NATALE DEL SIGNORE – Anno B
(Is 52,7-10; Sal.97; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18)
“Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi … in questi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio”. Così abbiamo letto oggi nella Lettera agli Ebrei. Quello che celebriamo oggi non è una speranza vaga, non è una teoria di salvezza: noi, nella celebrazione del Natale, annunciamo un evento che segna radicalmente la storia dell’umanità. Non si tratta del ricordo di un fatto passato, ma della memoria viva di un evento che continua nell’oggi: Dio è per noi, Dio è tra noi. Contempliamo questo mistero della presenza di Dio nell’umanità, nella storia, ricordando le parole di Cirillo di Alessandria: “Dio si è fatto ciò che siamo per farci partecipi di ciò che egli è”.
Natale è la celebrazione di un evento straordinario, che si compie come fatto umano vissuto nella semplicità della vita, come un fatto ordinario. È una realtà quotidiana, come il lettino che vediamo ai piedi dell’altare: è un bambino come gli altri, che la mamma copre con un lenzuolino. Natale è tanta ordinarietà, ma contemporaneamente è la straordinarietà dell’ingresso della Parola eterna nel tempo.
Per noi che siamo nel tempo finisce la monotonia dei giorni, sempre uguali, senza senso. Natale non è una data da ricordare, ma la memoria di un avvenimento non riconducibile all’episodio della nascita di un bambino al tempo di Cesare Augusto. Natale è l’evento dell’ingresso di Dio nella storia, evento che non raggiunge solo i contemporanei di Gesù, ma tutti noi. Se ci fermassimo a guardare solo quel momento ne perderemmo il significato, che Paolo, nella lettera ai Galati sintetizza così: “Dio mi ha tanto amato da dare se stesso per me”. Il Signore entra nella storia per ciascuno di noi, personalmente, in ogni tempo, in ogni luogo, in ogni situazione.
“In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” così Giovanni inizia il suo Vangelo. Al principio, nell’eternità di Dio, è racchiuso il significato di ogni vita. Nel mistero del Natale questo significato diviene accessibile a ciascuno di noi, diviene nostro, perché è per ciascuno di noi.
La scena del Presepe richiede silenzio e contemplazione. Magari stasera, nel silenzio, fermiamoci un momento a ripetere: “per me”. È in questo silenzio che comprendiamo in modo sempre nuovo che Dio viene, bussa alla nostra porta, ci incontra nell’esistenza quotidiana, per confermare la sua amicizia, per farci partecipi del suo tempo, l’eternità. Gesù ci ha detto: “Vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Gv.15,15).
Dio ha tempo per me, un tempo non misurabile con l’orologio. Il suo tempo dà significato ad ogni cosa. Il coro dei bambini ci ha cantato l’amore di Dio. La tenerezza che abbiamo provato nei loro confronti si è unificata all’altra tenerezza, quella che proviamo nel ricordo dei bambini morti nel terremoto in Puglia. La presenza del Verbo tra noi ci inserisce in un tempo che tutto prende con sé e ci trascina nell’eternità.
Natale è un inizio per ciascuno di noi. Con la sua presenza Dio mi aiuta a vivere nel suo tempo eterno: ogni cosa, ogni rapporto, ogni parola, assume un significato nuovo e ci permette di viverla in pienezza, perché assunta nel tempo di Dio. Oggi Dio viene nel tempo. Gesù, fatto adulto, piangerà sul male del mondo, che ha preso tutto su di sé, e chiederà ai suoi discepoli di dargli il loro tempo per confidarsi con loro, così come lo chiede a quanti si fidano di lui.
La presenza di Dio nel tempo ci invita ad uscire dal nostro tempo angusto. Lui è il senso, la patria, colui che nella nostra vita chiede di essere presente, presente negli affetti, nella giustizia e nella verità delle relazioni.
Natale, allora, non è solo contemplazione, ma è chiamata all’amore, a rapporti umani di pace, di semplicità nell’umiltà e nell’affettività.” A quanti lo hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati”. Viviamo i giorni della nostra vita alla luce di Dio, che ci ha chiamati, che è venuto per ciascuno di noi e ha tempo per tutti noi.
Buon Natale.
Anche l’Apostolo Giovanni, nel suo stile, è evangelista del Natale.
