XI DOMENICA T.O. – Anno A
(Es 19,2-6a; Sal.99; Rm 5,6-11; Mt 9,36-10,8)
“Ebbe compassione … andate …guarite…”
Sono parole dette con grande intensità. Gesù cammina lungo le strade dell’umanità con uno sguardo che vede la situazione di ciascuno, il giovane ricco come Matteo, il gabelliere, con un amore che abbraccia tutti nella compassione,
“perché erano tormentati, prostrati e abbattuti, come pecore senza pastore”
È uno sguardo che abbraccia le singole persone e l’umanità intera. Matteo ci vuole introdurre in questa compassione, che ha sperimentato personalmente, e che può testimoniare come uno che ha avuto la ventura di vivere lungamente con Gesù. Vuol farci cogliere il dono immenso che riceviamo nella possibilità di essere al servizio della compassione del Signore.
Due verbi definiscono il discepolo: egli è un “convocato” (v.1) ed è un “inviato” (v.5), chiamato a seguire Cristo e chiamato alla missione per il regno di Dio. Ad ogni discepolo è dato un “potere”: è lo stesso che Gesù si è assunto con una scelta precisa. È innanzitutto il rifiuto assoluto della concezione mondana del potere, come appare chiaramente nelle tentazioni respinte da Gesù nel deserto – come leggiamo nel cap.4,8-10 di Matteo, dove il potere mondano è chiamato idolatria. Ma il potere assunto da Gesù è anche scelta di farsi carico delle infermità degli uomini. Si adempie così – ci dice Matteo – la profezia di Isaia 53,4:
“egli ha preso le nostre infermità
e si è addossato le nostre malattie”
(Mt.8,17)
Il discepolo è chiamato alla stessa scelta: la sua identità sta tutta nella conformità con Gesù.
Fa impressione che dei dodici si conosca solo il nome, senza che nulla sia detto della loro provenienza e del loro destino; ad eccezione di Pietro a motivo del disegno particolare su di lui. Degli altri nulla. Si intuisce che sono diversi per sensibilità, grado di cultura, opinioni: c’è Matteo, il pubblicano, che collabora con gli occupanti e Simone, lo zelota guerriero, che vorrebbe scacciarli con la violenza delle armi. Ma il “sì” alla chiamata li armonizza, li rende tutt’uno. Con Gesù sono il corpo con il capo, l’inizio del Cristo che si fa Chiesa. Per Matteo i dodici sono l’immagine della comunità credente, con i suoi aspetti contrastanti, che sempre la caratterizzeranno senza impedire la vita, per la presenza unificante di Gesù.
Nella luce del Vangelo – ci dice Matteo – la potenza d’amore del Signore non passa attraverso il protagonismo dei discepoli, l’efficienza, un prestigio spettacolare, ma nell’ ”essere amore”. Essi devono puntare ad una qualità di vita diversa, al dono di sé, che rivela Dio all’uomo e ne permette la glorificazione:
“Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli”
(Mt.5,16)
Perciò l’impegno serio e visibile nella storia, lo sporcarsi le mani nella complessità sociale.
Questo rifuggire dal protagonismo libera dall’ansia dell’azione efficiente, che vuole raggiungere tutti numericamente, dalla logica mercantile, che vuole realizzare l’universalità con il proselitismo, con i registri. Matteo ci dice che non è qui il pensiero di Gesù, che ha mandato i discepoli “dalle pecore perdute della casa di Israele”. Il più prezioso contributo all’universalità del Regno, al bene dell’umanità, sta nel vivere con dedizione là dove si è chiamati alla vita e alla fede, con la coscienza che la “qualità” di vita che ne deriva fa da “anticorpo” nel tessuto dell’umanità, ammalato per la negatività, per le tossine del consumismo e del materialismo, dell’egoismo, delle chiusure.
È l’amore che risana!
Qui viene dato di scoprire il valore prezioso della famiglia. Oggi ne sono raccolte qui molte, in meditazione.
“La rivelazione biblica è anzitutto espressione di una storia di amore … perciò la storia dell’amore e dell’unione di un uomo ed una donna nell’alleanza del matrimonio ha potuto essere assunta da Dio quale simbolo della storia della salvezza. Il fatto inesprimibile, il mistero dell’amore di Dio per gli uomini, riceve la sua forma linguistica nel vocabolario del matrimonio e della famiglia, in positivo e in negativo … Lo svilimento dell’amore umano, la soppressione dell’autentica capacità di amare si rivela, infatti, nel nostro tempo, l’arma più adatta ed efficace per scacciare Dio dall’uomo, per allontanare Dio dallo sguardo e dal cuore dell’uomo”. Così ha detto papa Benedetto XVI il 6 giugno.
Come sposi e come famiglie che si sostengono insieme, vogliamo esprimere nella preghiera la riconoscenza per il dono di poter essere una coppia e una famiglia, luoghi in cui Dio si può dire con linguaggio umano, per essere stati ”convocati” nella vita del matrimonio. E vogliamo sentire, al di là dei limiti inevitabili e delle stanchezze che si moltiplicano, il grande fascino dell’invio che il Signore ci fa:
Andate, … guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date.”
