I DOMENICA DI QUARESIMA – Anno A
(Gen 2,7-9; 3,1-7; Sal.50; Rm 5,12-19; Mt 4,1-11)
La tentazione è presente nella vita di ogni uomo, fin dall’origine (lo abbiamo visto nella prima lettura) e ne rimangono nella storia le conseguenze drammatiche (come ci ha detto Paolo nella seconda lettura). Generalmente abbiamo una concezione negativa della tentazione in quanto la riteniamo legata all’impetuosità degli stimoli, come l’aggressività, la ossessività, la violenza. Diamo così alla tentazione un significato negativo, a volte la identifichiamo con gli errori morali personali, più raramente con gli atteggiamenti di gruppo.
Gli evangelisti parlano della tentazione nella vita di Gesù, in riferimento alla sua missione, come non osando parlare della sua interiorità di uomo. Ma tanti episodi lo mostrano sotto la tentazione: il Getsemani, le parole di fronte alla prospettiva della croce, riportate da Giovanni: “Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre salvami da quest’ora?” (Gv.12,27), il grido sulla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”(Mt.27,46). Impariamo da Gesù. Ci dice Agostino: “Egli ha preso da te la debolezza, tu prendi da lui la vittoria”.
Gesù ha conosciuto, come uomo, difficoltà, condizionamenti, insicurezze nel cammino. Come per ogni uomo il proprio ruolo nella vita non è certo e garantito, ma è sempre frutto di una ricerca lenta e faticosa del volere di Dio, nella fede, sapendo che questo volere non si svela in modo chiaro e inappellabile, ma domanda preghiera, discernimento, comunione con i fratelli di fede, attenzione ai segni della storia, disponibilità alla solitudine nello scontro con la mentalità del mondo.
A Nazaret la preghiera, il colloquio con Maria avevano maturato in Gesù la coscienza della propria missione come servizio, nella linea della profezia di Isaia. Questa coscienza era stata confermata al momento del battesimo dalla voce del Padre; ma la consacrazione ricevuta non era condivisa dall’attesa generale di Israele, dalla stessa attesa religiosa, che si ravvisava più nell’intervento prodigioso dell’onnipotenza di Dio per la giustizia, che nell’umile dedicarsi ai poveri. C’è divergenza tra il sentire intimo di Gesù e le aspettative del popolo. In questa divergenza si apre lo spazio della tentazione, come esperienza di solitudine, di incertezza, di disorientamento nella ricerca della volontà del Padre.
L’immaginazione devota, l’opera di tanti artisti, ha voluto vedere la tentazione di Gesù come un momento di scontro cosmico. In realtà i Vangeli dicono con sobrietà quasi fredda: “Per quaranta giorni fu tentato dal diavolo”. Così scrive Luca (4,1), che aggiunge: “Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui, per ritornare al tempo fissato” (Lc.4,13).
Nell’episodio della tentazione operano due forze, cui dobbiamo fare molta attenzione:
lo Spirito, che conduce Gesù nel deserto perché compia la sua scelta di vita davanti a Dio.
il diavolo, che non è una finzione didattica, proiezione della fragilità umana, ma un essere – persona che misteriosamente induce a visioni alternative alla proposta di Dio, mostrandole come più realistiche, capaci di realizzare l’uomo in maniera più piena. Abbiamo visto nella prima lettura che il serpente convince la donna a mangiare il frutto dicendole : “Diventerete come Dio” (Gen.3,5). Questo essere è Satana, l’avversario, inferiore a Dio, ma reale. La sua è una presenza che si insinua nelle pieghe dell’incertezza del pensiero e della volontà, per distogliere dalla fiducia di poter andare oltre i limiti della nostra individualità ed assumere responsabilmente la fatica della fedeltà. Sono importanti, per vincerlo, la ricerca del rapporto di amore con i fratelli, la preghiera. Il Vangelo ci mostra oggi il diavolo come una realtà presente, capace di influenzare la vita degli uomini.
È colui che invita al prodigio, quel prodigio che gli stessi credenti spesso chiedono a Dio per semplificare le cose. Gesù, invece, ci dice che da sempre il pane è una questione tormentosa per l’uomo, ma, anche se le teorie del mercato e del capitalismo pretendono di fornirci soluzioni prodigiose, il problema della fame nel mondo va affrontato guardando la realtà ed i rapporti umani alla luce della Parola “che esce dalla bocca di Dio”.
