V DOMENICA DI QUARESIMA – Anno A
(Ez 37,12-14; Sal.129; Rm 8,8-11; Gv 11,1-45)
“Io sono la risurrezione e la vita”. È qui l’annuncio della liturgia in questa ultima domenica di Quaresima. Domenica prossima sarà la Domenica delle Palme e poi entreremo nel Triduo Pasquale.
Tutti i miracoli operati da Gesù sono segni di quello che egli è e di quello che è venuto a donare all’uomo. Il miracolo di oggi raggiunge il culmine: Dio ama l’uomo vivente. La Chiesa lo ha sempre proclamato. Il gesto che oggi contempliamo dice più di ogni altro la realtà del dono della vita. Esso è l’ultimo dei sette segni del Vangelo di Giovanni, è al confine tra il “Libro dei segni” e il “Libro della gloria”, il tempo della passione. Dai segni passiamo al compimento: la gloria di Gesù sulla croce, che culmina nello spirare il soffio vitale di Dio, quando, chinato il capo, “emise lo Spirito” (Gv.19,30). Su questo si concentrerà la nostra meditazione.
Nel primo capitolo del libro della Genesi, leggiamo che “lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque” (Gen1,1b). Quel soffio che aveva dato inizio alla creazione, ora si rinnova per la ri-creazione e il prodigio di Betania ne è il segno anticipatore. Ognuno di noi apprende in modo nuovo, nella gioia riconoscente, che Gesù ha il potere di ridare la vita fisica, come segno di quella eterna: il suo dono è lo Spirito di vita, che – come abbiamo ascoltato nella prima lettura – risusciterà i morti (Ez.37,13).
Le parole con cui si apre la Scrittura: “lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque”, dicono il desiderio del Creatore che cerca luoghi dove abitare. Ma anche tutto quello che aspetta di essere chiamato alla vita è a sua volta in attesa muta: “Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni” ”(Ap.22,17). Sono le ultime parole della Scrittura. Così si chiude il cerchio dell’incontro tra la mano tesa di Dio e quella della creatura, meravigliosamente rappresentato da Michelangelo nella Cappella Sistina: le due mani che si protendono l’una verso l’altra. Il volto di Dio e il volto dell’uomo si cercano per un bacio che permetta il dono e la circolazione del soffio vitale: lo Spirito soffia con le sue labbra in quelle della creatura. È questo il bacio che dà la vita, è lo sporgersi di Dio verso la mano della creatura, trapianto del divino eterno nella precarietà umana.
Come può accadere questa azione dello Spirito?
Il “Messia”, colui che è “unto dallo Spirito” è il “germoglio” su cui si è posato lo Spirito del Signore, come aveva predetto Isaia, come Gesù annunziò nella Sinagoga di Nazaret. La sua carne umana, concepita in Maria e portata in lei a divenire visibilità di Dio, può dire, mentre va alla morte: “Io sono la vita”. Lo affermo con solennità, proprio in questo momento in cui siamo avvolti da tanta superficialità: la carne del creato non è male, non è illusione, ma è “buona”, anzi nell’uomo è “molto buona” (Gen.1,27.31): è chiamata alla vita che non finisce, perché in essa abita il soffio dello Spirito. Il suo destino non è la provvisorietà, non è l’estinzione, ma la chiamata straordinaria ad essere testimonianza della vita dello Spirito, spazio, ambiente in cui la bellezza eterna ed indicibile si dice nella molteplicità delle creature, fragili, ma abitate dalla vita. Perciò : “bello è il vivente!”. Dovremmo imparare a sostare in meditazione stupita dinanzi allo Spirito che comincia a zampillare nel cuore e nel corpo di una donna, dinnanzi a un passeggino, dinnanzi a un letto dove si attua il compimento della malattia o della morte. Come scrive Hemmerle: “Ciò che piove dal cielo deve insieme germinare dalla terra”.
Gesù opera questo: “Io sono la vita”. Non condanna la carne, non la reprime, non la cancella, ma la rende abitazione dello Spirito e perciò la rende idonea ad accogliere la pienezza della vita eterna, già nel presente, e a donarla. Gesù offre la vita per tutti, perché tutti la abbiano in abbondanza. Ed annuncia che la vita “vale”, “si guadagna” solo nel perderla, cioè esprimendola tutta nel dono dell’amore. Questo è quello che i dodici capiscono e Tommaso dice a nome di tutti: “Andiamo anche noi a morire con lui” (Gv.11,16). È la scoperta di quella vocazione che si illumina con le parole dell’Eucaristia: “Fate questo in memoria di me”.
Lo Spirito zampilla dall’amore crocifisso. La carne crocifissa e il soffio di vita sono due facce della stessa realtà: l’uomo creato a somiglianza di Dio, riceve l’amore e vive per amare. Il soffio di vita è dato in consegna agli uomini: va mantenuto vivo e zampillante, va reciprocamente donato, va alitato su tutte le creature in attesa più o meno consapevole. È come se il Signore dicesse ai suoi: non trattenete lo Spirito, nella preoccupazione della vostra vita interiore, nel pensiero del futuro, ma donatelo alla carne, alla terra, con la fiducia di lievitarla, visitarla e impreziosirla della sua bellezza. Forse questo nostro tempo è proprio il tempo dello Spirito, forse la vita è il linguaggio che Dio chiede ai suoi discepoli: la vita spesa per amore dà senso a tutta l’esistenza.
Ascoltiamo le parole di Chiara Lubich, una mistica del nostro tempo: “Tutto va trattato con l’amore del Padre verso il Figlio. Che cuore largo e che sorriso di Dio sulle cose attraverso i nostri occhi”.
