I DOMENICA DI AVVENTO – Anno B
(Is 63,16-17.19; 64,2-7; Sal.79; 1Cor 1,3-9; Mc 13,33-37)
“Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu sei colui che ci dà forma, tutti noi siamo opera delle tue mani”. Così si apre la liturgia in questa prima domenica di Avvento.
Isaia scriveva in un contesto storico molto difficile: il popolo di Israele doveva ricostruire la propria identità dopo l’esilio in Babilonia ed egli invita alla speranza. Era il VI secolo a.C., ma le sue parole sono ancora di grande attualità.
Siamo una comunità avvezza ad accogliere il messaggio che la liturgia ci propone. In questo Avvento tre sono i personaggi che ci indicano la via per accogliere il Signore che viene: Isaia, Giovanni Battista, Maria.
Isaia è l’annunciatore, il profeta della speranza. Essa si radica nella memoria di quanto Dio ha fatto per Israele. Il Salmo 136 canta in 26 versetti il ricordo delle meraviglie operate dal Signore ed ogni volta ripete: “Perché eterna è la sua misericordia”. La memoria di quanto è accaduto ai singoli ed alla comunità fonda l’attesa, evita alla coscienza di cadere nella disperazione. Il Signore è premuroso ed è intervenuto costantemente nella storia, nelle nostre storie personali. Perciò possiamo ripetere con il profeta: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi!”. Queste parole di Isaia ci riguardano tutti a livello personale e sociale. L’attesa è difficile: spesso scalpitiamo e cerchiamo soluzioni rapide, chiediamo al Signore. “Fa qualcosa, sbrigati!” Ma l’Avvento insegna a tutti noi che l’attesa è un valore positivo: aspettare Dio significa aprirci sempre più a lui. Egli è l’Altro che ci viene incontro, che lavora l’intimo delle nostre coscienze e ci plasma non secondo le nostre paure, ma nella disponibilità a Lui. Aprirci all’Altro è faticoso, perché ci chiede di liberarci dall’autosufficienza, di non fare della nostra individualità il centro del vivere. Le cose che Dio ci propone sono nuove e più ricche di quanto noi possiamo progettare. Perché si rivelino, dobbiamo attendere e sperare.
Una giovane coppia, sposata da poco, è venuta a dirmi che attendono un bambino. Lei ha detto di voler andare presto in maternità, per essere vicina, per aspettare meglio il bambino che viene. A ciascuno di noi è chiesto di aspettare il Signore che si avvicina, anche a quanti non sono in grado di comprendere il senso di questa attesa.
Giovanni Battista cerca la via della speranza e la indica per preparare la via al Signore. Come disse suo padre, Zaccaria, al momento della circoncisione: “E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo, perché andrai innanzi al Signore a preparargli la strada, per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza” … Giovanni cerca colui che è venuto ad annunciare, ma il cammino della fede è faticoso: egli è certo, ma contemporaneamente dubita, vede e non vede. Non è preoccupato di sé, ma della via che egli deve preparare al Signore. Non vuole niente per se stesso: è felice di dare a Cristo i suoi discepoli, perché se Gesù è venuto, lui, Giovanni non ha più niente da dare. A quanti gli annunciavano l’operare di Gesù in Giudea, egli rispose: “L’amico dello sposo … esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta. Egli deve crescere e io invece diminuire”. Giovanni è pronto a cogliere i segni della venuta del Signore; non ha a cuore la sua persona, ha premura solo per il bene comune. Quanto dovremmo fare anche noi per cogliere i segni della speranza, per trasmetterli alla nostra città, vivendoli in senso culturale, politico, sociale! Questi segni sono nelle nostre mani, sono affidati alla nostra responsabilità.
Maria è il terzo personaggio che ci accompagna nell’Avvento. In lei il divino entra nella storia, il cielo squarciato diventa carne. In lei la speranza si può toccare con le proprie mani, come dice Giovanni Evangelista nella sua prima lettera. L’opera di Maria è il farsi concreto della speranza. Per lei viene a noi il Figlio di Dio, “nato da donna”, come dirà Paolo. Per lei diviene possibile che ogni realtà umana, tranne il peccato, sia buona, perché assunta da Dio. La realtà di Maria, la sua capacità di accoglienza, rende impossibile dire che Dio non è. In Maria, in questa figlia pienamente riuscita, si concretizza la speranza di Isaia. In lei capiamo che Gesù è quello che viene sempre, per renderci pienamente umani. Oggi è così difficile cogliere la vera forma dell’uomo: è impossibile se non si guarda a Lui, che è il primogenito di ogni creatura.
