IX DOMENICA T.O. – Anno A
(Dt 11,18.26-28.32; Sal.30; Rm 3,21-25a.28; Mt 7,21-27)
Il brano proposto dalla liturgia è la conclusione del discorso del monte con cui il Signore, nel testo di Matteo, annuncia le linee fondamentali della sua missione: l’evangelista vi dedica tre capitoli, dal quinto al settimo.
Già, nei versetti precedenti, Gesù aveva usato l’immagine dell’albero e dei suoi frutti, buoni o cattivi, per indicare l’autenticità del discepolato. È un momento di revisione di vita personale e comunitaria, cui tutti siamo chiamati. Matteo non dimenticherà questo insegnamento perché, al capitolo 21, riferirà la delusione del Signore davanti al fico dalle tante foglie e assenza di frutto. Ci viene detto che l’apparenza non è la realtà. E veniamo ammoniti per la contraddizione che si manifesta in chi celebra solennemente il nome del Signore, ma non ne compie la volontà.
Ma che cosa è la volontà di Dio? Noi la viviamo spesso in maniera passiva, quando, di fronte alle difficoltà, allarghiamo le braccia dicendo: “Sia fatta la volontà di Dio”. La volontà di Dio è il suo disegno di creazione e di salvezza. Matteo ama chiamarla “il regno”: non è un’idea astratta, ma una proposta che raggiunge concretamente – come la luce un prisma dalle molte sfaccettature, quasi come terminali di vita obbediente nella fede – ogni azione e momento della quotidianità, domandando di riflettersi in essi ed esigendo di evitare la dissonanza tra gli aspetti concreti del vivere e il disegno generale. Dio non può volere che il bene totale dell’uomo. E Gesù domanda ai discepoli di avere sempre presente questo e di volerlo concretamente: perciò insegna a pregare: “venga il tuo regno, si faccia la tua volontà”. Perciò il perdono – come il Padre misericordioso – dei nemici, la disponibilità a dare con generosità, il non fermarsi all’amore solo di chi ci ama. Il dono di essere discepoli del vangelo domanda il concreto immergersi nella storia, senza di cui le stesse lodi ed acclamazioni al Signore lasciano le cose come stanno e non danno perciò accesso alla vita di Dio. Matteo lo dice con particolare intensità alla propria comunità, in cui vi erano forse dei cali di tensione, e utilizza perciò il riferimento al giorno del giudizio, come per ricordare a chi lo legge che, nella piena luce della verità di Dio su ciascuno, resterà valida la carità che opera e serve, non la ricchezza di sentimenti buoni e parole avvincenti. Matteo accentua l’espressione dolorosa di estraneità a Dio con la frase dura “non vi ho mai conosciuto”, pronunciata anche di fronte ad annunciatori del vangelo e operatori di guarigioni.
Il discepolo non potrà perciò essere uno che vive la “anomia”, la convinzione che non esista una verità che precede, che va sempre cercata ed accolta, per essere vissuta in un’obbedienza che attua il regno e perciò rende pienamente liberi. Matteo invita alla purificazione della mente i membri della sua comunità, forse poco vigilanti ed impegnati. È un invito che ci riguarda tutti. Il suo pensiero, che poi riapparirà nelle parabole dei talenti e delle dieci vergini, cinque stolte e cinque sagge, spinge perché i cristiani vivano nella coscienza del dono ricevuto e sentano la responsabilità di far circolare quel dono a favore dell’umanità.
La “anomia” è proprio l’interesse del “nemico”, quel satana che vuole la disunione ed odia la proposta di amore di Dio Trinità, che va accolta e praticata nel discernimento, come abbiamo meditato le scorse domeniche. L’aver vissuto o meno nella volontà di Dio non sarà una questione di bravura o di merito, ma di verità che rimane per sempre: l’obbedienza alla Parola è quello che resterà della nostra vita.
