dei convitati, nel suo rivolgersi a ciascuno di noi. Già domenica scorsa abbiamo ricordato come Giovanni riferisce che, nel discorso di addio, dopo l’Ultima Cena, Gesù dice agli Apostoli: “Non vi chiamo più servi … ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre lo ho fatto conoscere a voi” (Gv.15,15). In questa parola: “amico”, è la radice profonda della libertà da sé e dalle cose. Se riesco a sentire la vicinanza del Signore, che mi invita e mi ama, ogni cosa si ordina, prende il suo posto nella gerarchia di quello che vale, io non ho più la pretesa di essere al primo posto, la stessa sofferenza esce dall’oscurità ed entra in questa luce che dà un senso a tutto.Ognuno di noi, indipendentemente dalla propria condizione, è chiamato ad un incontro in cui il Signore ci dice: “Amico”. È la parola della convivialità, quella che dovrebbe animare sempre le relazioni dei commensali, tutte nel segno dell’amicizia.
Forse, nella sala del convito, all’invitato che non ha il vestito della festa è mancata quella relazione di amicizia che permette di aiutarsi reciprocamente. Può mancare anche nel convito della vita, in famiglia, al lavoro, nella comunità cristiana che vive l’Eucarestia. Il fratello può non accorgersi del fratello, oppure accorgersi e lasciarlo solo! Nessuno di noi vede bene in sé stesso, si accorge delle proprie mancanze. Perciò è un atto di misericordia grandissima correggere il fratello per amore, con umiltà, aiutandosi a vicenda nella conversione per essere insieme più veri e luminosi. Se il fratello si accorge che la parola che corregge non viene da uno che vuol mettersi al di sopra di lui, che si considera migliore di lui, avverte un dono che dà forza e consolazione. Sono azioni dello Spirito Santo, lo Spirito consolatore, che abita in chi ama e in chi si lascia amare e li lega in fraternità vera, cristiana. A volte, forse, siamo troppo timidi di fronte a questo amore attento che ricompone l’unità e rende “capaci di Dio”, come si esprime la teologia spirituale.
Questa parola “amico” è un invito ad accogliere, da soli e insieme, la presenza del Signore che è in mezzo a noi: “Io busso alla porta, alla tua porta, ascoltami e aprimi !” (Ap.3,30). È un invito ad essere attenti e sensibili per la presenza che bussa, vigilanti per vincere la sordità che il frastuono della vita tende a causare, attenti a riflettere se siamo disponibili realmente ad aprire la porta del cuore senza lesinare spazio e tempo, senza riservare angoli di privatezza per istinto di difesa e per paura.
Da questa attenzione all’accogliere, all’ascoltare, all’aprire, dipende quell’abito nuziale che significa pace nel cuore e gioia nell’esistenza. Diventano allora comprensibili le parole di Paolo: “ho imparato ad essere povero e ho imparato ad essere ricco; sono iniziato a tutto, in ogni maniera: alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in colui che mi dà forza” (Fil.4,12-13).