Titolo di questa meditazione può considerarsi l’espressione concisa di Matteo:
“Gesù, vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite”
Per capire la densità della parola “compassione”, spesso dimenticata dal nostro vocabolario, oggi, bisognerebbe risalire alle radici profonde, all’esperienza di Mosè quando vede ardere un roveto senza consumarsi: spinto dalla curiosità si avvicina e si rende conto di essere alla presenza del Divino. Ascolta allora le parole del Signore, segno della Sua compassione: “Ho osservato la miseria del mio popolo … ho udito il suo grido … conosco le sue sofferenze … sono sceso per liberarlo…” (Es.3,7-8). Lo scendere di Dio in Gesù, che abbiamo incontrato nello sguardo su Matteo, lo troviamo oggi in chiave universale, come l’avveramento di quanto era stato annunciato dal profeta Ezechiele: “Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura” (Ez.34,11). Così sappiamo che il patire dell’uomo, dalle malattie fisiche alla solitudine, all’angoscia, ha raggiunto la profondità del cuore di Dio, generando il ministero della compassione e della pietà nell’opera di Cristo, che chiama i suoi primi compagni di vita alla condivisione dei suoi sentimenti, facendoli ministri della compassione. Chiediamo al Signore di rendere la Chiesa docile alla parole della compassione, preghiamo in particolare in questi giorni, nella preparazione al Sinodo dei Vescovi sulla Parola di Dio.
Gli autori dell’Antico Testamento, meditando la storia di Israele, avevano descritto i sentimenti di Dio co
me materializzandoli: servendosi delle parole semplici del vocabolario ebraico del tempo, parlano di “viscere di misericordia” o di “cuore che si commuove” e si manifesta nella compassione. Risalendo all’esperienza umana, gli autori dei testi sono riusciti, come mai si sarebbe potuto fare, a darci – dice Giovanni Paolo II – “una trepidante immagine del suo amore, che, a contatto con il male e, in particolare, con il peccato dell’uomo e del popolo, si manifesta come misericordia” (“Dives in misericordia”, 52). Dobbiamo essere riconoscenti per questa rivelazione, fatta con parole umane.
Così, dopo il ministero dei profeti, nell’attualità della sua vita, vediamo come Gesù si commuove davanti alle necessità dei fratelli e “sente compassione” per tutti, qualunque sia la loro infermità o il loro bisogno. Si fa talmente tutto con la durezza della sofferenza umana da giungere al dono della vita stessa, in modo da lasciarci la certezza che, nella sua carne immolata, per ogni uomo c’è la possibilità di salvezza, l’accesso a Dio Padre.
Quando Paolo scrive che il crocifisso è “scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani” (1Cor.1,23) evidenzia quanto è nuova questa rivelazione della compassione di Dio in Gesù, quanto i suoi comportamenti apparissero fuori dal buon senso, eccessivi. La compassione, particolarmente in chi è imbevuto di cultura basata sulla giustizia retributiva, per cui a colpa corrisponde pena uguale, suscita meraviglia e rifiuto. Non a caso Marco scrive che, saputo della molta folla che si adunava attorno a Lui, “i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo, perché, dicevano ‘è fuori di sé’“.
Per questo motivo può essere utile un momento di riflessione.
Non è difficile cogliere nel mondo l’esistenza dell’eccesso di negatività. Quando il male è generato dall’incuria e dall’incompetenza, dalle omissioni della responsabilità; quando è pianificato ed organizzato cinicamente, quando punta allo schiacciamento dell’altro individualmente, come nella tortura, e a volte assume forme sottili anche nella famiglia, con il far soffrire a vicenda, quando generalizza, fino all’antisemitismo e all’odio dei nomadi, noi avvertiamo che c’è un eccesso di male.
Ma Gesù ci invita a considerare che esiste il bene “eccessivo”, quello che va oltre il dovuto, che fa dimenticare se stessi, non preoccupandosi della trasgressione delle regole del buon vivere, anche in senso religioso se occorre, o addirittura fisico, quando si dovessero superare le esigenze della prudenza. È l’eccesso di Francesco, quando bacia il lebbroso, o di Teresa, quando lascia la congregazione, l’insegnamento in Albania, per diventare Teresa di Calcutta. È l’eccesso di Gesù. Il suo è un andare al di là dei doveri di un pastore buono e diligente, non obbligato a cercare quella che si è perduta.
Gesù non si mette in salvo, ma condivide.
La sua compassione si colloca qui ed è la chiave della sua vita.
Allora ne deriva che, quando Gesù chiama i suoi discepoli, egli desidera che stiano con lui, perché condividano questa scelta. Li invita ad apprendere la misura di “eccesso nel bene”, che la mondanità non condivide. Lo fa con tanta determinazione che, quando Pietro lo rimprovera, in disparte, perché, in nome del buon senso non vada verso la croce, Gesù gli dice: “Lungi da me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mc.8,33).
Dunque, gli uomini pensano secondo misura – dice il cardinale Martini – Dio pensa secondo eccedenza.
Noi possiamo vivere questo eccesso non solo in momenti di eventuale eroismo, ma in ogni nostro atto, che va al di là del puro dovere, in ogni nostro atto ispirato alla fede che spinge ad uscire da sé, in ogni prevenzione del desiderio di colui con cui viviamo la compassione, in ogni occasione di vivere il perdono.
Questi momenti di compassione concreta sono visibilità del regno di Dio già presente, sono vita cristiana che cambia il mondo.
Ricordiamo i verbi che Matteo affida ai discepoli:
“predicate, guarite, risuscitate, sanate, liberate, donate”.