III DOMENICA DI QUARESIMA – Anno A
(Es 17,3-7; Sal.94; Rm 5,1-2.5-8; Gv 4,5-42)
“In quei giorni il popolo soffriva la sete”. Sono i giorni di Israele nel deserto, i giorni dell’umanità, ogni giorno: “O Dio, tu sei il mio Dio, di te ha sete l’anima mia” così, nel Salmo 63, Davide pregava, mille anni prima della venuta di Gesù.
Nel Vangelo di Giovanni c’è come un’urgenza: Gesù “doveva attraversare” la Samaria. In quel “doveva” è indicato il suo debito verso il Padre e verso l‘umanità, l’urgenza di evidenziare all’uomo la sete che lo abita. “Dammi da bere” egli chiede alla donna di Samaria, che si accostava al pozzo per attingere l’acqua. Facendosi prossimo a lei, nel bisogno, Gesù rivela Dio che propone la relazione. Ma l’incontro con Gesù, ci dice Giovanni, provoca la nostalgia di orizzonti più vasti della nostra quotidianità. “Signore, dammi quest’acqua” gli risponde la donna e noi ci uniamo alla sua preghiera: non permettere che la nostra vita si esaurisca nello spazio angusto di un piccolo progetto umano, un po’ di salute, un po’ di soldi, un po’ di amici … dammi l’acqua della sapienza per leggere la mia vita nella verità. È quanto chiede Kierkegaard: “Signore, donaci occhi miopi per tutte le cose che passano ed occhi di piena chiarezza per ogni tua verità”.
L’incontro tra la premura del Signore e l’esigenza dell’uomo provoca la risposta di Gesù: “Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete”. Gesù rivela una cosa fondamentale: tutti siamo chiamati a riscoprire la nostra origine, l’amore personale di Dio per ciascuno di noi, che ci chiama ad una relazione personale, al di là dei ritualismi e delle preoccupazioni etiche. Forse è una cosa che abbiamo già capito e che viviamo nella fede, con gioia. Ma può anche darsi che la abbiamo accantonata, contraddetta con le nostre scelte personali sbagliate e che la nostra sete abbia l’amarezza del pensare che Dio non ci possa amare nella situazione in cui ci siamo venuti a trovare. Ma il Vangelo ci dice che non dobbiamo trasferire nel cuore di Dio le emozioni del nostro piccolo cuore umano, spesso bloccato dal ricordo del male, dal risentimento, dalla difficoltà di perdonare e di ricominciare. Dio non mi ama di meno perché ho sbagliato! È molto importante ricordarlo. Il rivelarsi di Dio in Gesù che si fa prossimo, dice che ciascuno di noi vale molto per lui. Per questo “bussa” alla porta di ogni cuore, sosta al pozzo di ogni sete, offre con termini umilissimi il dialogo di amore. Il nostro pensiero sia quello di una riconoscenza grande per Dio, che oggi, a mezzogiorno, si offre a noi nella verità.
“Và a chiamare tuo marito”. Come dice Giovanni Paolo II, Cristo rivela l’uomo all’uomo, rivela ogni coscienza a se stessa, senza condanna né collera, perché l’amore non è collerico. La donna è portata da Gesù alla conoscenza di sé, della sua vicenda individuale, e di quella del suo popolo. Il dialogo di amore la conduce a guardare con chiarezza il proprio passato, a scoprirne la profonda falsità, a scorgerne gli aneliti di speranza, di indipendenza, a rendersi conto che il suo desiderio di libertà era equivoco, perché contrario al bene vero. Scopre il niente di sé. Ed è costretta a confessare: “Io non ho marito”. Scopre che, come dice Geremia, ha cercato di togliersi la sete “scavando cisterne screpolate” (Ger.2,13).Riconosce il vuoto del cuore umano nell’infedeltà a Dio. Quanta attualità!
