XXX DOMENICA T.O. – Anno A
(Es 22,20-26; Sal.17; 1Ts 1,5-10; Mt 22,34-40)
Domenica scorsa Matteo ci ha mostrato Gesù nel suo rapporto con il Padre: Dio ha il primo posto nella sua vita ed egli lo testimonia in gesti e scelte concrete. Abbiamo capito che la fede ha una profonda esigenza di radicalità, e che il venire a patti con piccole e grandi idolatrie la conduce all’ipocrisia. Perciò l’accoglienza nella fede di Dio, che viene nella storia e parla al cuore, richiede come unica, autentica risposta la reciprocità nell’amore senza riserve. Nella Chiesa e in ogni fede monoteista la verginità è segno prezioso di adorazione, di totale appartenenza a Dio. L’adorazione non è soggezione passiva ad un dispotismo, ma la proposta altissima di entrare nello spazio immenso di un amore che si comunica a noi nella gratuità, è la volontà dei figli di Dio, fatti a sua immagine e somiglianza, di essere l’immagine di Lui, che ci ha amati per primo. Guardando profeticamente il Servo, sofferente per amore, l’autore del Salmo 22 vede nella reciprocità l’unica risposta: “e io vivrò per lui” e conclude dicendo: “ecco l’opera del Signore”. L’opera di Dio è imparare a vivere per lui, come abbiamo visto domenica scorsa: “Date a Dio quello che è di Dio”.
Gesù manifesta oggi questa verità con la risposta che Matteo pone sulle sue labbra. Al dottore della legge che gli domandava quale fosse il più grande comandamento, egli risponde ponendo insieme due testi antichi del Deuteronomio e del Levitico (Dt.6,5 e Lev.19,18), facendone una sintesi immediata e concreta. “Da questi due comandamenti – egli dice – dipende tutta la legge e i profeti”. Unire l’amore di Dio a quello del prossimo è la grande novità di Gesù. Dire che il secondo precetto “è simile al primo” significa che esso richiede uguale attenzione. Si tratta di dedicare all’uomo la stessa cura, la stessa venerazione che a Dio. Anche l’uomo va amato “con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze”, amato cioè con la totalità del proprio essere, non solo con le parole e i sentimenti, ma a fatti, impegnando la convinzione e l’azione.
Matteo lo aveva già insegnato quando, nel Discorso della Montagna, il Signore invita a posporre l’atto di culto alla riconciliazione con il fratello (Mt.5,23-24) e proponendo di amare i nemici come Dio li ama (Mt.5,44-48). Ora la sintesi dei due comandamenti è il punto di approdo dell’insegnamento dei profeti e della tradizione ebraica, da Mosè in poi. Nella società ebraica i comandamenti si erano moltiplicati e si avvertiva il bisogno di una sintesi e Gesù ce la dà: il più grande comandamento per un cristiano è lo stesso che per un ebreo. Non ci sono due vie di salvezza, una di Mosè ed una di Cristo, ma quella di Cristo che attua fino in fondo quella di Mosè.
Meditiamo questo passo, da cristiani maturi: l’amore per Dio è illusorio se non si concretizza nell’amore per l’uomo. Una fede intimistica che separa le due facce di quest’unico amore non è cristiana. “chiunque crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio; e chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato” (1Gv.5,11) scrive l’Apostolo Giovanni. Senza mancare di rispetto per chi si prodiga per l’umanità con filantropia e solidarietà generosa, l’esperienza cristiana afferma che a sua volta l’amore per il prossimo rischia di essere effimero, episodico e parziale, perciò illusorio, se non si radica nella stabilità dell’amore di Dio. Rapporti coinvolgenti come quelli fra sposi, fra genitori e figli, con grande frequenza sono come polverizzati, senza il riferimento a Dio. “Da questo conosciamo di amare i figli di Dio, se amiamo Dio e ne osserviamo i comandamenti” (1Gv.5,2), ci dice ancora l’Apostolo Giovanni.