In questa celebrazione “del giorno” non è più il racconto a prevalere nella liturgia, ma il suo messaggio di testimone e di teologo sul Verbo fatto carne. Come testimone egli riferisce l’evento dell’Incarnazione, parla della propria esperienza con il Verbo nella natura umana, che egli ha contemplato, ha toccato con le proprie mani, ha udito; esperienza così forte da permettergli di annunciare la presenza misericordiosa di Dio tra gli uomini. Come teologo, penetra nella dimensione trinitaria dell’evento, risale al dialogo eterno tra il Padre e il Figlio che è la radice del cammino dal “prima del tempo” alla storia, dal cielo alla terra; quel cammino del tono sommesso di Betlemme e di Nazaret, che corre il rischio drammatico del rifiuto per incredulità, rischio assunto per rispetto della libertà umana.
L’esperienza e la contemplazione permettono a Giovanni di annunciare tre grandi verità, che sono la fonte certa della speranza e della gioia cristiana:
- il Verbo si è fatto carne, perciò un Dio come noi;
- venne ad abitare in mezzo a noi, perciò un Dio con noi;
- pieno di grazia e di verità, perciò un Dio per noi, per farci figli di Dio.
Gesù è il mistero della carne umana assunta dal Verbo eterno, presenza del divino nell’umano, della santità nel peccato, della libertà nella fragilità, della stabilità della relazione nella precarietà del tempo. All’uomo viene così donata la possibilità del rapporto con Dio, del diventargli figlio, non nel regime della legge e della paura, ma della misericordia e della gratuità.
Giovanni non parla con il linguaggio amabile e confidenziale dei racconti dell’infanzia, che leggiamo in Matteo e soprattutto in Luca, ma colloca la grandezza d questo giorno, la luce e la gioia del Natale, nel mistero stesso di Dio e chiama il lettore non solo a risalire dall’umiltà della mangiatoia alla vita della Trinità, ma anche a discendere dal mistero impenetrabile di Dio alla stalla, alla mangiatoia, al silenzio di Maria, ai pastori. Suscita così in noi la fede che si affida e la speranza che si abbandona nella contemplazione dell’ “abbassarsi” di Dio.
Questa pagina fa parte della liturgia del Natale da tempi antichissimi, perché contiene la proposizione fondamentale della fede cristiana e della gioia che ne nasce:
“ e il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”
(Gv.1,14)
Ci aiuta a non fermarci al solo idillio dolce: anche se il Bambino invita alla emozione del cuore e alimenta la speranza, Giovanni chiama a renderci conto di una realtà che cambia la vita.
Il “Verbo” – “Logos” in greco, significa anche “senso”, il “significato di ogni cosa”- è venuto nel mondo in modo reale, non è un’idea generica della realtà, ma la verità di ogni cosa, e la dice con il Vangelo, con l’essere in Gesù Cristo, da Betlemme alla croce, alla resurrezione.
Ad un’umanità che soffre per “mancanza di senso” viene detto che esiste un “senso” che è Dio stesso, che è buono. A noi, che siamo schiacciati dalla bruttura della realtà, che siamo soffocati dalla diffidenza ed abbiamo l’impressione che la verità delle cose sia l’egoismo e la sporcizia, viene detto che la realtà è bella. La fantasia di chi costruisce il presepe indovina quando ci mostra la gioia per la nascita del Bambino nelle più diverse situazioni di vita dei suoi personaggi.
Dice Agostino: “A noi che crediamo, lo Sposo si presenta sempre bello. Bello è Dio, Verbo presso Dio; bello nel seno della Vergine, dove non perdette la divinità e assunse l’umanità; bello è il Verbo nato fanciullo, perché mentre era fanciullo, mentre succhiava il latte, mentre era portato in braccio, i cieli hanno parlato, gli angeli hanno cantato lodi, le stelle hanno diretto il cammino dei Magi, è stato adorato nel presepio, cibo per i mansueti”
( Commento al Salmo 44,3)
Riflettiamo ora su queste parole di Giovanni:
“ I suoi non lo hanno accolto”
È una frase profonda. Non può significare soltanto che per Maria e Giuseppe non c’era una locanda, né può essere intesa come appello, per quanto giusto, a pensare ai senzatetto della nostra città e del mondo. È una frase che scava dentro, dove l’uomo chiude il cuore a Dio, dove non vuole essere “la sua gente”, e si ritrova nella solitudine, con la pretesa di voler appartenere solo a se stesso.
Il Natale torna per invitarci alla gioia che viene dall’accoglienza fiduciosa.
“E noi vedemmo la sua gloria” (Gv.1,14)
Il discepolo ricorda quello che gli è capitato nel suo incontro con Gesù. Dovrebbe essere così anche per noi, per testimoniare che chi crede, vede.
Lasciamoci aprire gli occhi dal mistero di questo giorno
Lasciamoci rendere capaci di vedere.
Scrive in una poesia natalizia il teologo e poeta russo, morto all’inizio del ‘900, Vladimir Soloviev:
“Egli è qui. Presente nei vari tumulti,
nel vorticoso fiume di inquietudini umane.
