XVIII DOMENICA T.O. – Anno A
(Is 55,1-3; Sal.144; Rm 8,35.37-39; Mt 14,13-21)
Quando Paolo scrisse alla comunità cristiana di Roma, i discepoli sperimentavano quanto lui testimoniava in maniera personale e diretta, la verità cioè di quanto il Signore aveva previsto nei suoi insegnamenti sulla venuta definitiva del Regno di Dio da attendere nella perseveranza. Prima della conclusione della storia e della definitività del Regno di Dio, il vangelo dovrà essere annunciato a tutte le nazioni: così aveva detto il Signore risorto (Mt.28.19). I discepoli, perciò, dovranno vivere il tempo che si potrebbe dire “dei pagani” che sono tutti candidati ad essere “figli di Dio”, per portare a compimento l’opera di Gesù che, quando era disceso dal cielo, non era stato accolto dai “suoi” (Gv.1,11) e che al termine della vita, nella lavanda dei piedi, amò i “suoi” fino alla fine (Gv 13,1), cioè tutti, per radunare i “dispersi” nell’unica famiglia di Dio. Il tempo della Chiesa è perciò tempo da dedicare a quanti non hanno accolto la notizia del Vangelo, alle loro culture, alle loro tradizioni, al loro più vario senso religioso. Fin quando l’annuncio non sarà completo, il camino dei discepoli sarà sempre sotto il segno del rifiuto, della contraddizione e della croce. Essi dovranno impararlo e ripeterselo sempre di nuovo, senza impazienza.
Guardando a Gesù. come Matteo invita a fare.
Nel suo racconto Gesù si presenta ed è descritto come colui in cui si compiono gli annunci e gli avvenimenti dell’Antico Testamento, colui in cui si attuano le parole profetiche che lo hanno presagito.
Guardandolo nello scorrere dei secoli, la comunità dei credenti si rende conto che nella vicenda di lui è saldata la distanza tra le parole della previsione antica e quanto accade in lui, nel suo presente. Il passato acquista verità in lui che lo attua e lo rende stabile. Così il Dio che si era definito a Mosè “buono e misericordioso” si dice ancora, a fatti, nella compassione di Gesù: nella pagina di Matteo oggi, il “venite e mangiate” del capitolo 55 di Isaia si attua nel “voi stessi date loro da magiare”. Da questo congiungimento tra previsione antica ed attuazione di Gesù si fa certo per la comunità dei discepoli che la parola che vediamo attuata in Gesù è parola che rimane, è luce e garanzia per il futuro: “Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno” (Mc.13,21).
Gesù non ama descrivere l’avvenire, ma mostra in sé la via giusta per l’oggi e per il domani. Aderire a lui è vivere pienamente nella verità, vita e via. È già futuro. Come dirà Giovanni del pane eucaristico.
Allora ci è dato di comprendere meglio le espressioni solenni e cariche di emozione di Paolo al termine del capitolo 8 della lettera ai Romani. Non si tratta dell’entusiasmo chiassoso tipico di certi momenti di aggregazione umana, come uno spettacolo, una gara, una testimonianza di motivazioni che coinvolgono. È l’entusiasmo che nasce dallo stupore interiore di chi contempla l’opera di Dio e la vede realizzata in Gesù. La lettera era cominciata con la situazione disperata dell’umanità disobbediente e destinata al giudizio di condanna; ora la svela rovesciata perché c’è e rimane Gesù che trasforma l’accusa in difesa. La sua morte in croce, il dare la vita abbracciando l’umanità, sono la prova del suo amore soggettivo, personale, di chi ama per primo e resta in questo atteggiamento da avvocato difensore (1Gv2,1) per aiutare l’uomo a percorrere la sua strada. Perciò il grido: “Chi ci separerà dall’amore?”. La persecuzione e la croce, con lo sguardo su Gesù, appaiono come la via “di Dio” e “ a Dio”, come verità dell’uomo salvato, come vita per sempre.
“Forte come la morte è l’amore” (Ct.8,6).
La contemplazione di quello che Dio fa nell’amore va addirittura oltre la famosa espressione del Cantico. La sposa che ne fa esperienza dice: “Le grandi acque non possono spegnere l’amore né i fiumi travolgerlo” (Ct.8,7), come per dire: “forte più della morte è l’amore” (così, infatti, suggeriscono non pochi studiosi del testo).
Paolo condivide questa scoperta: la morte, sconfitta, non può stare alla pari con l’amore. Nella esistenza cristiana l’adesione alla vita che è Gesù rende piena la vita del credente ed è pienezza di amore. Le paure che affiggevano l’umanità a Roma e nel mondo, paure di potenze sovrumane, di influenze degli astri, di energie misteriose – paure sempre attuali – fanno dire a Paolo che esse non possono essere considerate tanto potenti da ritenerle superiori all’amore di Dio.
Né presente, né avvenire! Così la preoccupazione del presente e del futuro, e persino il desiderio di un mondo diverso, senza tribolazioni e sofferenze, non può essere immaginato più forte dell’amore di Cristo.
È questa la sintesi di quanto Paolo ci ha detto in queste cinque domeniche per la saldezza della nostra fede.