XII DOMENICA T.O. – Anno A
(Ger 20,10-13; Sal.68; Rm 5,12-15; Mt 10,26-33)
Due domeniche fa abbiamo letto nel Vangelo la chiamata di Matteo, il pubblicano: il Signore entra nel suo cuore, gli comunica il suo messaggio. Poi egli si unisce agli altri, chiamati a condividere la compassione di Dio per l’umanità – stanca e sfinita “come pecore senza pastore” (Mt.9,36) – attraverso un percorso che potremmo chiamare di “noviziato”. Oggi Gesù invita i dodici a dire nella luce quanto hanno ascoltato nelle tenebre, comunica loro la passione del suo cuore e li invia, iniziando dalle “pecore perdute della casa di Israele” (10,6), perché nessuno è fuori dal cuore di Dio. Alla fine del Vangelo di Matteo, Gesù, nel lasciare i suoi, dirà loro con solennità: “Andate, dunque, e ammaestrate tutte le nazioni” (28,19). Sarà l’inizio della Chiesa. Nel passo che leggiamo oggi, Gesù dà concretamente ai discepoli il senso del loro essere inviati: “Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio predicatelo sui tetti” All’inizio l’insegnamento era stato quasi di segretezza, nella dimensione familiare e riservata del piccolo gruppo dei dodici, “chiamati a sé” (Mc.10,1), come ci dice Marco. Ma il messaggio è destinato a tutta l’umanità e perciò deve essere annunciato non solo nella penombra della casa, ma nella luce piena delle piazze assolate e affollate, non solo “all’orecchio”, nel dialogo confidenziale delle relazioni personali, ma dai balconi, dai terrazzi. I verbi, tutti all’imperativo, indicano una volontà precisa di Gesù: il messaggio va dato, perché è urgente. L’amore che non è comunicato isterilisce, la fede che non è comunicata diventa paglia. L’annuncio del Vangelo non dovrà essere condizionato dalla paura dei contrasti, dallo stesso rischio per l’incolumità della vita. Così come è accaduto ad Alessandro, il nostro fratello che è partito ad ottobre per la missione ed è stato costretto a tornare perché temporaneamente ammalato. I discepoli sono chiamati a sentire fortemente e solidarmente, insieme, la responsabilità dell’obbedienza fedele al mandato ricevuto. Matteo pone un accento drammatico sul richiamo alla responsabilità, invitando a valutarla davanti a Dio. A Lui, infatti, si dovrà renderne conto, come l’evangelista dirà più avanti con la parabola dei talenti (Mt.15). Non si tratta dell’impegno di un’ora di catechismo, ma di tutta la vita. Ma Gesù non lascia i discepoli nella solitudine di fronte allo scoraggiamento, alle difficoltà nella sintonia reciproca, alle tensioni nei confronti di un compito davvero immane. Si tratta di realtà già presenti quando Matteo scrive il Vangelo: c’erano state defezioni, scontri, persecuzioni. Forse Pietro, Paolo, Giacomo avevano già pagato la loro testimonianza con la vita. Perciò gli sta a cuore ricordare che Gesù ha pronunciato parole importanti sulla tenerezza personale e premurosa di Dio. Il suo è uno sguardo che conosce e segue ciascuno, nella propria storia ed individualità, fino all’apparente inezia del numero dei capelli. Dio è il Padre della provvidenza. Ha una cura così meticolosa della creatura da badare anche a due passeri , che si vendono per un soldo, perché non siano soli nel loro volare e nel loro cadere. Nessuno può dire che vale troppo poco per poter annunciare il Vangelo! I discepoli devono spere che la loro sorte è nelle mani del Padre, e perciò avere fiducia anche nei momenti di più grande difficoltà. La fiducia in Dio non è la garanzia di essere liberati dalla fatica che l’annuncio del Vangelo comporta, non è sicurezza di successo, esenzione dalla prova interiore, generata dai fallimenti e dai rifiuti, ma certezza radicata nella parola del Signore di essere accompagnati e sostenuti da lui nella prova, e che la prova stessa è veicolo prezioso di evangelizzazione, perché è l’occasione data al discepolo di essere accomunato al Maestro nella croce, che è il Vangelo pienamente annunciato e spiegato. Matteo aveva già parlato della Provvidenza con accenti di particolare intensità, con espressioni concretamente umane, al capitolo 6 (vv.25-36). Ora il suo ricordare che il Signore ha affermato: “voi valete più di molti passeri” infonde coraggio e fiducia. Se fra voi c’è una donna incinta, pensi al grande valore che ha per Dio il suo bambino e così anche il genitore preoccupato per il figlio adolescente. Nel cuore di Dio valiamo più di molti passeri. Siamo chiamati a vivere la testimonianza del Vangelo con il sentimento appassionato di Paolo: “guai a me se non predicassi il Vangelo” Fiducia come convinzione profonda che la luce di Dio in Cristo risplenderà sulle tenebre, che impediscono agli splendidi colori della creazione di manifestarsi. Dobbiamo essere docili a questi colori in noi e nel mondo, perché si adempia la promessa: “Non vi è nulla di nascosto che non debba essere svelato, e di segreto che non debba essere manifestato” È stata una grande gioia leggere l’espressione bella di Carlo Maria Giulini, il grande direttore di orchestra, morto qualche giorno prima. A chi gli citava una frase di Cassiodoro, scrittore cristiano del VI secolo: “Se continuerete a commettere ingiustizia, Dio vi lascerà senza musica”, rispondeva con un sorriso di pace: “L’amore di Dio, però, è superiore alla nostra ingiustizia: perciò egli non ci lascerà mai senza musica!”.(G.Ravasi in Avvenire,17-06-05). Siamo chiamati a questa testimonianza. Al coraggio di chi si tira fuori dalle timidezze che paralizzano, dalle tentazioni ricorrenti di chiudersi nell’intimismo religioso come un fatto privato, dalle suggestioni che pretenderebbero un Chiesa senza voce, ammutolita da un catacombismo che il Signore non vuole. Matteo ci ricorda che Gesù ha per ciascuno di noi un amore di amicizia, che si direbbe orgoglioso: “Chi mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’o lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli”. Verrà un momento in cui saremo riconosciuti davanti al Padre come fratelli di Gesù, come figli per sempre. Che cosa possiamo volere di più?