IV DOMENICA DI QUARESIMA – Anno A
(1Sam 16,1.4.6-7.10-13; Sal.22; Ef 5,8-14; Gv 9,1-41)
Nel capitolo 9 del suo Vangelo, Giovanni ci fa vedere Gesù alla festa delle capanne, la festa agricola del raccolto di autunno, che durava circa una settimana; in quel periodo gli ebrei vivevano, appunto, nelle capanne, all’aperto, celebrando la vendemmia. È l’ultimo pellegrinaggio di Gesù prima della passione ed è qui che egli fa la grande affermazione: “Io sono la luce del mondo” (Gv.8,12) e ne pone il simbolo nella guarigione miracolosa dell’uomo cieco dalla nascita. Gesù, “luce”, opera la luce, con dei gesti che evocano il primo gesto creatore di Dio, quando dal fango creò l’uomo, creatura privilegiata. La sua è come una ricreazione:“Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Ap.21,5), dirà di lui il libro dell’Apocalisse.
Giovanni ci mostra il cieco nato come creatura docile, disponibile all’iniziativa del Signore. Questa docilità gli permette di entrare nella conoscenza di lui con una profondità progressiva, sottolineata dalle espressioni in crescita, che possono essere illuminanti per il nostro cammino di fede: “quell’uomo … era un profeta … è da Dio …” e poi “credo” e si prostra davanti a Gesù. Attraverso questa vicenda, accompagnata dal miracolo, Giovanni annuncia la certezza della vittoria della luce sulle tenebre, lo sbocco positivo del dramma di ogni cuore e di tutta la storia, secondo quanto aveva scritto fin dal prologo: “La luce splende nelle tenebre” (Gv.1,5). La certezza della vittoria della luce, che è alla radice dell’ottimismo cristiano, cambia la prospettive di vita perché, come dice Paolo: “La speranza non delude” (Rom.5,5). Questo pensiero ci accompagni nel nostro cammino verso Pasqua.
L’episodio della guarigione del cieco dalla nascita è raffigurato più volte nelle catacombe, come un’icona del battesimo, che nei primi secoli la tradizione volentieri chiamava “Illuminazione”. Oggi, nella seconda lettura, abbiamo ascoltato: “Ora siete luce nel Signore. Comportatevi, perciò, come figli della luce” (Ef.5,8). Leggendo e meditando, in clima battesimale, questo brano del Vangelo di Giovanni – che ha nel prodigio solo un’occasione (esso occupa 2 dei 41 versetti) – i cristiani sono invitati ad apprendere che, ricevendo il battesimo, il dono della illuminazione, ricevono una nuova identità e sono chiamati a diventare, nel Signore, “luce del mondo”. Non dovranno più essere uomini di religione e di tradizione (quando Giovanni scriveva i cristiani non potevano più ritrovarsi nella Sinagoga perché ne erano stati scacciati). Dovranno accogliere l’identità di Gesù, assumere la responsabilità di rifletterne la luce: “Voi siete la luce del mondo” (Mt.5,14). Dovranno seguire la via di Gesù, che antepone l’uomo al sabato, lo sguardo di Dio allo sguardo dell’uomo, come ci insegna la prima lettura. Lo sguardo di Gesù, lo sguardo di Dio, è più importante di quello dell’uomo.
Il desiderio antico: “Il Signore faccia brillare il suo volto su di te” (Num.6,24), che neppure Mosè poté vedere appagato (Es.33.20) ora si compie nella vocazione a riflettere “come in uno specchio la gloria del Signore” (2Cor.3,18). Ma come può il volto di un uomo, sia pure credente, come può il suo sguardo riflettere la luce del volto di Dio? Come può realizzare la vocazione originaria ad essere immagine di lui, che dunque ha un volto cui si può somigliare?
L’uomo guarito dalla cecità può insegnarcelo con il suo cammino di fede, che lo porta a credere senza riserve, fino a prostrarsi innanzi a Gesù. Il suo vedere comincia dal vedere Gesù che è, come dice Paolo, “immagine del Dio invisibile” (Col.1,15). Avere una vista risanata da Cristo significa guardare in lui per guardare con lui. Per percorrere questo cammino facciamo nostra la domanda: “Siamo forse ciechi anche noi?”. Ammettiamo la possibilità di essere ciechi, di essere peccatori.
Gesù ci inquieta.
“Se la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tua tenebra” (Mt.6,23). È un invito a riflettere. Siamo tutti condizionati dal clima in cui viviamo, dal mondo con le sue chiacchiere, da televisione e giornali, dal malcontento sociale. Quante volte il nostro sguardo è negativo, perché siamo vittime della tenebra della mondanità ed imputiamo agli altri il male che ci colpisce, come i discepoli che domandavano: “Chi ha peccato?”. Gesù ci dice che non è questo lo sguardo di Dio.
“Perché osservi la pagliuzza nell’occhio di tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio?” (Mt.7,3). Egli ci insegna ad avere lo sguardo che risana, che vede la realtà della persona, prima della sua situazione, dei suoi atteggiamenti, dei suoi errori. Per questo la Chiesa degli apostoli riconoscerà in colui che è stato flagellato, coronato di spine, crocefisso, i tratti del Servo di Dio, profetizzato da Isaia. Egli “non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto” (Is.53,2). Lo sguardo risanato da Dio non si ferma sulle apparenze.
Come dice Lévinas, il pensatore dei nostri tempi, ebreo francese, si tratta di uno sguardo che vede il volto dell’altro come immagine di qualcosa di inviolabile, che fa appello al rispetto, che suscita responsabilità e premura, segno dell’Altro che si rivela e si nasconde sotto i tratti dell’altro, di ogni altro. Quanta esigenza di purificazione dello sguardo, di prudenza prima del giudizio, di silenzio prima della parola!