La parabola delle due case e dei due costruttori dice quello che vale per Gesù, quel “fare la parola” per cui essa è detta dai cristiani “parola di vita”. Questo è il buon fondamento della casa, perciò dell’esistenza nella fede: il praticare il suo insegnamento. Si è discepoli non solo per l’ascolto, che resta come la condizione previa, ma quello che conta di più è il fare quello che si è udito, come ammonisce Giacomo nella sua lettera: “Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori” (Gc.1,22).
Viene da chiedersi quale sia il valore di un’adesione alla fede superficiale, non radicata nel cuore e nella mente, alla luce dell’osservazione di Agostino: “La fede non pensata è niente”.
Fa riflettere l’uso che Matteo fa, nel raccontare la parabola, di due aggettivi che sembrano appartenere non tanto al linguaggio etico-religioso, ma a quello antropologico: “saggio” e “stolto”. Sono parole laiche: la casa di Dio può essere anche dell’uomo che non aderisce esplicitamente alla religione, ma capisce che la parola del monte è saggezza. Matteo dice che Gesù sa guardare alla propria vita come unità, la sa prendere in mano totalmente, cosa che per noi è difficilissima, perché viviamo a segmenti, separati e a volte fratturati gli uni dagli altri. Con grande difficoltà guardiamo alla vita come insieme, come casa in cui la vita, la morte, l’eternità sono strettamente collegate. Così siamo “soggetto” della vita per alcune realtà e non lo siamo per altre.
L’esempio della casa che non cade fa pensare a Gesù che è “soggetto” della propria esistenza, persino nella passione in cui è “soggetto”, nel senso che è sottoposto alla vicenda esterna. Come dice il Cardinale Martini “Il termine ‘soggetto’ si applica a Gesù in due sensi: ‘soggetto’, cioè suddito, colui che si sa creato da Dio e il cui destino è nelle mani del Padre, e ‘soggetto’ in senso invece attivo, cioè centro e fonte di azione, colui che prende in mano la propria vita, assumendola come totalità e da a noi la stessa grazia”.
In un tempo pieno di tanta incertezza, domandiamo al Signore di essere casa che non crolla neanche nella tempesta, di essere, come Gesù, soggetti alla volontà sua, ma anche soggetti attivi di amore.
Con il capitolo 7 ha termine in Matteo il grande discorso del monte ed anche la nostra assemblea è chiamata a riflettere: non serve la sola adesione mentale al Vangelo, neppure l’aver annunciato, agito, l’essersi prodigati per il nome di Gesù Cristo. Questi atteggiamenti buoni e generosi non bastano alla comunione piena con il Signore. Matteo riporta le parole di Gesù che indica nel compimento della volontà di Dio l’elemento discriminante per essere riconosciuti discepoli. È solo questo compimento che fa della professione di fede qualcosa che tocca il cuore e trasforma la persona fino alla condivisione piena e reale del pensiero e del progetto di Dio Creatore, “nascosto” nel suo cuore e “preordinato prima dei secoli”, come scrive Paolo ai Corinti (1 Cor.2,7), e avviato all’attuazione con il dono della vita.
Quando mancasse questa adesione, quando l’esistenza non fosse abitata profondamente dalla tensione alla attuazione del pensiero-progetto, la vita cristiana sarebbe precaria e fragile come la casa dell’uomo imprudente che costruisce sulla sabbia e che Gesù definisce “stolto”, diversamente da colui che sapientemente costruisce sulla roccia per non rischiare la inconsistenza della casa nel giorno imprevedibile dell’alluvione, e che Gesù definisce “saggio”. La stabilità dell’edificio dell’esistenza nella fede non è, perciò, assicurata dalla soggettività individuale, condizionata com’è dalla volubilità e dai momenti contraddittori che tutti conosciamo, o da una adesione che non si traduce in vita perché emotiva e velleitaria, anche se appariscente nella ritualità e nell’attivismo religioso. Gesù dice che nel giorno della verità pienamente svelata, nel giorno ultimo di ciascuno, non sarà l’apparenza a contare. Gesù propone se stesso come colui che si ciba della volontà di Dio (Gv.4,34), fino alla definitività (Gv.17,4), e al compimento dell’offerta di sé (Gv.19,30). In questa “sazietà” del “compimento” sulla croce la Parola e l’Agire si sono unificati. Gesù è egli stesso la volontà di Dio su di sé. È la casa dell’uomo fatta roccia, che resiste e accoglie. “La Parola di Dio – ha scritto uno studioso contemporaneo – non è soltanto un discorso che bisogna comprendere e interpretare; essa è soprattutto una persona che deve diventare vita e azione in noi” (Radermakers).
