II DOMENICA DI QUARESIMA – Anno A
(Gen 12,1-4; Sal.32; 2Tm 1,8-10; Mt 17,1-9)
Nel capitolo 16, Matteo racconta il dialogo bello e profondo di Gesù con i discepoli, quando egli si ferma per domandare quale sia l’opinione della gente su di lui. Dopo che essi la riferiscono, domanda: “E voi chi dite che io sia?” Pietro allora – sorretto dallo Spirito Santo – fa la sua professione di fede: “Tu sei il Cristo, figlio del Dio vivente”; Gesù lo invita ad essere riconoscente perchè solo il Padre può averglielo rivelato e lo costituisce responsabile dell’unità della Chiesa. Subito dopo Matteo riferisce il primo annuncio della passione con la reazione inorridita dello stesso Pietro a cui il Signore rimprovera, chiamandolo “satana” d non pensare “secondo Dio”, ma secondo gli uomini.
Dopo questo episodio drammatico riprende il cammino ed ha inizio il capitolo 17.“Sei giorni dopo” con Pietro, Giacomo e Giovanni, i tre che saranno testimoni dell’angoscia del Getsemani, Gesù vive il momento della trasfigurazione. In profonda preghiera, su un “monte alto”, simbolo dell’incontro con Dio, la compenetrazione con il Padre, dell’essere in Lui, diventa pura Luce. “Luce da Luce” dirà il Credo cristiano, che “illumina ogni uomo” (Gv.1,9). Non è una luce che lo investe dall’esterno, come avvenne a Mosè, che la rifletteva (Es.34,29), ma risplende dall’interno. È la luce. Il contesto della glorificazione di Cristo è, perciò, quello della uscita da sé senza attesa di ritorno, per puro amore del Padre, e insegna che non si può leggere il vangelo della gloria senza quello della passione, come appare dal dialogo con Mosè ed Elia, nel vangelo di Luca (Lc.9,30) e dall’incontro con i discepoli di Emmaus (Lc.24,26), La gloria è conseguenza del dono totale della propria vita, compiuto da Gesù. Se vogliamo capire Gesù, bisogna lasciarsi ammaestrare da Lui, morto e risorto.
In questo senso la nube, che dovrebbe oscurare, è “luminosa”. Ed è autorevole la voce rivolta ai discepoli: “Ascoltatelo!”, con cui Dio stesso, che corregge Pietro per essersi espresso con la voce della carne e del sangue, fa di Gesù la stessa parola divina della rivelazione. Dopo aver ascoltato ed essere stati testimoni, i discepoli devono ridiscendere ed imparare sempre di nuovo ad ascoltare la via di Gesù, per non cadere ancora nella tentazione di accomodare il disegno di Dio alla “saggezza” umana. Il messaggio perentorio rivolto ai discepoli è una rivelazione: non potrà essere attenuato, è diretto alla Chiesa di tutti i tempi, rappresentata dai tre, perchè la custodisca nel “deposito della fede”. La concezione di Pietro non è pensiero di Dio, perciò è falsa. La Chiesa dovrà sempre essere vigilante sul rischio di presentare un Cristo diverso da quello che il Padre dona, l’unico che siamo chiamati ad accogliere. E Matteo lo sottolinea con la prostrazione adorante dei discepoli.
La trasfigurazione è l’apoteosi anticipata del Signore, figlio dell’uomo e figlio di Dio, servo e salvatore, sintesi di una antropologia umana piena, perciò “primogenito fra molti fratelli” (Rom.8,29)… Egli rivela come la pienezza di vita sia nell’uscire fuori di sé, un’uscita senza ritorno, dono gratuito anche nella quotidianità della vita di famiglia, di lavoro, nella vita sociale.
Permettete che aggiunga un pensiero sul volto. Fin dal tempo dell’antichità del pensiero greco e anche nella Bibbia, il volto è una metafora che permette di dare il nome a qualcosa di più grande. Così dal volto si capisce una persona, il suo cuore, la sua interiorità; si può capire la sua parola prima ancora di ascoltarla. Questo spiega perchè l’uomo cerchi di vedere il volto di Dio, pur sapendo di non poterlo raffigurare per il rischio dell’idolatria. L’ebreo sa di questa impossibilità, ma ricorda Mosè, che ha chiesto al Signore: “Mostrami il tuo volto” (Es.33,18), esorta alla ricerca: “cercate sempre il suo volto” (Sal.105,4), benedice: “il Signore faccia brillare il suo volto su di te” (Num.6.25).