L’Avvento ci invita ad essere attenti alla venuta del Signore, che ci dà forma: egli è il vasaio e noi l’argilla nelle sue mani. Lasciamoci plasmare da queste mani forti e sicure, ma anche affettuose, tenere e delicate. Esse ci dicono di essere attenti agli altri che ci sono vicini, quali offerte mute di amore e di collaborazione. Attenti a quanti soffrono accanto a noi: oggi è la giornata dedicata ai malati di AIDS. Non scappiamo di fronte a quanto ci intimorisce. Dio pende con sé ogni sofferenza, fin dal grembo di Maria. Diventiamo sempre più attenti alla pace e alla speranza. Il vasaio non si ferma di fronte all’argilla che si rompe, ma torna a plasmarla per farne una cosa nuova.
Che Maria, madre della speranza, ci aiuti nel nostro cammino.
Il Salmo 25, di cui alcune espressioni introducono la liturgia di Avvento, può essere pensato come invocazione di tutti i credenti:
“A te, Signore, elèvo l’anima mia,
Dio mio, in te confido: che io non sia confuso”
Nella vita del credente e di ogni uomo l’esperienza dell’imperfezione fa avvertire di essere ancora impigliati nelle miserie della creaturalità: è l’esperienza del limite umano, di cui oggi i progressi della scienza a volte rischiano di impedire la percezione. L’uomo di preghiera è tale quando si riconosce un “povero” che crede in Dio: egli non è inerte né passivo, ma riconosce il proprio limite di creatura e si rivolge a Dio, gli parla con fede, spera nel suo aiuto e lo attende. Egli lo ama e si sforza di compiere la sua volontà. Il credente di ogni fede si riconosce in questi atteggiamenti. Rabi–a, grande mistica islamica iraqena del secolo VIII, ripeteva: “Mio Dio, io mi rifugio in te per difendermi da tutto ciò che mi distrae da te e da ogni ostacolo che si frappone fra me e te” (I detti di Rabi-a, Milano 979).
Rabi-a era donna, islamica, irakena: questo ci dice che da quei luoghi non viene solo negatività e terrorismo e ci insegna ad apprendere dai fratelli e dalle sorelle in tutto il mondo.
L’Avvento, questo breve tempo liturgico, fin dai primi secoli cristiani è accompagnato dalla profezia di Isaia, che è scuola importante di povertà e di attesa fiduciosa.
<strong“>Tu, Signore, sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore… Ritorna per amore ei tuoi servi… Se tu squarciassi i cieli e scendessi”
Sono le sue parole che abbiamo ascoltato nella prima lettura. In questo tempo di Avvento la spiritualità che ne scaturisce chiama le singole persone e tutta la comunità a vivere alcuni atteggiamenti tipicamente evangelici: il senso del limite, l’attesa del redentore, la speranza oltre le sconfitte, la decisione di vivere il proprio tempo davanti a Dio, per Dio. L’Avvento non è invito a giocare, come per spostarsi indietro di 2000 anni, quasi a voler ripetere atteggiamenti e gesti di allora: ma è la contemplazione del già accaduto e la coscienza di quanto sia urgente oggi la venuta del Signore: è un dono di grazia che si rinnova e ci permette di assumere con responsabilità il cammino che ci appartiene oggi.
La voce implorante di Isaia, la solitudine austera di Giovanni, il silenzio accogliente di Maria, ci parlano dell’urgenza di interiorità per l’incontro con il Signore. La verità della festa è in questo tu a tu di amore. Il verbo “vigilare”, che Marco ripete ben quattro volte nel passo che abbiamo letto, significa letteralmente “non dormire”. Esso sta ad indicare l’atteggiamento in cui l’uomo credente attende sempre, responsabilmente, il Signore che viene, con una disponibilità sincera e costante nei suoi confronti. Vigilanza è perciò l’impegno attento e sobrio del cuore umano, che non permette alla vita di essere anestetizzata da torpore e superficialità. Vigilare significa non ignorare che questo tempo coincide con il clamore commerciale dell’operazione Natale. Per questo ci viene detto “vigilate”. Non c’è preghiera di lode e di riconoscenza che non debba avere presente il Signore che viene, che non debba tentare di perforare l’oltre che ci attende; non c’è richiesta che non si debba aprire alle frontiere dell’umanità. Malgrado il clamore dei mezzi di comunicazione di massa, per un cristiano non c’è liceità di spesa voluttuaria senza l’urgenza di misurarla con chi sta morendo di fame, in Africa o ovunque.