Giovanni si serve di questo ritorno della coscienza della dona, per guardare in modo più ampio alle vicende del popolo samaritano, a quelle di tutti noi. I cinque mariti della donna indicano le cinque divinità pagane che il popolo di Samaria aveva onorato. Il sesto è il Dio di Israele, ma egli non può convivere con l’ambiguità di altre divinità, perché perderebbe la sua caratteristica di essere l’Unico, lo Sposo. Non sarebbe più marito, ma convivente, in una folla di concubini. Giovanni ci invita a fare chiarezza interiore, a scoprire con sincerità i luoghi e le situazioni della vita in cui si annida l’idolo, qualsiasi sia il suo fascino. L’idolo può essere il lavoro, i beni, il prestigio, lo stesso benessere per i propri figli. Come dice il libro della Genesi, il peccato, l’idolo, è “accovacciato alla porta”, alla nostra, come a quella di Caino. È necessario smascherarlo per entrare nello spazio grande dell’adorazione vera. È finito il tempo in cui si adorava Dio nei templi. “Viene l’ora” in cui Dio va adorato “in spirito e verità”. Questa pagina di Giovanni è anticipazione di quella che inizierà a Pentecoste. Perciò la preghiera dovrà essere più attenta al cuore che ai riti esterni, alla sacralità dei luoghi, alla solennità delle forme. L’adorazione sarà la relazione con Dio nell’ordinarietà della vita, nella quotidianità fedele, che si sottomette con fiducia al progetto di Dio su ciascuno di noi, con amicizia cordiale e con abbandono filiale. La gioia di sentirsi amati e condotti alla coscienza di sé, qui è l’acquietamento della sete, che diventa riconoscenza esplicita, come per Paolo e per Isa, che festeggiano con noi i 45 anni del loro matrimonio.
La fede è gioia, ed è debito verso l’umanità in cui Cristo è “in agonia fino alla fine dei tempi”, come dice Blaise Pascal, e continua a dire: “Ho sete” (Gv.19,38) domandandoci “Dammi da bere”!
Entriamo nella luce di questa pagina densa di Giovanni, che non è possibile spiegare interamente, meditando solo alcune espressioni, che non oscurano le altre, pur importanti e capaci di parlare al cuore. La Quaresima è tempo di preghiera intensa: durante la settimana possiamo leggere e meditare questo passo nel capitolo 4 del Vangelo di Giovanni.
Esso inizia con un versetto non incluso nella liturgia: “doveva attraversare la Samaria” (Gv.4,4) per sottrarsi al rumore che gli cresceva attorno, ma soprattutto per obbedire alla spinta interiore, che gli urgeva dentro, di portare la luce del Vangelo, l’annuncio di Dio nella novità della sua persona. Nel Vangelo della Trasfigurazione, che ci è stato annunziato domenica scorsa, abbiamo compreso che è Lui la luce, la luce che “illumina ogni uomo” (Gv.1,9). Lui il giorno pieno, simboleggiato dalla nota “era l’ora sesta”, il mezzogiorno.
“Dammi da bere”
il dialogo inizia con una richiesta di aiuto concreto. Gesù inaugura uno stile, che durerà per sempre: si fa strada nel cuore dell’uomo in semplicità, partendo da una necessità ordinaria, che non metta in difficoltà l’interlocutore. Senza aver mai un accento di superiorità, Gesù si presenta come un bisognoso, nel bisognoso, per aiutare la persona a porsi in atteggiamento di amore, di disponibilità, ed essere pronta a comprendere Dio. L’amore viene prima della Parol
a e apre il cuore perchè possa accoglierla: con la richiesta dell’acqua Gesù suscita l’amore nella donna.
“Se tu conoscessi il dono di Dio”
il dono di conoscere Dio come Lui lo conosce. Perciò Gesù inizia subito a parlare dello Spirito che “conosce la profondità di Dio” – come dirà Paolo nella Prima lettera ai Corinti (1Cor.2,10) – e lo dona con la sua parola, che è conoscenza del cuore, esperienza viva di Dio, non dottrina su Dio. Domanda di essere dissetato, per essere ascoltato. E l’ascolto permette, come in una creazione che si rinnova, di non pensare più Dio solo come onnipotente, creatore e giudice, ma come il Padre che ama personalmente ciascuno, attraverso questo Figlio che ne parla; e perciò permette la scoperta gioiosa della esistenza di un oltre l’abitudinarietà, oltre che è misterioso e tuttavia dà la vita, appaga la sete non nel senso di una brocca più grande, ma nel senso che permette di entrare nella sorgente di una comunione così coinvolgente da diventare a propria volta sorgente per gli altri. E porta alla gratitudine della via breve e accessibile il cuore umano capace di amare: donando ad altri si estingue la sete, non bevendo di più. Ogni uomo può capirlo: vivendo l’amore, si fa esperienza di Dio come acqua viva. La vita nuova di cui avevano parlato i profeti è in Gesù che per amore si fa bisognoso fino a chiedere l’acqua. La donna è liberata nel momento in cui l’amore la visita.
