IV DOMENICA T.O. – Anno A
(Sof 2,3; 3,12-13; Sal.145; 1Cor 1,26-31; Mt 5,1-12)
Il Vangelo delle Beatitudini, che abbiamo ascoltato, è la grande proposta di Gesù a quanti vogliono seguirlo, l’annuncio rivolto alla folla, all’umanità, a tutti noi.
Egli apre il suo cuore di Figlio, ci rivela la realtà della vita della Trinità, in cui ciascuna delle Persone vive perché si apre all’altra, si dona all’altra, vive per l’altra. Nella Trinità non esiste chiusura egocentrica, ma solo dono e circolazione di amore. Il sogno di Gesù è di comunicare all’umanità la sua esperienza eterna di vita, perché essa diventi linea guida per l’esistenza di quanti accolgono il Vangelo. Oggi la liturgia tutta ci dice che Dio si manifesta ad un popolo di poveri e di umili, a chi si fa vuoto interiormente per accogliere il dono della vita divina. Chiediamo allo Spirito la grazia di diventare sempre più liberi da noi stessi, per poter ricevere e far nostra la proposta del Signore.
“Beati i poveri nello spirito”. È questo l’invito più urgente , il primo, il fondamento degli altri. La parola greca, “ptochos” (da cui l’italiano arcaico “pitocco”, mendicante) indica chi ha bisogno di aiuto e lo domanda. È una condizione sociale, ma la Bibbia legge il termine in senso religioso. In Matteo, e nella lettura della Chiesa, l’accento è messo sul sostantivo “spirito”. Beate sono le persone che si fanno povere davanti a Dio, perché ne fanno esperienza. Non è una maniera esteriore di comportarsi, ma è lo spirito della persona che si fa povero, libero non solo nei confronti dei beni economici e sociali, ma anche nei confronti di quelli considerati primari, come l’intelligenza, la volontà, i sentimenti, la dignità. Liberi dal proprio “sé” e dagli atteggiamenti umani, disponibili alle esigenze, alle proposte di Dio, a volte così difficili ed apparentemente contraddittorie,come dice Isaia al capitolo 55: “Le mie vie non sono le vostre vie …”. Rinunciare ad accampare diritti davanti a Lui, riconoscendo sinceramente i propri limiti, senza farne uno schermo per difendersi da Lui, temendo che voglia chiederci troppo. La povertà nello spirito è una libertà da conquistare con pazienza e tenacia, perché tutti siamo attaccati alle nostre esigenze di rassicurazione e di prestigio, alla paura della solitudine e dell’incomprensione degli altri. Occorre imparare a mettersi alla sequela di Gesù che dice: “Imparate da me che sono povero e umile di cuore “ (Mt.11,29), cioè di spirito. Impararlo soprattutto nei momenti in cui la povertà reale si presenta con le sue sfaccettature dolorose di sofferenza fisica, di insuccesso nei rapporti più cari, in cui è necessario pagare personalmente. Ma la povertà reale, nei suoi momenti duri, ci insegna a fidarci di Dio, ci guida a far nostra l’esperienza di Israele, di cui parla la prima lettura: è il popolo umile e povero, il resto di Israele, quello al quale Dio si rivela. Maria, nel Magnificat vede nell’umiltà, nella povertà, una possibilità donata a tutti.
Da questa sorgente, da questo fiotto iniziale della povertà di spirito, si diramano come cascatelle e si esprimono concretamente tutte le beatitudini, quelle che si possono dire più passive e quelle più attive.
– Chi non è preoccupato di sé (consideriamo questa la premessa unica):
- è senza pretese, senza rivendicazioni personali, senza arroganza. È mite e fa propria l’esperienza della terra dove l’uomo è fratello dell’altro uomo. Fa l’esperienza di Dio, perché la mitezza è propria di Dio.
- si accorge dell’ingiustizia e della sofferenza che essa genera. È affamato del bene dei fratelli, si accorge dell’ingiustizia e lotta per la giustizia. Egli sarà saziato perché la vita è negli spazi della condivisione, proposta con gesti concreti.