E tu porti con te il gioioso mistero.
Il male è impotente, e noi siamo eterni.
Perché Dio è con noi!”
“In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio…
E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”
Il “principio” che evoca il prologo del vangelo di Giovanni è lo “in principio” del primo libro della Genesi, quello della creazione, e, soprattutto, il principio eterno della vita di Dio, Padre, Figlio, Spirito Santo. L’incarnazione è rivelazione di questo principio.
Si intravede un Dio impensabile, un Dio non monolitico, ma che si apre, un Dio in cui abita una tensione amante: “Dio è amore” dirà Giovanni nella sua prima lettera. Non l’amore che possiede, ma quello che fa vivere. Perciò il Verbo è la “luce della vita”.
La ragione per cui siamo qui è il riconoscimento di questo amore, nello stupore della mente che è liberata da ogni sospetto su Dio, sulla sua lontananza, perché nel Bambino si apre nella misericordia; e nello stupore del cuore, perché il Bambino suscita quella emozione che tutti sperimentiamo a Natale, nel silenzio dell’adorazione e nella contemplazione muta del presepe.
Stupore
“Ti sei compiaciuto di farti piccolo come un neonato,
tu che hai ornato il cielo con le stelle,
e giaci in una mangiatoia di animali senza parola,
tu che tieni in tua mano tutti i confini della terra.
Con una simile economia si è fatta conoscere,
o Cristo, la tua amorosa compassione,
la grande misericordia: gloria a Te”
(liturgia siro-palestinese)
“Il mondo fu fatto per mezzo di Lui, eppure il mondo non lo riconobbe”
Il Natale è la spiegazione di che cosa significa l’espressione: “Dio è amore”. Fa capire che, quando con la sua onnipotenza Dio crea, questa creazione espressione di amore, comporta un rischio per il Creatore. La realtà creata è “altra da sé”; è a sua somiglianza, perciò come Lui è libera. E Dio, fedele a se stesso nell’amore, incarnandosi, è così rispettoso della realtà creata, perciò della libertà dell’uomo, da rischiare la perdita del suo stesso nome, della sua dignità, della sua “faccia”, come aveva detto il profeta Isaia.
L’amore onnipotente, svelato in Gesù, si farà crocifiggere dagli uomini. L’amore rivelato nella nascita è strettamente legato all’ombra della croce. E san Luca lo esprime con i vocaboli che collegano la nascita a Betlemme con la morte e la sepoltura: le “fasce” e le “bende”, con cui Maria avvolge il Bambino, la “mangiatoia” in cui ella lo “depose”.
Impariamo che ogni amore vero vive all’ombra della croce. Non c’è matrimonio, famiglia, convento, scuola, sindacato, senza l’ombra della croce. Un Dio che si svuota è il linguaggio dell’amore, in contrasto con linguaggio del pieno, che rischia di essere quello della sufficienza. Facciamoci voce dell’umanità distratta: “Signore, impoverendoti a nostra immagine, hai deificato il nostro fango con l’unione e la partecipazione”.
“ A quanti però lo hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio”
Ecco, siamo chiamati uno per uno, personalmente.
L’amore comporta l’incontro e l’incontro implica la libertà. Il farsi bambino di Dio può diventare argomento per la insignificanza di Dio stesso, può oscurare nella mente umana la coscienza di essere creati, di avere ricevuto la vita in dono, può portare al rifiuto dell’amore, alla presunzione di fare della libertà il mito, l’idolo dell’esistenza, fino a rendersi schiavi di se stessi, oltre che di persone e cose.
Dobbiamo domandare allo Spirito, che ha accompagnato la vicenda di Maria e Giuseppe, di liberare la nostra libertà. Perché possiamo somigliare all’amore che ci viene svelato, ci ripromettiamo di rispondere liberamente e con umile fiducia, di vestire il nostro cuore con l’abito delle nozze, l’abito della gratitudine e della gioia, immeritata, che il Natale ci dona.
Il prologo del vangelo di Giovanni, ogni volta che lo leggiamo o ascoltiamo, non cessa di suscitare stupore, quasi uno smarrimento della mente. L’immagine di Dio che il pensiero filosofico antico tentava di definire, insieme con quella biblica della tradizione ebraica, radicata nella memoria dell’onnipotenza divina nell’epopea della liberazione dalla schiavitù in Egitto, è profondamente modificata nel Vangelo: Dio è il Padre che offre all’uomo il Figlio eterno, come il dono in vista del quale ha significato la creazione e tutta la storia, il dono gratuito del suo amore.
