ESALTAZIONE DELLA SANTA CROCE – Anno B
(Nm 21,4-9; Sal.77; Fil 2,6-11; Gv 3,13-17)
La festività odierna ha origini molto antiche. Fu istituita nel 335 dall’Imperatore Costantino, che aveva fatto costruire a Gerusalemme due basiliche, una sul Golgota e l’altra sul Sepolcro di Cristo Risorto, per onorare le reliquie della Croce del Salvatore. Quest’anno essa cade di domenica e ci invita a meditare la ricchezza della nostra fede in Gesù crocefisso, a cogliere il senso profondo della strada della croce, punto centrale della rivelazione dell’infinito amore di Dio, che diviene storia nella persona del Figlio.
Il passo del Vangelo di Giovanni che abbiamo letto è parte conclusiva del colloquio notturno di Gesù con Nicodemo, un capo dei giudei che aveva nel cuore il desiderio di un rapporto più forte con Dio ed era cosciente dei propri limiti che lo bloccavano. Perciò era andato da Gesù, fiducioso che lo avrebbe aiutato a trovare la strada. Gesù gli aveva risposto indicandogli la necessità di rinascere dall’alto, lasciandosi vivificare dallo Spirito. Il senso di questa novità dello Spirito, aveva precisato Gesù, era il serpente innalzato da Mosè nel deserto, il segno della croce.
La via del rinnovamento dell’umanità è seguire lui, il Figlio di Dio fatto uomo nell’innalzamento della croce. Con la parola “innalzamento” il Vangelo di Giovanni indica un cammino a tappe. La prima è il morire sulla croce, la seconda il risorgere, la terza l’ascendere al cielo. È come ripercorrere a ritroso il cammino dell’Incarnazione. Nel primo capitolo – che ascoltiamo ogni anno a Natale – Giovanni così ce lo rivela: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio… E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. C’è stato un discendere di Dio dall’altezza vertiginosa della trascendenza all’immanenza nella storia. Il Signore si è fatto piccolo, per camminare con noi e permettere alla nostra carne di tornare a Dio, percorrendo le tappe della croce, della resurrezione, dell’ascensione al cielo. Contempliamo questa realtà e lasciamo che ci attragga come dice Gesù stesso nel capitolo 12, dopo aver indicato il senso della sua vita nel chicco di grano che deve morire sotto terra per dare molto frutto: “Quando sarò innalzato, attirerò tutti a me” (Gv.12,32). Il fine di tutta la creazione è credere nel Cristo crocefisso per avere la vita eterna.
Gesù, parlando a Nicodemo, ha detto: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna”. Questo verbo bisogna è quasi sconcertante. Può esserci bisogno in Dio, che è l’Assoluto e come tale è proprio assenza di mancanza, di bisogni? Eppure anche nel capitolo 24 del Vangelo di Luca, Gesù, accompagnando sulla via di Emmaus i discepoli delusi dalla sua morte, spiega loro il senso di tutte le Scritture dicendo “Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”. In questo bisogna c’è l’indicazione della drammaticità ed urgenza dell’amore di Dio che deve dare concretamente e crudelmente la vita, perché l’uomo incontri il suo amore e lo incontri proprio nel momento della sofferenza. È la drammaticità dell’amore divino, che non può venir meno, che deve liberare l’uomo dal peccato proprio immergendosi in quella sofferenza causata dal peccato. Isaia, descrivendo la sua chiamata da parte del Signore, assiso nella sua gloria tra i serafini, rivela questa urgenza dell’amore divino, che dice: “Chi manderò o chi andrà per noi?” La via di Gesù, che ha accolto l’urgenza di questa chiamata, non può essere che la croce come accoglienza della sofferenza. Non possiamo scandalizzarci di questa parola, che ci sfida alla luce della fede: è urgente per noi riconoscere che la via dell’amore è far proprio il negativo, come strumento di salvezza. Non riconoscere la fondamentale importanza della via della croce è cadere nel non senso e nella solitudine. Perché vi sia la vita della Resurrezione, perché l’umanità redenta torni al Padre, è necessario che il Figlio percorra la via della croce, guardi al serpente innalzato da Mosè nel deserto, in cui Giovanni riconosce Gesù.