Proprio dalla verità della venuta del Signore già accaduta, nasce la plausibilità del suo venire e la preghiera per il suo venire pieno: questo significa che occorre accrescere l’impegno per redimere la storia, per rendere più umana la vita terrena (G.S.38), quasi preparandola a diventare materia prima per l’edificazione del Regno di Dio.
La Chiesa, raccolta nella liturgia di Avvento, tiene lo sguardo fisso in avanti. La certezza del passato la autorizza a sperare in qualcosa di ancora più grande, senza lasciarsi schiacciare dall’oppressione del male: ella sa di non essere lasciata sola davanti alla negatività che sgomenta fino allo scetticismo e alla disperazione.
Perciò ripete la parola del profeta Zaccaria:
“ Non temere, figlia di Sion, ecco il tuo re che viene”
(Zac.9,9)
Ripetendo il “vegliare” austero di Marco, che ha presente il torpore dei discepoli al momento della prova, (Mc.14,32-42), la Chiesa si impegna a seguire gli avvenimenti dell’oggi, a vivere pienamente il proprio compito, nella consapevolezza che Dio ne chiederà conto.
Maria è la stella del tempo di Avvento. Di lei dice la liturgia bizantina:
“Essa è la città di Dio
Essa è come un roveto, bruciato dal fuoco della Trinità, ma non consumato da esso.
Essa circoscrive nel suo corpo colui che è incirconscrittibile e, per paradosso, lo partorisce. Essa è il palazzo puro e senza macchia del Re incarnato.
Essa è la giovenca immacolata che porta nel suo seno il vitello ingrassato, il covone che porta la spiga non coltivata.
Essa è la rondine spirituale che porta la primavera della carità, che deve dissipare l’inverno ateo, la nube luminosa che reca la pioggia spirituale, che deve rinfrescare la terra bruciata.
Il suo grembo è come un paradiso spirituale in cui cresce il piano divino”
(Lit. biz. in “Roma orientalis.” p.83)
Maria Immacolata ci accompagni in questo itinerario.
I capitoli 63-64 del libro di Isaia sono come un’unica preghiera accorata, che nasce dalla situazione di desolazione e di disfacimento, nelle coscienze individuali e nell’esistenza collettiva, di Israele. L’esperienza dell’occupazione della Palestina da parte di soldati stranieri, soprattutto la deportazione e l’esilio nei campi di concentramento in Babilonia, lontani dai luoghi cari e dalle abitudini religiose, faceva piangere la “patria perduta”. Il profeta indica nell’allontanamento del popolo da Dio e dalla sua legge la causa di tante sciagure: “Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli” Il disordine sociale, il disfacimento politico, il degrado morale, intrecciandosi, rendono consapevoli della gravità della condizione in cui ci si trova: “tutti siamo avvizziti come foglie”.
Il profeta di Dio, con fatica e pazienza, aiuta a leggere la vicenda alla luce della fede. È il peccato a rendere malata la vita del popolo, l’essersi allontanati da Dio, fino a sentirsi come in una strada senza uscita, bloccati da una paralisi senza prospettive di guarigione. Egli invita a riscoprire nella memoria storica che Dio ha agito paternamente e molte volte a favore del suo popolo. A Mosè che chiedeva di vedere il suo volto, il Signore aveva detto che esso non si può ingabbiare nei nostri schemi, ma “passò davanti a lui proclamando: ‘Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso…” (Es.34,6). Il profeta invita a ricavare da questa lunga memoria le espressioni della preghiera: “Ma, Signore, tu sei nostro padre, noi siamo argilla e tu colui che ci plasma”. Il ricordo di quanto Dio li aveva amati rende pungente la coscienza per la gravità del peccato, ma fa ritrovare la speranza: “Ritorna per amore dei tuoi servi … Se tu squarciassi i cieli e scendessi!”.