Comprendiamo che compiere la volontà del Padre, come Gesù ci insegna a chiedere nel Padre Nostro, è la più alta e affascinante vocazione del credente, non rassegnazione, ma possibilità. Ed è sempre immedesimazione con il mistero della croce, punto massimo di attuazione del “sì” della fede, in qualsiasi modo venga domandato di oltrepassare la volontà umana. Pensiamo alle parole radicali di Ignazio di Loyola: “Prendi, Signore, e ricevi tutta la mia libertà, la mia memoria, il mio intelletto, la mia volontà … di tutto disponi secondo ogni tua volontà”. O a quelle di abbandono filiale che Charles de Foucauld esprimeva: “Padre mio, mi abbandono a te, fa di me quello che ti piace…”. O, ancora, più vicine al nostro tempo, quelle del racconto di Chiara Lubich: “Così, adagio, adagio, ci siamo abituate ad ascoltare con crescente attenzione la “voce” dentro di noi, che ci sottolineava la volontà di Dio, espressa nelle più varie maniere, imparando a distinguerla dalle molte altre della nostra volontà, dell’ ”uomo vecchio” in noi. Si visse così e si era certe che, con l’andare del tempo, avremmo visto il Signore comporre con la nostra vita un magnifico disegno, come un divino ricamo”. (“Tutti siamo uno” 1968),
La volontà di Dio, perciò, non come catena fiscale, ma come possibilità di pienezza dell’io; non come sabbia volatile, ma come solida roccia.
Alla vigilia del tempo di Quaresima, si può concludere con un’applicazione all’attualità, a qualcosa sui cui interrogarsi. Il nostro tempo ama presentarsi come quello della comunicazione e mezzi, sempre più accessibili, come la chiave, o una delle più importanti chiavi di informazione che accompagnano nel cammino di formazione personale, nella conoscenza di sé, nel desiderio di essere più istruiti, più liberi, più uomini. Ma, al di là della preziosità degli strumenti, ci si accorge e diventa sempre più evidente che la realtà non corrisponde ai desideri e alle promesse della pubblicità. La società appare sempre più “liquida”, le persone sempre meno ancorate alla solidità. La montagna enorme dei mille volti e delle mille voci dell’informazione, genera sempre più frequentemente smarrimento nella valutazione della realtà e diffidenza per i tanti giochi di interessi che la schiavizzano. E tanti, anche fra i credenti, rinunciano alla fatica del discernimento, si arrendono all’appiattimento su quanto è conclamato come irrinunciabile. Si sperimenta l’incapacità di proporsi come portatori di un pensiero altro, di dialogo rispettoso ma tenace per testimoniare la “roccia” su cui è possibile in ogni tempo costruire. Occorre la sapienza del cuore per valutare e decidere, un rapporto forte con la roccia della verità di Dio, del suo progetto “nascosto”, ma attuale.
Oggi abbiamo domandato nella preghiera:
“O Dio che edifichi la nostra vita sulla roccia della tua parola,
fa’ che essa diventi il fondamento dei nostri giudizi e delle nostre scelte,
perché non siamo travolti dai venti delle opinioni umane,
ma resistiamo saldi nella fede”.