È una via non gradevole, né facile. Gesù, il Servo profetizzato da Isaia nel capitolo 53, “non ha apparenza né bellezza… non splendore… Disprezzato e reietto tra gli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, … è … come uno davanti al quale ci si copre la faccia…”. Guardare a lui non suscita desiderio come il frutto dell’albero nell’Eden, ma provoca ripugnanza: Gesù è l’uomo che muore sulla croce nella solitudine più totale. Ma chi coglie l’infinità dell’amore, che abita in quell’Uomo che muore sulla croce, è liberato dalla solitudine e dalla morte. Come dice il Cantico dei Cantici: le grandi acque del male non possono sconfiggere l’amore. La negatività della sofferenza e della morte, vissute nell’amore, vissute per amore, si trasformano in positività. Nella lettera ai Filippesi Paolo ci invita a far nostri gli stessi sentimenti che hanno portato Cristo Gesù a non considerare tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma a condividere la nostra situazione umana fino alla morte sulla croce. Per questo Dio lo ha esaltato e “nel nome di Gesù ogni ginocchio si piega sulla terra e sotto terra ed ogni lingua proclama che Gesù Cristo è il Signore”.
Gesù, come dice Pascal, rimane sulla croce fino alla fine dei secoli. A livello personale ci chiede condivisione, nella pace e nella libertà interiore, facendo nostra la sua via di amore senza limiti. La via della sofferenza del Signore è per noi faro di luce, la sua solitudine forza materna, la sua morte è fecondità di vita. Che la comunità cristiana capisca sempre più che la luce della teologia vissuta da Gesù crocefisso è più importante e vitale della teologia insegnata nelle Accademie.
Sul piano sociale impegniamoci perché la croce rinnovi la mentalità del nostro Occidente. L’Europa nel VI secolo visse una crisi profonda di civiltà per l’invasione di popoli che venivano da lontano. Oggi vive una crisi ben più profonda, perché essa viene dal suo interno. La devastazione è dovuta a quello che Freud chiama il principio del piacere. I giovani perdono la gioia del vivere, la povertà dilaga e il divario con la ricchezza di pochi si accresce, l’uomo diventa sempre più incapace di cogliere il bisogno dell’altro uomo. Non c’è più posto per la speranza e intorno a noi è un susseguirsi di tragedie. Ho trattenuto a stento le lacrime quando stamattina, in confessionale, un bambino di dodici anni mi ha detto che i genitori si erano separati da un mese e che da allora non aveva più rivisto il padre. Perciò la vita per lui non aveva più senso. Capiamo allora il sospetto di tanti popoli che considerano il nostro Occidente come marcio.
Guardiamo alla croce: è questo nostro marciume che uccide Gesù, il Figlio di Dio che ha assunto il volto dell’uomo è si è lasciato uccidere dal nostro peccato. Paolo ci ha fatto scorgere questo svuotamento di Gesù, che obbedisce all’amore del Padre, rinunciando alla sua divinità, facendosi uomo tra gli uomini e lasciandosi assassinare da noi ogni giorno. Il Dio Incarnato percorre la via del male e della sofferenza, fino alla morte, per donarci la vita. Il Padre condivide la sofferenza del Figlio che offre la vita per amore. Il Figlio, pur sentendosi abbandonato, perché ha preso su di sé tutto il peccato del mondo, si abbandona nelle mani del Padre. Per questo dono infinito di tutta la sua vita divina, Gesù è esaltato dal Padre e ci trasmette la vita del suo Spirito.
Comprendiamo perciò di aver bisogno di un Cristianesimo dello Spirito, non di vuote tradizioni, del suo soffio di vita, vento che purifica e che rinnova, che dona e trasmette letizia e fa assaporare la bellezza della vita donata per amore. Questo Cristianesimo è appena agli inizi.
Nello scambiarci il gesto della pace accogliamo l’altro, il dolore del mondo, seguendo la via della croce di Cristo. Con Cristo e in Cristo nascerà in noi la vita vera della relazione.