Il tempo liturgico dell’Avvento non è tanto il ricordo storico delle condizioni dell’umanità, prima dell’incarnazione del Signore, e dell’attesa tenuta viva dai profeti in Israele e di tanti nell’umanità che coltivavano nel cuore – certo per azione dello Spirito che conduce la storia – il desiderio di verità, di giustizia e di pace, anche senza invocare il nome di Dio. Il tempo liturgico, attingendo alla memoria storica, conduce alla coscienza dell’oggi, del presente della Chiesa e dell’umanità, e alla riscoperta sincera della negatività che ci abita e della necessità del venire misericordioso del Signore nella palese insolubilità dei problemi che ci paralizzano o conducono a scelte di morte. Non possiamo celebrare l’Eucarestia senza portare in essa il dolore che ci è stato martellato dentro dagli attentati di Munbay e la disperazione di chi è stato indotto a togliersi la vita nell’oscurità della situazione socio-politica della nostra città, incapace di sostenere i feriti e quelli che possono avere sbagliato. Come se ne può uscire? Ripetiamo il grido accorato del profeta: “Signore… ritorna per amore dei tuoi servi …”
La liturgia ci fa incontrare l’evangelista Marco mentre presenta Gesù che parla del suo continuo ritorno e dell’atteggiamento da vivere per accoglierlo. Se egli si presenta come colui che bussa alla porta per entrare, allora l’atteggiamento giusto è la vigilanza. E, nella parabola, mette in evidenza il compito del portinaio, una figura amata dagli uomini spirituali cristiani, i quali si ricordavano reciprocamente l’importanza del vigilare per la propria interiorità! Ad ogni pensiero che si presenta per entrare, dobbiamo prima domandarci se ci appartiene o no, se ci giova o ci danneggia, si ripetevano. Il portinaio della parabola è immagine di colui che deve accogliere il Signore, perciò di ogni cristiano. E Gesù lo dice con chiarezza: “vegliate!”, sottolineando la continuità della veglia con i nomi dei quattro turni di guardia in uso tra i romani, per dire che non ci sono spazi vuoti nella vita: la sua venuta può essere in ogni momento. “Vigilanza” per restare “con gli occhi aperti”, non addormentati.
È l’ultimo insegnamento pubblico di Gesù nel vangelo di Marco, prima dell’inizio della passione, una parola-sintesi con cui iniziamo il cammino. Una parola che spinge a non vivacchiare nella mediocrità, nell’illusione di un po’ di bene privato. Tenere gli occhi aperti significa guardare la realtà in faccia, con l’anima addolorata ed amante del profeta, facendo spazio nella propria vita ed aiutando il prossimo perché si possa essere casa, luogo in cui il Signore trovi dimora.
Questo è lo spirito dell’avvento, che allora è come l’avveramento della preghiera di Isaia: il Signore accolto come colui che vuole abitare con l’uomo è colui che entra in ogni ambito della negatività umana e la supera con la fedeltà a Dio nel dono di sé nella passione. Un Dio, però, che non rinuncia ad avere fiducia nell’uomo e continua a venire, perché fiorisca il positivo che è in ognuno. Anche le piccole cose possono insegnarci molto. Una pianta, sul davanzale di una nostra finestra, colpita dalla grandine ed apparentemente distrutta: avevo pensato di doverla buttar via quando, dopo qualche giorno, ha messo tanti germogli. Il negativo era in me, nella mia sfiducia e non nella natura: un fiorellino è segno di speranza.
L’atteggiamento tipico dell’avvento è la vigilanza su quanto è dolore nel cuore dell’uomo, su quanto grida il bisogno del nuovo, su tutte le aurore difficili, sui passi fecondi e faticosi della luce, su tutto quanto si sta muovendo verso il vangelo, consapevolmente o no, come una mano che si protende per incontrare la mano da stringere.
Vigilanza è attenzione agli altri, ai loro silenzi, alle loro lacrime, alla verità che esprimono, ai piccoli fatti del territorio in cui ci muoviamo e ai grandi sussulti dell’umanità.
Così, facendo nostro tutto questo, si diventa grembo di Maria, gravidanza di vangelo e di vita.
Avvento. Tempo di invito a fare attenzione del cuore e della mente a tutto il mistero della venuta del Signore fino alla conclusione della storia. A cominciare dal momento in cui “si compirono i giorni di Maria”. Il Dio dell’Avvento è il Dio della storia, concretamente e pienamente venuto in mezzo all’umanità nell’uomo Gesù, che mostra il suo volto in termini tipici delle donne e degli uomini di ogni tempo. Si fa linguaggio umano, come bambino, come adolescente, come adulto, nella gioia e nell’amarezza. Il Dio dell’Avvento dice salvezza dell’uomo, di tutto l’uomo e di tutti gli uomini, e inaugura così il tempo dell’universalismo e della promozione umana.
