XXXII DOMENICA T.O. – Anno A
(Sap 6,12-16; Sal.62; 1Ts 4,13-18; Mt 25,1-13)
Nel Vangelo di Matteo i capitoli 24 e 25 sono dedicati all’insegnamento del Signore sul tema della “fine”: essi costituiscono il discorso “escatologico”, il discorso sulle ultime cose. L’evangelista lo riferisce tenendo presente la situazione della sua comunità: essa avvertiva un senso di stanchezza e la sua fede era appesantita dalla sensazione di ritardo del ritorno del Signore. I primi cristiani ne avevano ritenuta imminente la seconda venuta e la attendevano con ansia, logorati dalle ostilità esterne, dalle persecuzioni, che, dopo il martirio di Stefano a Gerusalemme, si erano estese a tutto il bacino del Mediterraneo: a Roma Pietro e Paolo erano stati martirizzati. Perseverare nella fede richiedeva fatica perché le parole del Vangelo non sembravano capaci di modificare la storia, il mondo continuava sulla strada della violenza, dell’indifferenza.
Quando Matteo scrive, Gerusalemme è già stata distrutta da Tito, nell’anno 70: è un segno della verità della parola di Gesù, che – nel capitolo 24 – aveva previsto la distruzione del Tempio e poi la fine del mondo. Matteo ricorda questi insegnamenti per dire alla comunità cristiana che occorre mettere attenzione a quello che è stato il tema di tutto il suo annuncio: compiere la volontà di Dio nell’attuazione della giustizia e della riconciliazione, per non essere trovati impreparati al momento della venuta del Signore. Già alla fine del Discorso della Montagna egli aveva messo sulle labbra di Gesù queste parole:
“Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt.7,21)
Fermiamoci ora sulla pagina del Vangelo, che abbiamo letto. Il genere di linguaggio, frequente nell’ambiente orientale, biblico ed extrabiblico, è ricco di immagini e colori vivaci, di sottolineature drammatiche perché tende a concentrare l’attenzione e a far custodire nel cuore quello che Dio ci rivela. Il succo di tutto il discorso è l’invito alla vigilanza. Gesù lo aveva già raccomandato:
“Vigilate, dunque, perché non sapete in quale giorno il Padre vostro verrà” (Mt.24,42).
Ora viene aggiunta l’immagine delle dieci ragazze che attendono lo sposo. Non sono damigelle, non sono amiche, sono esse stesse spose, insieme, come gruppo, perciò come Chiesa, che, fin dall’inizio, il Nuovo Testamento chiama “sposa” (così 2Cor.11, Fil.5, Ap.19). Esse sono chiamate a vivere l’esperienza di nuzialità sia insieme che singolarmente, come appare chiaramente dagli atteggiamenti individuali – solo alcune sono previdenti – e dal fatto che solo quelle potranno entrare alle nozze. Sono invitate alla dimensione sponsale ciascuna e tutte.
Anche se la Chiesa fin dai primi tempi ha parlato di “giudizio”, se in tante chiese, anche qui, a Piedigrotta, sono raffigurate le anime purganti e Michelangelo, nella Cappella Sistina, ha raffigurato la venuta del Signore come giudizio, il Signore viene non tanto per giudicare quanto per celebrare delle nozze. Viene dopo un tratto di tempo, forse lo spazio della vita, tempo che assume il suo valore dall’operosità: infatti nella tradizione biblica sonno e veglia stanno ad indicare il torpore dell’animo o una vita calda di amore. Al tempo della vita è chiesta l’operosità alla luce della promessa, sapendo che se la si perde di vista è notte, quella terribile notte in cui il Vangelo di Giovanni vede entrare Giuda, che non aveva avuto fiducia nella promessa del Signore (Gv.13,30). Dove non c’è il Signore è notte: la vita di fede ce lo fa sperimentare.