Ne scaturisce un progetto e uno stile di vita. Questo perciò “il dono di Dio”, questa “l’acqua viva” di cui avevano parlato i profeti. La verità di Dio si concretizza in Gesù, nella sua persona che si spende per l’umanità, donando il Padre. E lo fa domandando e donando la Parola. Quando l’ascolto per amore permette di entrare nel cuore e nel mistero della persona, lì si manifesta la presenza e la verità di Dio: “Mi ha detto tutto”. Ed è liberazione.
La donna e noi, quando ci lasciamo visitare dalla Parola che Cristo ci dona, non si è più oppressi dal pensiero della sola acqua materiale, si comincia ad accogliere in sé il desiderio di una dimensione più ampia: “Signore, dammi di quest’acqua”, non permettere che la vita si esaurisca nello spazio angusto di un piccolo progetto umano, un po’ di salute, un po’ di soldi, un po’ di amici; dammi l’acqua della Sapienza per saper leggere in Te gli avvenimenti che segnano la mia vita. Ripetiamo con Soren Kierkegaard:
“Signore, donaci occhi miopi per tutte le cose che passano, ed occhi di piena chiarezza per ogni tua verità”
Il dono si fa vita nell’esperienza umana e induce a pronunciare le parole, che ho ascoltato da un ingegnere, nell’intimità della casa: mentre riceveva la benedizione pasquale, mi presentava la sorella dicendo: “Rita è il dono più grande che la nostra famiglia abbia ricevuto”; proprio quella di loro segnata dalla condizione di cerebrolesa. La sapienza del Signore ci permette di guardare le cose con lo sguardo di Dio: è l’acqua che dobbiamo chiedere oggi.
Forse l’abitudine a considerarci credenti ci fa perdere la coscienza del fatto che poter essere certi di Dio come Padre è frutto della sua iniziativa di amore personale e fedele, del suo entrare nella nostra sete. Può darsi che l’attenzione alla sua presenza susciti la coscienza delle scelte sbagliate e può darsi che questa coscienza si sgomenti: Dio mi amerebbe, ma la mia vita è tale che Dio non può amarmi! Il dialogo tra Gesù e la donna samaritana ci fa invece capire con riconoscenza e gioia che Dio è carità, è misericordia: Dio ci vuol bene, Dio mi vuol bene!
È il dono che riceviamo, ancora una volta, non nello spazio del tempio, ma in quello dello Spirito, nello spazio del cuore. Ben venga anche oggi la discussione culturale e politica sui temi importanti della virtù e dell’etica, ma essa ha il limite di non appagare il cuore. Il Signore va cercato nell’oltre, per incontrarlo nello spazio del cuore. È lo spazio in cui Egli ci dice: “Sono io, sono Dio che ti ama” e così fa diventare secondaria anche la preoccupazione morale e religiosa. Perché Dio è più grande.
Scriveva don Primo Mazzolari:
Noi possiamo dimenticarci di Dio; egli non ci dimentica;
noi possiamo allontanarci da Lui, Dio non si allontana.
Egli ci attende su ogni strada di esilio,
a qualunque muricciolo di non so qual pozzo di quaggiù,
ai piedi di qualunque albero di sicomoro…
Ci attende non per rimproverarci,
neppure per dirci ‘Te l’avevo detto’
ma per coprirci della sua carità,
per salvarci persino dal guardare indietro con troppo rammarico”
(La più bella avventura)