- i beni sono di tutti e chi non è preoccupato di sé fa risplendere intorno a sé la luce della misericordia, come un clone che dice Dio (“Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro” scrive Luca nel passo parallelo, 6,36). Nella misericordia è il salto di qualità del Nuovo Testamento: non si può essere discepoli se non si è uomini e donne di misericordia. Ogni giorno chiediamo con il Padre Nostro: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”.
- chi non è preoccupato di sé permette allo Spirito di abitarlo, in modo da essere persona senza ambiguità, senza seconde intenzioni. È la bellezza straordinaria dei puri di cuore, che è molto di più della sincerità, della lealtà, della castità, che pure sono importanti. È quel “vedere Dio”, che è come guardare la realtà partendo dal cuore di Dio stesso. È una beatitudine che si trova anche fra i non cristiani ed affascina in ogni tempo.
- chi non è preoccupato di sé, si appassiona per la pace, si spende per stabilire relazioni di pace nel mondo. Chi vive così è nella famiglia dei figli di Dio, perché continua l’opera di Gesù, il Figlio di Dio, quell’opera che si è inaugurata a Betlemme, e che è stata consegnata ai discepoli dal Risorto.
Oggi è presente qui un gruppo di giovani fidanzati, prossimi al matrimonio. Li vorrei guardare con uno sguardo particolare e dir loro che sarebbe bello prendere, accogliere questa pagina come un “vademecum” al matrimonio. Senza cedere alle paure, che ci trasmette la società. Il matrimonio è un dono, ci permette di vivere la libertà delle Beatitudini, la libertà di essere disponibili alla proposta di Dio. È una proposta esigente, ma non bisogna illudersi che, presentando un cristianesimo languido, un Cristo virtuale, inesistente, il Vangelo possa essere accolto più prontamente. Igino Giordani, un cristiano vero, sposato, morto negli anni ’80, così scriveva: “Dare l’amore vero al fidanzato, o alla fidanzata, è dargli Dio (l’amore divino”. È quell’amore che cresce, purifica, rende stabili i rapporti. Proprio quello che Gesù oggi ci ha insegnato “come uno che ha autorità” (Mt.7,29).
Il contesto in cui si pone la pagina di Matteo è quella dell’invito: “Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino” (Mt.4,7, che abbiamo ricevuto domenica scorsa). È la porta di ingresso del “discorso del monte” (Mt,cc.5-7). Forse dire “monte” è erroneo, perché in Palestina non vi sono grandi monti, ma grande è l’insegnamento con cui Gesù inaugura la missione e lo fa con la proclamazione, semplice e solenne insieme, delle beatitudini, e l’evangelista lo sottolinea.
Con queste espressioni stupefacenti dice ai discepoli e alle folle, alla Chiesa e al mondo, quali persone sono avvicinate dal Regno che viene e con quali atteggiamenti lo si riceve. Nella successione della parola “beati” Gesù propone se stesso come modello, perché i poveri e quanti sono nelle situazioni che sembrano incompatibili con la felicità e non sperimentano nessuna gioia stabile – che perciò neppure gradirebbero sentirsi dire che la loro è una situazione di cui felicitarsi – abbiano tuttavia in Lui l’occasione interiore di aprirsi alla speranza. Questo fa riflettere sull’inopportunità di parole che, a volte, ci viene fatto di pronunciare, con l’intento di confortare persone angosciate, in situazioni irresolubili o non recuperabili, come sono certe sofferenze e certe perdite in cui la morte sembra l’ultima parola. Prima di parlare dovremmo domandare allo Spirito Santo la certezza della fede e la saggezza della discrezione nel proporla a quanti sono scandalizzati dalla negatività.
Gesù capovolge le convinzioni diffuse, proclama la presenza e la benedizione di Dio proprio in quelle situazioni, mostrandole vive in se stesso, nella sua inaudita capacità di portare la sofferenza, uomo con noi, fratello come noi, amore premuroso per noi. Appare agli occhi e al cuore di chi lo ascolta “condannato alla stessa pena”, “egli che non ha fatto niente di male”, come sulla croce gli dirà il “buon ladrone” (Lc.23,40-41).