Natale è Dio che si fa umile, si assoggetta al tempo, si propone visibile nello spazio piccolo della creaturalità. Natale è l’immensità che si rimpiccolisce. È l’umanità di Dio, è la sua conoscibilità non pensabile prima. È il Dio trascendente che si autolimita nella condizione di precarietà che accompagna l’uomo nel tempo. È il non fermarsi all’itinerario della mente in Dio, ma l’annuncio dell’itinerario di Dio all’uomo. L’espressione “carne” che l’evangelista adopera per farci comprendere tutto questo, non è una semplice indicazione per dire “uomo”, per sottolineare la carnalità della natura umana assunta da Gesù, ma indica piuttosto la vicinanza e la condivisione della fragilità dell’esistenza mortale, legata alla terra, debole e caduca. Abbiamo sentito: “E il Verbo si fece carne e pose la sua tenda in mezzo a noi, e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv.1,14).
Il “noi” del testo evangelico riguarda ogni credente, raggiunge ogni uomo, ognuno di noi quando, sia pure per un attimo, siamo avvolti dal silenzio del presepe e ci sentiamo come affascinati e paralizzati dallo stupore: “è uno di noi!”. È gioia per i credenti e stupore per i così detti “non credenti” .
Nel 1940, nel campo di concentramento di Treviri dove era internato, fu richiesto a Jean Paul Sartre di preparare un testo teatrale per il Natale. Lo fece, nonostante il suo dichiarato ateismo, e di Maria fece dire ad un immaginario cantastorie che illustrava scene e personaggi:
“La vergine è pallida e guarda il bambino
Il Cristo è il suo bambino, la carne della sua carne e il frutto del suo seno…
Lo guarda e pensa: questo Dio è mio figlio.
Questa carne divina è la mia carne…
È fatta di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia.
Mi rassomiglia. È Dio e mi rassomiglia!”
(Barione o il figlio del tuono. Milano 2003)
È bello il Natale visto da un non credente.
Non ci si deve meravigliare se la tradizione cristiana della contemplazione ci parla di un Dio appassionato dell’uomo, di ciascun uomo da Lui immensamente amato. Non ci si dovrebbe rifiutare alla plausibilità della parola che percorre la Bibbia intera: “Non avere paura, io sono con te!”. Parola che permette di riscoprire la vita umana come Provvidenza, come storia di Dio con l’uomo, perché il suo farsi uomo abolisce la distanza tra Dio e l’uomo. Il libro in cui è possibile leggere la verità dell’incarnazione non è quello della teologia, della parola e dei concetti, ma è quello del cuore, della vita stessa dell’uomo, là dove la verità è scritta con i caratteri indelebili dell’amore immenso che lo accompagna, precedendolo, sostenendolo, risollevandolo, fino a rendere la sua creatura “capace di Dio”, capace di condividere la sua vita eterna.
Tutto perché c’è Lui che condivide nel tempo la vita umana.
Perciò Giovanni dice ancora:
“Dio nessuno lo ha mai visto:
l’unigenito Dio che è rivolto verso il seno del Padre, Lui lo ha rivelato”
(Gv.1.18)
Così Natale è la rivelazione dell’identità dell’uomo. Anche la sua immagine è trasformata. Veramente l’uomo non è uno dei tanti esseri, ma l’essere amato da sempre da Chi gratuitamente ha scelto di renderlo simile a sé, e per farlo ha scelto di somigliargli, di far propri i suoi limiti, le sue sofferenze, la sua morte. “È Dio e mi rassomiglia!”. Viene da pensare ad Adamo come una bozza preparatoria di un altro Adamo, come Paolo annuncerà, uomo pienamente realizzato, che viene dalla terra fecondata dallo Spirito, come il grembo di Maria.
I cristiani sentono così il Natale, come avvenimento di Dio e dell’uomo da riconoscere e da sperimentare.
E sentono di poter annunciare la gioia che nasce dalla scoperta di Chi si è fatto uno di noi per rassomigliarci.
Le vicende della vita, molte volte sul piano personale, oggi particolarmente avvertite drammaticamente su quello culturale e sociale, spingerebbero a negare la possibilità della gioia. Tutti desideriamo di non essere oppressi dall’incertezza ed abbiamo un bisogno sempre più forte di qualche punto fermo.
Oggi il Bambino ce lo dona, con il suo dirsi Dio con noi.
Questo significa che anche noi possiamo provare a pensarci “uomini con Dio”. Alla sua luce possiamo purificare lo sguardo sulla realtà ed imparare ad essere portatori di speranza.
Guardare il Bambino e ripetere con Maria: “E’ il mio Dio e mi rassomiglia!”.