Allo stesso modo l’invito alla spettacolarizzazione del bene, spettacolarizzazione così presente anche nell’ambito della comunità cristiana, è rifiutato da Gesù, che ci invita a non impaurirci del limite umano, ma a fidarci della provvidenza che ci accompagna ogni giorno. È questo lo spirito vero del Salmo 91, di cui il diavolo si era servito per tentarlo.
La suggestione di pensare l’affermazione del bene come un potere socio-politico, di imporre la giustizia con la forza, è rifiutato da Gesù come vera idolatria. Il potere che schiavizza i propri sudditi è una tentazione satanica: Gesù lo rifiuta anche se così non corrisponde alle attese di Israele. Gesù vuole il rispetto dell’uomo e della sua dignità, non il bene di una nazione, ma il bene di tutti. Il suo disegno, il disegno di Dio, non è la superiorità di una parte sul tutto, ma il confluire in unità di tutta la famiglia umana. Perciò il no alla tentazione di Satana.
Dicendo questo no Gesù deve vincere se stesso, perché egli condivide con l’uomo tutta la sua debolezza. Ha paura di soffrire (Gv.12), al Getsemani desidera salvarsi (Mt.26,39), ma si assoggetta a questa lunga tensione, per essere fedele alla volontà del Padre. Il ritirarsi di Satana è il frutto della sua lotta, che si rinnoverà con Pietro che resiste di fronte alla passione (Mt.16,22), con i parenti che non lo comprendono (Gv.7,1), con i nemici (Mt.12,48). La presenza degli angeli che lo servono (Mt.4,11) è segno dell’armonia, frutto della vittoria di Gesù. È una vittoria importante per noi: ci sta davanti come una possibilità. Le tentazioni sono un momento di grande crescita per Gesù, sono una linea di condotta per il cammino di fede di chi intende seguirlo.
Allora, se vogliamo “pensare amore”, come ci siamo proposti, dobbiamo guardare il deserto e le sue tentazioni non come fatica e maledizione, ma come dono, come possibilità di vivere con Dio.
“L’uomo vivrà di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”
È come una bellissima definizione che da ragione alla fame intima, mai definitivamente appagata e mai rimossa, che abita nell’uomo pensante.
All’inizio di questa quaresima domandiamoci come viviamo il nostro rapporto con Dio, con ogni parola che “esce dalla sua bocca”. Dalla bocca di Dio è venuta la prima luce, l’essere del cosmo e di ogni creatura, l’alito di vita sul primo uomo, come abbiamo ascoltato all’inizio della prima lettura, come leggeremo nella veglia pasquale. Dalla bocca di Dio il Verbo, Figlio della Trinità, il Vangelo, parola per ogni uomo. Per questo l’uomo vive di Dio e della creazione, di aspirazioni e di storia, di memoria e di attualità, di quello che lo Spirito sussurra nel cuore e di quello che il prossimo confida mentre si fa il cammino.
Gesù, in questa prima liturgia di quaresima, ci indica la via per i momenti di scelta che la vita comporta, di discernimento quando la parola dell’inganno tenta di sostituirsi a quella della verità. E lo fa con la fermezza che è espressione non della sua sensibilità provata, ma della sua libertà interiore che nasce dalla certezza della parola di Dio: “Sta scritto”. Il suo atteggiamento parla ai discepoli della scelta di Dio, matura e consapevole. La forza per scegliere nei momenti di ambiguità dipende dalla forza degli ideali in cui credo. Se voglio scegliere da credente, devo essere radicato nella parola del vangelo.
L’atteggiamento di Gesù è rivelato nel momento in cui deve scegliere di superare l’idea diffusa di un messianismo di giudizio e di condanna, per far proprio quello annunciato da Isaia con la previsione di un servo intento a portare conforto a quanti sono oppressi, offesi, umiliati, ammalati. Gesù opta radicalmente per la proposta di Dio attraverso il profeta e, pur sapendo che avrà l’incomprensione di tanti, va al di là delle attese del messianismo tradizionale e della visione dei suoi contemporanei, dello stesso Giovanni Battista. La voce intima del Padre e il gemito dell’umanità consapevole della propria miseria, al Giordano, si fondono, non senza fatica, nel suo digiuno nel deserto.
Non senza fatica. Il racconto delle tentazioni non va preso come una descrizione scenografica e dall’intento pedagogico: è lo svelamento del dramma reale, storico, di Gesù Cristo che compie faticosamente il superamento del fascino allettante di una missione trionfalistica e riconosciuta dalle folle. Il richiamo allo Spirito, che conduce Gesù nel deserto, e all’azione di Satana che lo tenta dicono tutta la serietà di questa lotta.
Nelle tre scene, come in una sintesi, appare quello che Gesù rifiuta.