Quando Gesù entrò a Gerusalemme prima della passione, dice il vangelo di Luca che la folla lo lodava “a gran voce, per tutti i prodigi che avevano veduto” (Lc.19,37). Il quarto vangelo preferisce dare priorità al prodigio particolarissimo, l’ultimo dei “segni”, quello su Lazzaro, l’amico morto a Betania. Per l’autore i miracoli sono segni di quello che Gesù è – come abbiamo meditato domenica scorsa nel racconto del cieco nato – e di quello che è venuto a dare all’uomo per dono di Dio, dono che rimane e riguarda ogni credente. Nella resurrezione di Lazzaro il segno dice direttamente che il dono di Dio nella persona e nell’azione di Gesù è la vita. Su questo mediteremo oggi, quasi a conclusione del cammino quaresimale.
Nella pagina del vangelo ci colpisce la affermazione esplicita di Gesù, all’annunzio della morte di Lazzaro:
“Lazzaro è morto ed io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate”
Un’affermazione sorprendente sulla bocca di una persona di cui si dice nello stesso contesto “amava Marta e sua sorella e Lazzaro”. Gesù sembra attendersi la fede nella sua potestà di dare la vita da parte di coloro che lo amano, lo ascoltano e lo seguono. Sia Marta che Maria appaiono sinceramente fiduciose in Lui, lo chiamano “Signore”, ma la vicenda che le ha colpite non permette alla loro fede di percepire la morte come una realtà positiva: resta e prevale in loro la foga del dolore, del rammarico, del rimprovero: “Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto”, dicono l’una e l’altra nella diversità dei loro temperamenti. Quante volte siamo indotti anche noi a pensare: “Se il Signore fosse stato qui …”.
Per la sofferenza intima e per il dolore che si rinnova nell’accoglienza e nella condivisione di quanti sono venute e a visitarle, per il pianto che le circonda e le condiziona, Marta e Maria non riescono ad andare oltre l’immediato che avviene, per fidarsi pienamente di Gesù, di cui pure conoscono l’amore e la parola. Questo atteggiamento suscita emozione e turbamento in Gesù. È un turbamento come di chi guarda con sgomento la prepotenza vincente della negatività, senza poterla rimuovere, che reagisce quasi con ira allo spegnersi della speranza, della pace nei cuori degli uomini a motivo della morte rapinatrice. Sente ancora dentro di sé il fuoco ardente di compiere il cammino della passione e della sua propria morte, perché possa emergere con chiarezza che non la morte è la realtà definitiva, ma la vita, che il Padre suo e nostro vuole dare ai suoi figli, e Lui a noi. Questa vita sarà la vittoria definitiva di Dio. Contemplando queste lacrime s. Ambrogio prega così:
“Se piangerai per me, io sarò salvo.
Se sarò degno delle tue lacrime, eliminerò il fetore di tutti i miei peccati”
(La Penitenza, 2,71)
Il fatto che l’umanità, anche quella che lo conosce e lo ama con fiducia, sopraffatta dalle emozioni e dalla foga dei sentimenti, si paralizzi davanti alla realtà della morte, turba il Signore fino a ribollire per la perdita della pace nei cuori, e lo fa piangere. Il suo pianto rivela la realtà di Dio come “amico” dell’uomo, che non si rassegna alla morte dell’amico – come rivelano i salmi e in particolare quello che recitiamo nella preghiera del giovedì sera:
“non abbandonerai la mia vita nel sepolcro,
né lascerai che il tuo santo veda la corruzione”
(Sal.16,10)
Questo pianto rende maggiormente plausibile e vicina la definizione di Dio come “Dio dei viventi” (Lc.20,38) e più tollerabile l’attesa della “resurrezione dell’ultimo giorno”. Perciò la preghiera davanti alla tomba è di ringraziamento ed è già l’attuazione delle parole di Ezechiele che abbiamo ascoltato nella liturgia: “Ecco, io apro i vostri sepolcri e vi faccio uscire dalle vostre tombe … Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri, o popolo mio”.
Le tombe e i sepolcri sono luoghi nostri, degli uomini sulla terra e nel tempo, perciò luoghi di dolore, di sgomento e di pianto, di rimpianto e persino di delusione della fede e della vita: quando torniamo dall’averli visitati, siamo sempre pesanti di sconfitte, perché luoghi del tempo che passa e della precarietà che consuma. Non sono luoghi di Dio, della sua vita piena e per sempre, che Egli offre a quanti gli appartengono nel fidarsi e nell’affidarsi. Perciò Gesù non tollera la morte dell’amico, non la tollera, la scaccia dal sepolcro chiuso e rivela che Dio, il Padre suo e nostro, non sopporta di essere considerato il Dio dei morti, ma si definisce Dio della vita, quella vita che affida al Figlio, perché la doni “con abbondanza”.
La meditazione di questa pagina del vangelo, mentre andiamo incontro ad una Pasqua non rituale soltanto, ma che vorremmo di vita, trasforma l’angoscia per la morte in fiducia e ci dona la possibilità di compiere quello che, da soli, non saremmo capaci di fare:
- sentire profondamente l’orrore di Dio per la negazione della vita, presente nelle guerre, nella violenza, nelle sopraffazioni, in tante manipolazioni dell’umanità, nei malati non curati, negli innocenti mal giudicati, nei giovani che domandano lavoro e sono malvisti, negli alunni trascurati …
- compiere gesti concreti e semplici, che riempiono i vuoti della disperazione: una stretta di mano, una richiesta cui rispondere …
- vivere non brontolando, ma benedicendo la vita che il Signore mi dà.
Perché, come conclude s. Ambrogio:
“i miei pensieri non restino nello spazio angusto di questa carne, ma escano incontro a Cristo per vivere alla luce, perché non pensi alle opere delle tenebre, ma a quelle del giorno”.