La parabola dei vignaioli, che abbiamo letto al capitolo 20, mostra il padrone che dà lo stesso salario anche agli operai dell’ultima ora e ci rivela Dio come colui che si dona gratuitamente: l’unico modo di amarlo è farsi suoi imitatori, senza dar peso ai diritti e ai meriti, amando tutti indistintamente, per costruire insieme la fraternità universale. Il Signore non chiede all’uomo la sua appartenenza, non chiede neanche di essere esplicitamente riconosciuto, ci dice Matteo al capitolo 25, quando pone sulla bocca del giudice finale l’apprezzamento non solo morale, ma teologale di ogni gesto gratuito dell’uomo, anche non credente, verso l’altro uomo. Di quanti hanno sfamato, dissetato, vestito, curato l’altro uomo il Signore dice: “lo hanno fatto a me”. (Mt.25,40).
Dobbiamo imparare a vigilare sulla tentazione grande dell’uomo in ogni tempo: quella di ritenere volontà immutabile di Dio un sistema religioso e sociale, costruito secondo criteri umani. Il fariseismo inizia quando si giudica secondo gli adempimenti esigiti dal sistema. Gesù dice che Dio è “buono” (Mt.20,15), ma che si manifesta nel suo libero avvicinarsi al cuore dell’uomo, in modi che sfuggono ai criteri abituali delle nostre relazioni. Non possiamo, ad esempio, pensare che Dio non sia vicino al cuore di chi non va a messa… Il dono più grande che Egli ci fa, quando viviamo nel desiderio sincero di amarlo “con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente” è quello di condividere il suo modo di amare. La grazia più preziosa è quella di liberarci dalla logica del lavoro per il merito e per la ricompensa, per introdurci nello spazio immenso della reciprocità verso di Lui e della gratuità verso l’umanità.
Questo è lo splendore del Vangelo che oggi il pensiero della missione ci fa avvertire come un debito, sia nei confronti del nostro territorio che verso la lontana Africa. La concretezza dell’amore rende credibile il Vangelo in ogni epoca e n ogni luogo:
“Si è missionari prima di tutto per ciò che si è, come Chiesa che vive profondamente l’unità dell’amore, prima di esserlo per ciò che si dice o si fa”. Così ha detto Giovanni Paolo II. (Red. Missio 23)
Quasi al termine dell’itinerario liturgico con il vangelo di Matteo, troviamo, in forma di sintesi, l’insegnamento rinnovato più volte, come per sollecitare il lettore a mettere in pratica il discorso del monte, le parole di Gesù che dicono quello che è “più importante” nella vita. Il contesto, ancora una volta, non è cordiale verso il Signore, ma questo non gli impedisce di esprimersi con chiarezza: Gesù conserva la sua libertà.
“Il secondo è simile al primo”, unifica l’amore teologale a quello fraterno, per concludere che “da questi due comandamenti dipende tutto”. Matteo si fa catechista e pedagogo anche nei confronti della nostra attuale mentalità individualista, che giunge a farci pensare che preghiamo meglio quando non c’è accanto a noi il fratello …
Se la realtà intera dipende da un punto, vuol dire che da questo punto, come origine e riferimento, tutto il resto dipende in concreto. Perciò i comandamenti antichi e le tradizioni religiose vanno ricondotti a quest’unico punto e sono riassumibili in esso: il comandamento dell’amore è il fondamento e il centro della relazione autentica con Dio e tra gli uomini. Dice S.Paolo: “Pieno compimento della legge è l’amore” (Rm.13,10).
C’è, nella prassi cristiana che ha la radice nel vangelo, il superamento della cosiddetta “regola d’oro” che l’Antico Testamento conosceva con altre culture: “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”. Nel vangelo il criterio diventa positivo, perché Gesù dice, in modo esigente: “tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo loro: questa, infatti, è la legge e i profeti” (Mt.7,12); e in tutto il suo insegnamento – fino alla sera del giovedì santo – spinge ad andare oltre lo spazio dell’interesse personale, facendo intravedere il cammino di fede nel passaggio dall’io all’altro, dalla preoccupazione per sé alla premura per il “noi”. Quando, tanti anni fa, cominciavo a studiare la Regola di s. Agostino imparai la centralità del testo breve in cui si insegnava a valutare il proprio progresso spirituale dalla misura di quanto ci si liberava dal pensiero di sé per tendere verso gli altri.
