XXIX DOMENICA T.O. – Anno A
(Is 45,1.4-6; Sal.95; 1Ts 1,1-5; Mt 22,15-21)
Ci incontriamo oggi con un detto famoso del Signore, che può risuonare un po’ scontato come un proverbio, oppure banalizzato e strumentalizzato nell’applicazione superficiale alla realtà sociale e politica di ogni giorno.
Gesù non parla mai di Dio con definizioni astratte, evita le polemiche se non per affermare qualcosa che gli sta a cuore in modo particolare, non ama la casistica dei farisei. Il suo rapporto con Dio è percepibile nella sua esperienza: i discepoli lo hanno appreso nel vederlo pregare, nella sua ricerca costante di aderire alla volontà del Padre, alla sua misericordia. Il suo è il Dio di Abramo, il Dio dei padri, di ogni ebreo credente.
Che cosa significa, allora, per Gesù: “Dare a Dio quello che è di Dio?”. Domandiamo la grazia di capire almeno un poco il rapporto di Gesù col Padre suo, con il Padre nostro.
La prima impressione che si riceve dai Vangeli è quella di una fede non astratta e teorica, come nell’insegnamento accademico, ma quella di un legame personale, diretto e profondo, come lo avevano annunciato ed esigito i profeti. Perciò per Gesù non conta l’appartenenza al popolo ebreo, ma il fatto che la memoria custodita da questo popolo – memoria di un Dio che interviene nella storia e con la parola umana fa conoscere il suo pensiero eterno – induca all’atteggiamento concreto dell’adorazione e dell’obbedienza. Nel capitolo 19 del Vangelo di Matteo, al giovane che lo interroga Gesù risponde: “Solo Dio è buono” (Mt.19,17). Egli dice così ad ogni uomo che solo in Dio è l’inizio di ogni realtà, la sua verità più intima, perché Dio è Creatore, è la sorgente di ogni fecondità perché è Padre. Perciò la vita di Gesù si esprime nella creaturalità, che adora obbedendo, e nell’unità affettuosa del rapporto filiale, che coinvolge il cuore. Dio è l’impegno e la tensione di tutta la vita, così come traspare dalla preghiera del Padre Nostro: “venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà”. È un incontro – alimentato ogni giorno da spazi di preghiera, anche nei momenti di vita più intensa – che conduce a decisioni definitive: “faccio sempre le cose che piacciono al Padre mio” (Gv.8,29). Dal momento che mi ha parlato, allora tutto il mio è di Dio! È quello che la tradizione evangelica racchiude nella tenerezza della parola “Abbà”.
Gesù, dunque, appare nei Vangeli non come colui che parla, di Dio, ma come colui che vive per Dio, che vive Dio e perciò lo dice, lo porta in mezzo alla gente, dovunque l’uomo abiti. Si direbbe che egli vive per primo le brevi parabole del tesoro e della perla preziosa, che abbiamo letto nel capitolo 13 del Vangelo di Matteo. Nei 2000 anni di esperienza cristiana molte volte è risuonata l’espressione riconoscente: “ho trovato il tesoro!”. Essa si pone all’inizio di vere scelte di vita, a volte rivoluzionarie rispetto alla vita precedente. Mettere Dio al primo posto ordina tutta la vita personale, nell’interiorità e nei comportamenti, ed anche quella di relazione: la persona sente il bisogno di fare ogni cosa per amore perché il Padre genera per amore e tutta la realtà è guardata con gli occhi di Dio.
Perché il Dio scoperto e scelto nella fede è esigente, domanda il “cuore”, l’intimo, la totalità della persona, non lascia spazi all’ambiguità. “Date a Cesare quello che è di Cesare” richiede l’uscire dall’atteggiamento un po’ triste anche di tanti credenti, riottosi e brontoloni davanti alla realtà sociale. Gesù invita ad avere un rapporto cordiale con la società che si va costruendo perché Dio vuole l’umanità come famiglia. Essere attenti verso Dio significa promuovere la fraternità con forza e responsabilità, sporcandosi le mani, amando con fiducia le persone, vivendo quotidianamente non come semplici fruitori dei beni e dei servizi, ma come costruttori di relazioni giuste e vere.
Offrendo i nostri corpi a Dio – come dice Paolo ai Romani -, non con la sola osservanza rituale dei doveri religiosi, si può dare a Dio, quasi in reciprocità, la sua immagine impressa in ciascuno al momento della creazione, come leggiamo nel primo capitolo della Genesi.
Matteo con finezza dice che gli interlocutori di Gesù avevano in tasca la moneta con l’effigie dell’imperatore. Da un lato, a parole, la rifiutavano, la consideravano blasfema, perché gli ebrei proibiscono le immagini, e ne contestavano la legittimità, ma nella realtà, a fatti, si comportavano con essa come in un compromesso. Ad ogni credente, anche oggi, può accadere di vivere senza radicalità, di denunciare l’idolatria e poi scendere a patteggiamenti con essa. L’idolatria, che tante volte recriminiamo in nome dei diritti di Dio, può essere in agguato dentro di noi, prima che fuori e trovarci disponibili al compromesso: ciascuno – esaminando con umiltà e verità la propria coscienza – deve chiedersi se mette Dio al primo posto.
Matteo ci invita alla vigilanza per scoprire dentro di noi i piccoli e i grandi idoli, che insidiano la verità del primo posto di Dio, dell’unico Signore
Domandiamo nell’Eucarestia il dono di scegliere sempre Dio e di essere trasparenza di lui accanto ai fratelli.