Quando gli evangelisti hanno raccontato la trasfigurazione hanno indugiato sulla descrizione del volto di Gesù. Hanno capito che Dio stesso, il Padre non raffigurabile, cercava un volto per mostrarsi e lo ha fatto nel volto di Gesù, che si fa uno con ogni realtà umana. Perciò la prostrazione dei discepoli, adorazione del Padre e del Figlio “icona del Dio invisibile” (Col.1,15). E ricorderanno la parola a Filippo: “Chi vede me vede il Padre” (Gv.12.45).
Cristo è il volto di Dio nel volto dell’uomo che patisce per l’altro uomo. Il vangelo vuole educare all’esperienza di questa presenza e il Risorto stesso si farà maestro, rendendo paradossalmente difficile il riconoscimento di sé da parte anche di coloro che lo avevano conosciuto bene, come i dodici, Maria di Magdala, per insegnare alla Chiesa a non cercarlo nell’esaltazione della corporeità bella e gradevole, ma nel volto che non ha apparenza nè bellezza che attiri, nel volto che egli ha identificato con quanti hanno fame, sete, o nudi e ammalati e in carcere (Mt. 25,,35 ss); nel volto della giovane donna che stamattina mi diceva il suo sgomento per dover essere operata di cancro. Il volto di Gesù è legato ad ogni passione umana, con cui è solidale.
La trasfigurazione di Gesù è rivelazione del destino di trasfigurazione del volto umano in Dio, per il legame con la passione di Gesù, con il suo sguardo di amore compassionevole. È riconoscimento di chi è l’essere umano, pur nella sua corporeità piagata, ma anelante alla trasfigurazione annunciata dal Signore.
Volto umano che dice dignità inviolabile di ciascuno, appello al rispetto, responsabilità per le attese, che è traccia del mistero della presenza che si nasconde e si rivela a chi guarda con amore anche al più piccolo che sia alterità, altro da me.
Volto che dice vocazione alla verità, perchè il volto corrisponda all’interiorità dello spirito, perché la persona umana possa dirsi nella verità di se stessa, senza necessità di esibizioni e di trasformazioni forzate, a cui talvolta obbligano le relazioni umane, rendendo falsi e falsanti, non aiutando il cammino dell’umanità
Domandiamo la grazia di vedere il volto di Dio nei figli di Dio.
Il momento particolare della Trasfigurazione è il dono del Signore ai discepoli per disporli a fare con lui il cammino verso la croce, quella che egli sta per incontrare e quella che ogni discepolo incontrerà, nella consapevolezza che non la croce ma la resurrezione è l’ultima parola nella vita umana. Gesù è manifestato come “Figlio amato”, motivo di compiacimento eterno del Padre, Parola donata perché possa essere ascoltata. Nel racconto dei sinottici, i discepoli sono spettatori e partecipi, destinatari e protagonisti. Si rendono conto della rivelazione e non dimenticheranno mai più la carne umana e mortale del Maestro abitata dalla presenza divina (2Pt.1,16). In quel breve, estasiante momento, comprendono che è finito il tempo della preparazione, dell’attesa affidata alla speranza: d’ora in poi solo Gesù è colui che resta con l’uomo nello scorrere del tempo e delle cose: “Non videro se non Gesù: solo”. Il loro vivere nella fede, d’ora in poi, non sarà altro che guardare Lui, porsi ogni giorno nell’atteggiamento dell’ascolto, come è chiesto dall’alto.