Il tono netto del verbo “amerai!”, ripetuto due volte, sta a significare come la comunità cristiana abbia inteso il valore di centro e fondamento dell’unico comandamento dell’amore nei suoi due aspetti. Questo non significa, certamente, l’abolizione e la relativizzazione degli altri comandamenti, ma il discepolo di Gesù – come singolo e come educatore – deve aver chiaro nella coscienza che, in caso di conflitti interiori, quando occorre decidere, il criterio valido è nell’unità del comandamento dell’amore, nell’accettazione realistica del limite di ogni uomo, senza lasciarsi paralizzare dalla ricerca della perfezione nell’azione. Gli altri impegni, di ordine etico e religioso che rimangono, sono finalizzati a sostenere e ad aiutare l’impegno di amare. Se ci si fissasse rigidamente sulla lettera di quello che è scritto o tradizionale, si potrebbe rischiare di perdere di vista il centro. Nell’episodio parallelo del vangelo di Luca il dottore della legge continua ad interrogare Gesù, chiedendogli “chi è il mio prossimo?” e Gesù risponde con la parabola del buon Samaritano, che soccorre l’uomo incappato nei briganti e conclude: “Va’ e anche tu fa’ lo stesso” (Lc.10,37) .
Tutti gli impegni devono essere strumenti per la creazione di uno spazio utile in cui ci si possa muovere con libertà, in cui ogni discepolo di Gesù possa vivere con convinzione e semplicità l’amore, al meglio di quello che gli è possibile. Un’attenzione irrigidita degli altri comandamenti rischia di rendere la persona scissa interiormente.
Matteo così anticipa quello che scriverà Giovanni: “Se uno dicesse: ‘Io amo Dio’ e odiasse suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: “chi ama Dio ama anche il suo fratello’ ” (1Gv.4,20) E prepara la comprensione della Chiesa e di chiunque si interroghi.
Scriverà Agostino, in termini pedagogici:
“Una volta per tutte ti viene imposto un breve precetto: ama e fa ciò che vuoi: sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell’amore, perché a questa radice non può procedere che il bene”
(sulla prima lettera di Giovanni,tr.7,8)
Liberare il cuore, apre spazi di creatività: alla luce di questa parola del Signore, che ci è rivolta anche attraverso la pagina dell’Esodo, dobbiamo interrogarci, oggi, su quanto ci lasciamo interpellare e coinvolgere dal rapporto con gli stranieri, che rischiano di essere visti soltanto come problemi di ordine socio-politico o come pericoli per le nostre sicurezze. Non è tempo per un metro di valutazione diverso su quanto compete al datore del lavoro ed al lavoratore: lasciamoci interpellare da quanto scrivono don Sandro e don Mauro dalla missione in Centrafrica.
“Amerai!” Tutto il nostro futuro è in questo verbo, che non è un imperativo, che si aggiunge ai tanti, opprimenti e fiscali, di ogni giorno; ma una chiave di futuro, che apre ad uno spazio, fa intravedere una possibilità.
“Amerai!” significa un’azione mai conclusa, che dura finché durerà il tempo, che da senso al vivere ed al morire, allo studio ed al lavoro, alla famiglia, alla politica, perché è il progetto di Dio, la sua stessa vita.
Tutto si può vivere per amore, e tutto può ricevere vita se amo. Così dobbiamo cercare di vivere amando e sperare di essere trovati nell’amore quando il Signore ci verrà a chiamare per l’ultima volta. Quando, a sera, ci domandiamo: “Signore, che cosa dovrò fare domani?” la risposta sarà: “Tu amerai!” “Che cosa per il tempo che mi resta? “Tu amerai!”
Perché chi ama, vive.