Facciamo nostra l’invocazione dei due ciechi del Vangelo di Matteo: “Signore, che i nostri occhi si aprano!” (Mt.20,33)
Il Maestro.
Come sovente era accaduto ai profeti di essere, con la propria vicenda personale o con i gesti concreti dell’azione sociale, segno dell’autenticità del loro annuncio in modo da diventare mistero, interrogativo sull’intervento di Dio nella storia umana, ora Gesù esprime la verità di sé, che già aveva annunciato: “Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre” (Gv.8,12) e lo fa con la concretezza del prodigio,
Ancora una volta Egli si fa maestro facendo intendere di non volersi attardare nel rumore delle parole e delle teorie. Non gli sta a cuore la spiegazione, ma la compassione. Perchè l’attesa dei sofferenti non è nella direzione delle parole esplicative, ma piuttosto del tocco tenero delle mani di qualcuno che, per lenire il dolore, fisico o morale che sia, metta a disposizione di chi soffre qualcosa di proprio, beni, capacità, tempo, accantonando i propri interessi personali. Il libro di Giobbe insegna con chiarezza che chi soffre non è aiutato, ma, al contrario, stremato dai discorsi che si fanno attorno al suo giaciglio, sia pure da parte di amici. La sua solitudine domanda partecipazione, certezza di qualcuno che si chini su di lui.
L’atteggiamento evidente di Gesù è freddo verso la moltiplicazione di parole umane inadeguate all’attesa di chi soffre: quante parole vuote si accavallano intorno alla sofferenza umana che pur ci riguarda in modo drammatico! Egli oltrepassa la preoccupazione dell’osservanza legale e la smania di individuare il peccato che avrebbe generato la situazione umana: l’una e l’altra, di fatto, incatenano la libertà della misericordia, soffocandola nella gabbia stretta del giuridismo e della definizione morale. Gesù svela il bene che è sempre nel cuore dell’uomo e si dischiude anche nell’esperienza della negatività, come ci ha detto Giovanni nel racconto della donna di Samaria. L’uomo, per Gesù, non è definibile dal suo peccato, ma dalla possibilità del bene che è in lui, che rimane sempre. E, quando è credente, la certezza della misericordia di Dio diventa in lui libertà di portargli ogni negatività, uscendone perciò liberato.
Il discepolo.
Lasciamoci illuminare dalle parole di Agostino: “Questo cieco rappresenta la razza umana … se la cecità è l’infedeltà, allora l’illuminazione è fede. Egli si lava gli occhi in quella piscina che è interpretata ‘colui che è stato inviato’: egli fu battezzato in Cristo” (Ag. in Jo,xliv,1-2).
Facciamo attenzione, nel nostro cammino quaresimale, al ritmo progressivo della fede: “è un profeta … è il Figlio dell’Uomo … è il Signore”. Cercare le ragioni del proprio battesimo conduce a ripercorrere questo cammino con l’umile preghiera del cuore per poter giungere, come veniva domandato ai catecumeni dei primi tempi, almeno dal terzo secolo, alla professione di fede: “Io credo, Signore”, quale culmine della scelta di vivere da discepoli. Nella coscienza ecclesiale degli inizi cristiani, la fede non sembra essere intesa matura nel passaggio da una minore ad una più assodata chiarezza, come siamo abituati a pensare l’approfondimento. È una certezza, quella della fede, molto più radicata. Il Vangelo sembra insistere sulla puntualizzazione del termine “cieco nato” – e i padri della Chiesa fanno altrettanto – già dal secondo secolo quando Tertulliano parla di “cecità originale” e Giustino attesta che il battesimo veniva chiamato “illuminazione”. Nel nostro cammino personale, mentre ci prepariamo per Pasqua al sacramento della Riconciliazione, domandiamoci che significa per noi il ritmo progressivo delle affermazioni: “è un profeta … è il Figlio dell’Uomo … è il Signore”. La nostra adesione a Gesù si misura su queste espressioni
Il contesto.
Il contesto in cui Giovanni pone il segno di Gesù è fortemente drammatizzato nello scontro di due mentalità opposte. Da un lato il pensiero della tradizione, che la gloria di Dio debba essere perseguita nell’osservanza scrupolosa della legge, quindi nel riposo del sabato: perciò Gesù che, operando la guarigione infrange la legge, non può venire da Dio. Dall’altro, l’annuncio del Vangelo, perciò della verità di Dio che Gesù manifesta pienamente, assumendo su di sé la solitudine di agire in coscienza davanti a Dio: la gloria – rivelazione senza ombre della realtà divina – sta proprio nella misericordia per l’uomo, più grande di qualsiasi preoccupazione rituale o etica. Per affermare la verità del primato della compassione, Gesù dovrà essere tacciato di rinnegamento di Dio, e colui che ha beneficiato della compassione, il cieco guarito, dovrà subire l’espulsione dalla sinagoga.
Giovanni sembra dire alla comunità cristiana che il servizio della verità può comportare, nel corso della storia, il peso della solitudine, l’essere chiamati sciocchi e fuori dalla realtà.
Ma sembra anche dire che, in quella solitudine, il Signore saprà incontrare ancora chi gli appartiene, sia pure nell’oscurità dell’incertezza, per domandargli con tenerezza: “tu credi nel Figlio dell’Uomo?” e, davanti alla sua inadeguatezza, rassicurarlo: “è colui che parla con te”. Perchè noi possiamo rispondere: “Io credo in te!”.