Quando, davanti alla raffigurazione muta della croce, ci viene di domandare: “Perché anche Lui, innocente e santo?”, nel silenzio della preghiera quella croce si svela come il libro aperto della vicinanza di Dio ed è la radice da cui nasce la parola “beati”. Gesù si pone come contestazione di atteggiamenti che deludono la speranza di chi grida il dolore, che si sottraggono alla solidarietà, oppure si appoggiano alla retorica di una beatitudine disincarnata, senza dolore, atteggiamenti senza condivisione e fatica, che spingono a devozioni false, e perciò ipocrite. Gesù non dice che la beatitudine si vive grazie alla sofferenza, ma nonostante la sofferenza. E sana il conflitto che dilania la mente ed il cuore, che spinge all’angoscia del “perché?” e si fa compagno di strada, fratello di ogni situazione umana, perché la speranza sia più forte della situazione stessa: c’è lui che la ha pagata con il suo “perché?” cui non è stata data risposta (Mt.27.46).
Nel farsi testimone e modello di speranza, Gesù ha suscitato nella storia dell’umanità una moltitudine di persone che, con fatica ma con chiarezza, sono diventate libere dai condizionamenti mondani e capaci di donare le ragioni della speranza. Essi hanno insegnato che, per non essere dipendenti dalla possessività, vinti dall’afflizione, per essere capaci di avere cuore di misericordia e di perdonare, per cercare il bene comune in modo puro, senza interessi, occorre l’accoglienza profonda della persona di Lui, del suo pensiero e della sua presenza: questa presenza sperimentata e testimoniata dai discepoli e dal loro rapporto fraterno è la realtà stessa del Regno che attrae l’umanità.
Nelle beatitudini non c’è solo promessa di futuro, ma fiducia e pace per il presente se c’è il rapporto con Cristo e spazio per il suo Spirito; fiducia e pace che aiutano a custodire la speranza nella conclusione positiva della storia in cui presente e futuro si compenetrano e svelano la verità di quella parola “beati”.
Bruno Maggioni, commentatore esperto del Vangelo, scrive:
“Se leggessimo la storia alla luce del presente, dovremmo concludere che la violenza è produttiva, che l’amore è sconfitto, inutile. Daremmo ragione al mondo e torto a Cristo.
Ma se leggiamo la storia alla luce della sua conclusione, alla luce del giudizio di Dio, allora dobbiamo concludere che la carta vincente, anche se adesso è smentita e crocefissa, è l’amore.
Il Crocifisso è risorto. L’amore è l’unica realtà vittoriosa”
(B: Maggioni, “I vangeli”)
In realtà, tutti sperimentiamo la verità della parola “beati” guardando a quanti, donne e uomini, custodiscono la speranza di tutti in questo momento di contrasti drammatici, mentre le nazioni “ricche” sprecano e i giovani del Nord Africa fanno la rivoluzione per pane e libertà. Sono la folla delle beatitudini che prepara un futuro buono per tutti. Sono gli operatori della pace, gli onesti nel lavoro, i fedeli nella famiglia, i giusti nelle istituzioni; quelli che non si rassegnano alle furberie, che non latitano dal lavoro e non scavalcano il dovere, ma vivono con attenzione le piccole cose. Sono le donne e gli uomini che alimentano la speranza, anche se giornali e TV non parlano di loro perché troppo modesti, perché non amano i primi piani. Ci dicono a fatti che Dio non ama il dolore, ci ricordano che bisogna impegnarsi con ostinazione per vincerlo, perché, come amava affermare S. Alfonso dei Liguori: “Dio ama l’uomo felice!”.
Oggi ringraziamo per questa folla di “beati” e domandiamo nella preghiera di imitarli, come ci dicessero di non pensare le beatitudini come un’utopia e i ripetessero le parole dei primi cristiani:
“Desiderate intensamente i carismi più grandi!”. (1Cor.12,31)