In Palestina, al tempo di Gesù l’uso della moneta straniera, in particolare quella romana, era ritenuto, dalle correnti più estremiste, una forma di idolatria, condannata da Dio stesso nel secondo comandamento. La fede ebraica proibiva ogni immagine: basti pensare all’ira di Mosè quando nel deserto gli ebrei innalzarono un vitello d’oro per adorarlo. Perciò l’immagine dell’imperatore, impressa sulla moneta, sembrava ledere il primato del Signore, unico Dio e sovrano da adorare, sembrava smentire nei fatti il suo governo diretto, detto “teocratico”. Per questa ragione la domanda a Gesù, riferita da Matteo al capitolo 22: “è lecito o no, pagare il tributo a Cesare?” ha valenza teologica. E la risposta di Gesù deve essere capita bene: questo detto è divenuto proverbiale e spesso è citato in modo superficiale.
Certamente Gesù non vuole prendere posizione su una pratica socio-politica. Sul pagamento della tassa capitaria all’imperatore i discepoli di Gesù non avranno difficoltà perché riconosceranno l’autorità e l’ordinamento sociale, come dimostrano chiaramente gli scritti del Nuovo Testamento. Il disagio inizia quando il potere spinge chi ha autorità a rivendicare onori e obbedienza che non sono di sua competenza, ma riguardano il diritto esclusivo di Dio sulla creatura, a cui il credente non può rinunciare per motivi di coscienza. È perciò lo sconfinamento da quello che appartiene all’autorità, la prevaricazione sui diritti della coscienza che fa resistere il cristiano, cosa che Gesù aveva previsto perfino per i rapporti familiari:
“chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me;
chi ama il figlio o la figlia più di me, non è degno di me.”
(Mt.10,37)
Quando è in gioco il diritto di Dio, il credente non è tenuto ad alcun’altra “signoria” su di sé, ha il diritto a rivendicare la propria libertà ed autonomia.
Gli equivoci che nascono intorno alla frase di Gesù, forse per una lettura superficiale, scontata fino alla proverbialità, sono vari. È sembrata offrire l’adito a giustificare il disimpegno politico dei cristiani, la separazione netta della vita nella fede dal rapporto con lo stato che emana le leggi e prescrive le norme della convivenza sociale.
La linea di Gesù non è “apolitica”, neppure è circoscrivibile al solo livello etico-religioso. È su un altro piano: come sempre va alla radice della cosa, e bisogna comprenderla bene nelle sue implicazioni pratiche.
La risposta ha una sua prima parte, che si direbbe ovvia. L’immagine dell’imperatore stava a dire che egli era il proprietario di quel metallo, di quella moneta, la quale perciò gli andava “resa”, “restituita”; pagare la tassa significava riconoscere il suo diritto, reso legale dall’ordinamento sociale condiviso. A questa prima parte la comunità cristiana ha dovuto, per convinzione e non per compromesso, dare attenzione cercando la strada del superamento degli equivoci e delle tensioni che via via si presentavano. Paolo già dava indicazioni, concrete fino al dettaglio, e perentorie:
“rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse, le tasse; a chi il timore, il timore; a chi il rispetto, il rispetto”
(Rm.13,7)
Ma a Gesù questo non basta, non gli basta la semplice moralità. A lui sta a cuore il Padre, la grandezza della sua santità, e il cuore dell’uomo che deve restare libero per lui. Perciò Gesù non enfatizza la corte che non è il regno e neppure il tempio di Gerusalemme, ma solo il cuore del Padre, che è più grande. Come sempre egli va alla radice delle cose. È per questo che scomoda i poteri autoreferenziali, non si fa avviluppare dalle strettoie delle scuole di teologia, incide sulla vita, dona la libertà. Per questo finisce sulla croce, condannato dal processo ebraico come sovvertitore e da quello romano come impostore.
Gesù svela l’ambiguità, a cui ci si può rassegnare. Sulla moneta era scritto: “al divino Cesare”, “al Dio Cesare”. Ma Cesare non è Dio! E dice: “Rendete a Dio quel che è di Dio”. Che cosa appartiene a Dio? Domandiamocelo oggi, di fronte alla precarietà sempre più evidente di ogni istituzione, domandiamoci che cosa gli appartiene. “La terra, l’universo e tutti i viventi” canta il Salmo 24. Ed Isaia dice: “Io appartengo al Signore” (Is.44,5)
A Cesare, dunque, l’ossequio leale dell’ordinamento sociale condiviso, a Dio la persona nella sua interezza. Cesare non ha diritto sulla coscienza e sulla libertà. Il cuore, la mente, l’anima sono cosa di Dio, nessun altro può appropriarsene. Ad ogni potere umano è detto: non appropriarti dell’uomo.
Per conseguenza è diritto di ogni uomo di dire in faccia ad ognuno che eserciti il potere: io non ti appartengo.
Gesù non rivendica un super-potere sacro, e neppure teorizza sulle competenze e sugli ambiti. A lui sta a cuore proporre come riferimento supremo il Padre, non in quanto potere dei poteri, ma in quanto Amore che si comunica nella relazione che, per essere una e reciproca, esige libertà e non legami di costrizione.
Quella relazione Dio-uomo è il valore assoluto.
L’invito a “rendere” il proprio intimo a questa attesa.
E a portare, nel cuore e sulle labbra, il vangelo di Gesù per la liberazione dell’umanità da ogni forma di idolatria e testimoniare che il nostro cuore è di Dio.
Essere così missionari del vangelo.