Non solo ascoltare la Parola e aderirvi con l’intelligenza, ma condividerne l’itinerario, partire come Abramo, lasciarsi guidare nei modi e nei momenti che la vita propone. Abramo è come annuncio da lontano della identità di Gesù e di ogni suo discepolo: ascoltare sempre il Padre, fare quello che egli desidera, in una costante disponibilità. Questo comprendono, nella loro esperienza, come dice il testo greco: “Non videro nessuno, se non lui, Gesù, solo”. Poi Giovanni scriverà nel vangelo le parole di Gesù stesso: “Chi ascolta le mie parole e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Gv.6,24). È la religione del cuore, di cui si ha come un’eco nell’annuncio a Maria, che dice di se stessa “Non conosco uomo”, come dire: nella mia vita intima ho solo Dio, lui la verità che seguo, la parola che penso, il dover essere.
La parola centrale della liturgia di questa domenica è: “Ascoltatelo”. Un imperativo che scaccia le titubanze, porta oltre una religiosità emotiva e sentimentale, invita ad una vita nella fede, radicata nel dialogo dell’uomo con Dio, un Dio che parla con le parole e con gli avvenimenti, a cominciare dalla creazione che è la prima sua parola, un Dio che inizia e porta avanti con la sua creatura un rapporto di amicizia confidente che gli fa dire: “Vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio lo ho fatto conoscere a voi” (Gv.15,15). Gesù, dunque, attua la relazione dalla parte di Dio. La fede è lo spazio dell’attuazione umana nei singoli, in ogni tempo e luogo, spazio della Parola accolta e fatta propria, spazio della ricerca della verità di se stessi e del farsi dono. Dirà Agostino: “Le sue parole rimangono in noi quando facciamo quello che ci ha ordinato e desideriamo quanto ci ha promesso; ma quando invece le sue parole restano, sì, nella nostra memoria, ma non se ne trova traccia nella nostra vita e nei nostri costumi, allora il tralcio non fa più parte della vite, perché non assorbe più la vita dalle sue radici” (“Commento a Giovanni”, discorso 81,4).
Oggi possiamo domandarci, da credenti, dove nasce il nostro pensiero, dove attingono significato e forza le nostre scelte. E riandare con la memoria alla alleanza del Sinai, là dove le dieci parole proposte da Dio e accolte liberamente furono fonte di libertà e di sapienza nei singoli e nella collettività. Allo stesso modo l’ascolto della Parola, sia nel segreto del cuore, sia nella liturgia comunitaria, è la condizione per la verità del rapporto con Dio. Ha scritto il Concilio: “La Chiesa non manca mai, soprattutto nella Sacra Liturgia, di nutrirsi del pane della vita alla mensa sia della parola di Dio che del Corpo di Cristo e di porgerlo ai fedeli” (D.V.21). Cattive abitudini ed atteggiamenti poco rigorosi e di indulgenza superficiale verso la trascuratezza dell’ascolto, anche per il ritardo solo apparentemente banale sull’ora della convocazione liturgica, ci hanno, non raramente, privato della gioia, della libertà e della sapienza che la Parola di Dio comunica, impoverendo così la vita di fede, non permettendole di incrociare i momenti veri e contrastanti della vita. Vale l’insegnamento antico dei Padri:
“Se, quando ci viene donato il Corpo di Cristo, usiamo ogni attenzione che non ne cada nulla dalle nostre mani per terra, allo stesso modo dobbiamo stare attenti che la Parola di Dio, quando ci viene somministrata, non svanisca nel nostro cuore perché parliamo o pensiamo ad altro.
Non sarà meno colpevole chi avrà accolto negligentemente la Parola di Dio di colui che per sua disattenzione avrà lasciato cadere per terra il Corpo di Cristo”
(Agostino, Discorso 300,2-3)
Proponiamoci oggi un ascolto più attento e fedele degli avvenimenti in cui Dio tenta di raggiungerci e delle parole sue che aiutano a capire quanto ci viene domandato di vivere. È l’atteggiamento umile che esprime l’esigenza, a volte drammatica, di avere luce e conforto. Come dice in modo positivo e attuale Erri de Luca con espressioni che sanno di esperienza:
“L’ascolto è una cisterna in cui si versa acqua di cielo, di parole scandite a gocce di sillabe.
L’ascolto è un pozzo che le serba intere, da lì se ne può attingere ogni volta che ne manchi una.
E a forza di estrazione la provvista non diminuisce, resta uguale”
(da “E disse” Feltrinelli)