Matteo dice che il discepolo di Gesù deve saper attendere, come la sposa saggia, che ama colui che attende. È una necessità ed anche un impegno spirituale. Saper attendere è segno di considerazione, di stima, di amore per la persona che si aspetta. Abbandonarsi al sonno, invece, indica dimenticanza, sottovalutazione, noncuranza, freddezza. Il testo accentua i colori del contrasto per imprimere bene l’urgenza dell’atteggiamento di vigilanza e presenta la vita cristiana come quella di una giovane donna , pronta con gioia all’incontro con lo sposo. E lo fa alla luce della Scrittura:
“nel mio letto, lungo la notte, ho cercato l’amato del mio cuore”( Ct.2,1)
“io dormo, ma il mio cuore veglia” (Ct.5,2)
Le parole della sposa del Cantico sono indicative di un atteggiamento spirituale che deve durare tutta la vita. Hanno il sapore della dimensione mistica, la vera dimensione della fede, che è sempre più urgente riscoprire per non essere prigionieri di schemi religiosi e moralismi. La saggezza, cui invita – nella prima lettura – il libro della Sapienza, non è soprattutto una conoscenza, una teoria, ma una impostazione della vita. Per averla bisogna “alzarsi di buon mattino”, riflettere, vegliare, fidarsi perché “essa stessa va in cerca di quanti sono degni di lei”. Vegliare è pensare a Cristo, desiderare la sua presenza, sentire la sua assenza come un vuoto doloroso. È un atteggiamento interiore che ci domanda di fidarci di Qualcuno che ci sta cercando. Il Signore sa che l’attesa è difficile, che può essere contraddetta e soffocata, ma domanda di viverla con pazienza, come un dono per le nozze. La domanda come lo Sposo che desidera essere cercato.
La figurazione colorita di Matteo pone sulle labbra dello sposo parole dure per chi non lo ha atteso: “non vi conosco”, ma l’Apocalisse presenta la realtà luminosa dell’attesa reciproca: “lo Spirito e la Sposa dicono: ‘Vieni!’ e chi ascolta ripete ‘Vieni!’ ” (Ap.22,17). È il “Maranathà” che si ripeteva durante le riunioni liturgiche (1Cor.16,22) per esprimere l’attesa affettuosa e riconoscente del ritorno del Signore e che chiude tutta la Scrittura, in chiave di tenera nuzialità:
“ ‘Sì, verrò presto’ Amen! Vieni, Signore Gesù.” (Ap,22,20)
Non siamo chiamati a una piccola cosa, ma a questa speranza
La vigilanza è la condizione tipica in cui vive un credente che desidera come bene sommo l’incontro con il Dio che vive per sempre e viene sempre alla creatura che ama e da cui è amato. Gesù lo dice con la parabola che Matteo, unico tra gli evangelisti, riporta al capitolo 25.
Dieci ragazze, scelte per accogliere lo sposo ed accompagnarlo in corteo alla casa della sposa. Tutte sono in cammino incontro allo sposo, ma non tutte sono “sagge” nel saper prevedere l’incertezza dell’ora dell’arrivo: con la conseguenza drammatica di non poter più partecipare da protagoniste della festa nuziale, che nella Bibbia è figura prediletta dai profeti dell’intimità gioiosa di Dio con l’uomo, chiamato alla comunione piena con il linguaggio della sponsalità.
La mancanza di saggezza è detta dell’omissione della vigilanza costante che provoca la mancanza di sincronia, di contemporaneità, necessarie perché l’incontro possa verificarsi; nel momento imprevisto, perciò non realmente atteso, le stolte non sono in grado di esprimere un “eccomi” immediato al grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Al
di là dell’immagine, Matteo sembra voler evidenziare il legame doveroso tra il creduto e il vissuto. L’ammonimento è importante e grave per le conseguenze e non si riferisce solo all’ultima venuta del Signore, ma anche a tutti quei segni del suo venire incessante nel presente, in cui domanda di essere riconosciuto e accolto. La tradizione spirituale cristiana conosce e custodisce tante pagine che radicano la vita di fede, come incontro con Dio, nell’eccomi di Abramo, in quello dei profeti, in quello di Maria di Nazaret. Così nel libro della vita di tanti. Penso alla domanda confidenziale a Dio dell’eremita nel deserto davanti all’anfora dell’acqua frantumata per disattenzione: “Signore, che cosa mi hai voluto dire?”; all’intuizione mistica di Teresa di Lisieux nella Francia laica della fine dell’800, al momento dell’emottisi che lei stessa metterà per iscritto: “Era come un dolce mormorare lontano che mi annunciava l’arrivo dello Sposo”.