Appare, nella prima, come uno che si rende conto, nella propria fame, di come la fame sia la prova più frequente e tormentosa dell’umanità, anche oggi indicibile e mal conosciuta dalla nostra società del benessere. Don Sandro in questi giorni ci ha riferito che in Centrafrica si guadagna meno di un dollaro al giorno. Gesù rimanda alla parola di Dio, non nel senso della lettura teorica della pagina scritta, che non toglie il dramma del problema, ma in quello della fiducia in Dio che, come dice la Scrittura: “conserva coloro che credono in lui” (Sap.16,26). È fiducia vera, non retorica, nella Provvidenza che si manifesta o direttamente o nell’amore dei fratelli di buona volontà, disposti alla condivisione. L’esperienza diventa prodigiosa quando la fede opera oggi, come al tempo di Gesù. L’intervento di Dio dipende dalla fede di quanti credono nella Parola.
Nella seconda scena, Gesù mostra come la fede si fidi di Dio non puntando ad interventi straordinari, ma sulla sua presenza nella ordinarietà della vita, con tutte le sue incognite. È tipico della debolezza di fede cercare conferme miracolose e chiarezze corrispondenti al proprio modo di vedere le cose, rifiutando quello che oltrepassa i limiti della propria soggettività. Questo, sottilmente, è il rischio di togliere a Dio la parola e la libertà, decidendo noi per Lui e sottoponendo la fiducia in Lui all’esperienza tangibile del suo intervento.
E, infine, Gesù appare come portatore di una rivelazione nuova. Non è Israele il regno di Dio, chiamato al dominio di altri popoli; Gesù non si farà sposo di un solo popolo, ma dell’uomo, perchè il disegno di Dio è la fraternità universale.
Questa la scelta di Gesù.
Un no detto a se stesso, oltre che a Satana. Perchè tutto quello che fa vibrare il cuore umano di gioia quando vede prevalere il proprio ideale, e di dolore quando lo vede rifiutato, gli appartiene. Non può peccare, ma può soffrire. E soffre, pagando di persona, per rifiutare la menzogna e vivere in sé lo spirito umile e povero del servo, che, come dice la Lettera agli Ebrei “pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb.5,8).
Questa pagina ci interpella: non racconta solo la prova di Gesù, ma pone la domanda su cosa veramente conta nella vita dell’uomo. Anche quando non si tratta di ateismo, la tentazione è sempre una suggestione di rimuovere Dio, che appare secondario e insufficiente, di fronte ai problemi urgenti, all’emergere degli interrogativi etici, economici, politici.
Satana vuole dire a Gesù come salvare il mondo: questo è il problema vero della fede.
Ascoltiamo l’insegnamento di Agostino:
“In Cristo eri tentato anche tu.
Perchè Cristo prese da te la sua carne, ma da sé la tua salvezza, da te la morte, ma da sé la tua vita, da te l’umiliazione, ma da sé la tua gloria, dunque prese da te la sua tentazione, da sé la tua vittoria.
Se siamo stati tentati in lui, sarà proprio in lui che vinceremo il diavolo”
(Agostino. Commento al Salmo 60)
In questa prima domenica di quaresima domandiamo la grazia di comprendere in maniera nuova cosa significa:
“A Lui solo renderai culto”!
La Quaresima propone di prepararsi nella fede, per quaranta giorni, alla Pasqua. Un tempo da vivere con Cristo “nel deserto”, inteso non in senso fisico, ma come spazio cercato dalla volontà per ascoltare più attentamente la Parola di Dio, per vivere con decisa fermezza il discernimento dell’idolatria, piccola o grande, che ciascuno si porta dentro come male per vincerlo, per una migliore qualità della vita di fede. Spazio, perciò, di interiorità che la liturgia, soprattutto con l’Eucarestia domenicale, aiuta a scoprire con i suoi annunci e i suoi gesti significativi, la cui importanza ed efficacia è sempre da riscoprire perché potrebbero apparire scontati a motivo della consuetudine. È quello che ci proponiamo perché la Quaresima non sia soltanto una consuetudine.
Le pagine della Scrittura che incontreremo nelle cinque domeniche sono inviti alla riflessione. Lì è radicato il rinnovamento a cui conduce la Pasqua. A cominciare da oggi, con i racconti dell’esperienza drammatica dei primi uomini che soccombono alla suggestione e del Signore tentato e vittorioso. La tentazione di fondo – che ci coinvolge tutti, incapaci di discernere bene e male – è nel dubitare di Dio, perché presentato come geloso dell’uomo, come colui che lo inganna con grandi promesse, ma gli tende tranelli perché non diventi simile a lui. Un Dio di cui non ci si può fidare, che costringe alla convinzione di doversi gestire da sé, come se egli non esistesse.