Non è solo tempo di discesa dall’alto di Dio alla bassezza dell’uomo. L’Avvento annuncia la vocazione dell’uomo all’eternità. Il tempo che ci è dato vivere è come il luogo in cui si realizza la promessa antica di un Dio che vuole essere per sempre con il suo popolo e perciò è attesa del “giorno del Signore”, vivendo la gioia del “già” e la fatica del “non ancora”. Tempo perciò innanzitutto di accoglienza intima e personale. E tempo che chiama ad essere operatori di fraternità nella pace, guardando all’oggi dell’umanità con l’occhio e il cuore di Dio, che l’ha amato fino al dono del Figlio, lavorando per umanizzare le relazioni e le strutture. L’attesa perciò non è inerte e la memoria tenera del Signore incarnato nel corpo di Maria non è alienazione sentimentale o devozionale. La speranza della sua venuta definitiva è radicata nella certezza del suo essere già venuto, tiene in piedi, fa sentire chiamati in causa sia per la interiorità di ciascuno, sia per evidenziare i segni del suo venire continuo.
Dedichiamo, dunque, le quattro domeniche del tempo liturgico al natale di Gesù, alla memoria del fatto storico che è la sua vicenda, della Parola eterna che assume la visibilità della natura umana, “rimpicciolendosi” nei limiti della corporeità e del tempo che ci appartengono. L’invito è quello di farci silenziosi, non dando per scontato di sapere tutto del Natale perché lo celebriamo dall’infanzia, di farci contemplativi della grandezza di Dio che si dona e dell’uomo che è destinatario del dono di Dio.
Non si dovrebbe arrivare alla celebrazione del Natale troppo in fretta, senza prepararsi nella riflessione sulla verità dell’accoglienza intima di esso, senza apertura del cuore ai segni del suo continuo rinnovarsi, senza assumere le nostre responsabilità di fronte alla venuta del Signore. Memoria e attualità si congiugano insieme. Perciò la liturgia offre un tempo breve ma intenso perché la memoria si faccia conoscenza del pensiero e dei gesti, generando la conformazione dei sentimenti.
Questo è il cammino spirituale proposto ai credenti.
Vegliare, allora, per accogliere ed “andare incontro” al Signore che viene, mantiene la sua promessa ed è “degno di fede”, come dice san Paolo. Da questo “andare incontro” derivano luce e forza sul senso stesso del vivere, non solo questi giorni, ma tutti i giorni della vita intera, perché ne restino illuminati e confortati nella fiducia e nella speranza. “Tu, Signore, sei nostro padre… Ritorna per amore dei tuoi servi”, abbiamo ripetuto con il profeta Isaia. La preghiera di questa veglia ha il suo culmine nell’ultima parola della Bibbia: “Vieni, Signore Gesù”, che i primi cristiani amavano custodire e pronunciare nell’espressione aramaica: “Marana-thà”.
“Andare incontro” è l’esigenza urgente del vivere cristiano sopraffatto dal materialismo pratico, come ammoniva Emmanuel Mounier – il filosofo francese morto nel 1950: “Poiché coloro che detengono l’eterno hanno perduto il senso del temporale, non perdiamo nel temporale il senso dell’eterno”.
Il Natale è la rivelazione di Dio che divinizza le sue creature e le chiama “figli”, il Dio che dona e che “si dona”, una paternità che si apre per introdurre in Sé, in modo che non si viva davanti, ma “in Lui”. “In Cristo viviamo, ci muoviamo e siamo” (At.17,28).
Il silenzio di adorazione e ringraziamento è fonte di speranza. Quando Dio si rivela come un essere personale, che abita nella coscienza, dice ad ognuno che in noi c’è Qualcuno più intimo a noi di noi stesi. È Lui che da la possibilità di essere amato e di amare. È la sua iniziativa di dimorare in me, in ognuno di noi, in ogni donna e uomo di oggi per la sua infinita umiltà che porta in me la possibilità di avere iniziativa, di essere libero, di essere sorgente, di essere fuoco. Cose che non sarebbero se Lui non fosse questo Qualcuno. L’umiltà di Dio è la nostra vita, e ci rende umili nella sincerità cordiale e premurosa.
Il Natale è un’occasione preziosa, quasi paradossale, di incontro con Dio in modo sorprendente, con un Dio povero che è venuto vicino, ci ha considerati suo prossimo, che ama come me me stesso, non in virtù della sua onnipotenza, ma della sua incarnazione, fratello che salva e svela il mistero del suo volto.
Apriamo i cuore alla riconoscenza e alla speranza.