Vigilanza, dice Matteo, per essere disponibili ad accogliere il venire di Dio, ora. “Si dèstino, non importa se è tardi, quanti si sono lasciati prendere dal sonno e anche quanti hanno perduto Cristo. Egli è a tutti vicino, non viene meno a nessuno. Chi si desta lo troverà presente” (s.Ambrogio).
“Andare incontro al Signore”. È il richiamo dominante di questa domenica ed è il senso profondo dell’esistenza nella fede. Non siamo gente senza meta, che non sa dove sta andando. L’urgenza del tempo che corre spinge a far entrare la speranza in Dio non solo nei momenti di pace e di più viva sentimentalità, quando più forte avvertiamo la nostalgia del definitivo e del divino, ma nelle vicende umane della quotidianità grigia, aride nella ripetitività, in tutti i giorni, festivi e feriali, della vita. È il dono della Sapienza a cui ci ha fatto guardare l’autore del testo scritto pochi decenni prima di Gesù. Se cercata, si farà trovare, aiutando nel discernimento di quello che più conta e sostenendo la ricerca nel cuore inquieto, del rapporto della verità con la sua sorgente divina, del mistero di Dio, contemplato e desiderato umilmente.
“Il desiderio prega sempre, anche se la lingua tace. Se sempre desideri, sempre preghi” diceva Agostino (Disc. 80,6). Al suo pensiero fa eco la parola del filosofo russo Berdjaef, morto nel 1948, che, dopo l’approdo alla fede, scriveva: “Esiste un desiderio umano di Dio, ma anche un desiderio divino dell’uomo. Dio è l’idea più grande, il tema, il desiderio più grande dell’uomo. Ma l’uomo è altrettanto per Dio. L’uomo è il divino altro, il divino umano da cui viene attesa la corrispondenza d’amore. Dio vuole che non soltanto egli, ma anche l’uomo, sia l’amato e l’amante” (in: Ravasi: “Il libro dei Salmi”, II 278).
Oggi la liturgia ci fa dono del Salmo 63, che esprime il desiderio della fede, come lo sperimentiamo: frasi spezzate, preghiera, attesa, tensione: “Di te il mio essere ha sete, la mia carne a te protesa, come terra arida”. Non è solo richiesta, molto di più urge dentro “Il tuo amore è più dolce della vita, le mie labbra ti loderanno”. È un’esperienza alta di comunione, in cui la creatura si abbandona al suo Creatore, le mani alzate sono la ricerca di reciprocità, come in un’appartenenza nuziale vogliono congiungersi. Forse tutti riceviamo in questo salmo, e, tra le molte paure e solitudini di oggi, una chiave di pace e di libertà che solo l’atteggiamento della veglia può permettere, senza misticismi alienanti, senza tirarsi fuori dalla presenza alla storia, ma fermentandola col fiotto vivo di questa sorgente.
Ci accompagnano le espressioni belle di K. Gilbran nel suo “Il Profeta”:
“Voi pregate nella disperazione e nel bisogno,
pregate piuttosto nella gioia piena e nei giorni dell’abbondanza.
Io non posso insegnarvi a pregare.
Dio non ascolta le vostre parole se egli stesso non le pronuncia con le vostre labbra.
Non possiamo chiederti nulla;
tu conosci i nostri bisogni prima ancora che nascano;
il nostro bisogno sei tu; nel darci te stesso, ci dai tutto”