Il primo peccato è quello che toglie la gioia di essere creature di Dio, di non riconoscerlo al “principio” della propria vita, di non sentirsi felici di esprimere questo riconoscimento nell’adorazione e nel ringraziamento. È il peccato di arrendersi alla presunzione di poter essere da soli misura del bene e del male, padroni del proprio destino.
Guardando Gesù che respinge la tentazione per imboccare con decisione il cammino di obbedienza a Dio, i discepoli che riflettono su quel momento di umile umanità e di luminosa esemplarità, vi scoprono la propria chiamata alla scelta di Dio come “principio” della propria vita (da cui veniamo e verso cui andiamo), imparano nella gioia ad essere sempre più veri, a superare le ambiguità, a valutare le proprie scelte sulle parole e i gesti di Lui, a non lasciarsi scoraggiare dalle proposte esigenti, ad entrare con fiducia in una via diversa da quella della logica umana, a seguire un maestro che è disposto a perdere, che rifiuta il chiasso del successo e convive con la durezza dell’insuccesso, senza essere soccorso. Infine, a pronunciare con lui: “Vattene, Satana … sta scritto … adorerai Dio solo”. Il combattimento iniziale di Gesù, vissuto nella docilità allo Spirito, introduce alla conoscenza della fonte della sua consacrazione radicale alla Parola da annunciare ricevuta dal Padre e all’offerta della propria vita, spendendola “fino alla fine”. È svelato che significa per Gesù adorare Dio.
Iniziando la celebrazione dell’Eucarestia “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”, siamo introdotti nell’adorazione di Gesù, nella certezza del Dio unico che entra come Padre nella storia dell’uomo, nelle nostre esistenze personali. Ogni momento del culto cristiano inizia da quel “nome”, che significa paternità che raggiunge e che avvolge ogni donna e ogni uomo che le si aprono con reciprocità umile e personale, di amore in cui tutto assume luce e vita nuova. In questa relazione da cui tutto rinasce, ci si rende conto che ognuno che sia coinvolto in essa, a noi simile o dissimile, vicino o lontano che sia, perché figlio dello stesso Padre è fratello. La paternità di Dio si estende nella fraternità umana, che assume luce e vita nuova, è liberata dall’egocentrismo. “Dove due o tre sono riuniti”: l’umanità diventa famiglia, quando prega diventa assemblea sacra, quando vive nel mondo è la Chiesa, quella realtà resa capace dallo Spirito di Dio di essere segno dell’unità del genere umano.
Ogni celebrazione che sia veramente radicata nell’adorazione, presuppone l’atto di fede nella relazione paterna nel dono di Dio e filiale nel consenso libero di ciascuno. Per questo motivo è riproposto costantemente, richiamato in ogni gesto di lode e ringraziamento nella Chiesa. Nel “nome” significa riferirsi al “principio” e rendere così possibile, nonostante tutti i limiti e le contraddizioni, che un avvenimento non resti del passato, ma si prolunghi nel presente che perdura nel tempo, attuando nell’obbedienza della fede il comando di Gesù: “Fate questo in memoria di me”. L’Eucarestia è l’incarnazione che continua. E ognuno che vi partecipi, per la relazione personale con Dio e per il riconoscere nella pace gli altri come fratelli, è “concelebrante” con il sacerdote che è il ministro ordinato per fare la parte del Signore che resta con i suoi. Il credente comprende che nessuno potrebbe essere partecipe a questo livello se non fosse presente di persona. Dicevano i primi cristiani che l’assenza dall’Eucarestia di quanti la trascurano “dimagrisce il corpo della comunità”, le toglie pienezza.
Presenza ed accoglienza reciproca sono perciò elementi essenziali perché la famiglia dei credenti possa ricevere con frutto il dono della Parola e del Corpo del Signore, il dono della Trinità, del Dio amore che ci prende in sé, nella vita senza fine. Questo significa: “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”, e questo significa l’”Amen”, che l’assemblea è chiamata ad esprimere.
Il “nome” è il “principio”. Viverlo significa “adorare Dio solo”, credere che egli è colui che crea il mondo, che trascende tempo e spazio e pure resta presente, si accorge e mantiene le promesse, attuandole nel tempo dell’uomo. L’“Amen” è la gioia di sentirsi creature del Padre, la pace di poter ricominciare da Lui, la certezza di essere accolti da Lui.