PASQUA DI RESURREZIONE – Anno B
(At 10,34a.37-43; Sal.117; Col 3,1-4; Gv 20,1-9)
“È tempo che si sappia! È tempo che la pietra accetti di fiorire, che l’affanno abbia un cuore che batte. È tempo che sia tempo! È tempo!” Sono versi di Paul Celan, un poeta che nell’Olocausto aveva perduto tutta la famiglia: si trovava nella sofferenza e cercava di esprimere la speranza.
Anche i giorni di questa nostra Pasqua sono giorni tragici. Oggi è la conclusione festosa di una settimana in cui abbiamo sovrapposto l’immagine di due volti: quello che, nel Vangelo di Giovanni, Pilato ci mostrava dicendo: “Ecco l’Uomo!” e quello di Alì, il bambino iracheno, che ha perso tutta la famiglia in un bombardamento ed è rimasto senza braccia e senza gambe…Gesù sofferente è nel volto sfigurato dell’uomo in ogni latitudine, in ogni tempo.
Oggi è tempo di ascoltare l’annunzio di Pietro nella casa del pagano Cornelio, annunzio proposto all’umanità, anche a quella che non si riconosce nella fede religiosa. Ascoltare la sua parola, detta con l’autorevolezza del testimone. “Gesù di Nazaret … che i Giudei … uccisero appendendolo a una croce, Dio lo ha resuscitato il terzo giorno e volle che apparisse … a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua resurrezione dai morti…” Anche se l’uomo cerca di amare al massimo, sperimenta il limite del proprio cuore. Ma la Parola che è nel cuore di Dio, il suo Amore, è senza limiti, è vita oltre la morte, per sempre, per tutti. Dio la attualizza, la rende presente in ogni persona e la incarna nel divenire della storia attraverso suo Figlio, che per testimoniare e trasmettere questo Amore, è stato realmente crocefisso, realmente è risorto. È tempo che la Chiesa accetti di fiorire, nel testimoniare e trasmettere la presenza della vita dell’Amore divino, che è vita senza fine.
Il Vangelo ci insegna che i discepoli, tutti i discepoli, devono compiere un itinerario sofferto, prima di incontrare realmente il Risorto e divenire capaci di testimoniarlo. Quando hanno lasciato il Golgota, essi credevano che l’esperienza del loro incontro con Gesù fosse finita. Come ciascuno di noi, tornando dal Cimitero, si sente sconfitto, perché pensa che la sua esperienza con la persona sepolta sia finita. Anche Maria di Magdala è dominata dalla realtà che vede. Non è capace di vedere altro, che il ricordo di Cristo morto, avvolto nel sudario. Pensa secondo il suo cuore piccolo, non secondo quello di Dio, e non sa dire altro che: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro…!”. Ma il Vangelo ci dice che Pietro, a queste parole, “uscì” per recarsi al sepolcro. È necessario “uscire” dalla esperienza del solo dolore, della morte, del vuoto privo di speranza. Proprio per questo suo essere “uscito”, quando Pietro giunge al sepolcro il suo vedere è altro da quello di Maria di Magdala. Egli non si ferma a guardare la pietra ribaltata, ma “entra” nel silenzio profondo della tomba vuota e, uscito dal chiasso della sua emotività, sperimenta le parole che Gesù aveva pronunziato un giorno e che egli non aveva capito: “Bisogna che il Figlio dell’Uomo soffra molto, sia riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, resuscitare”. Egli sente lievitare dentro di sé la Parola: non è più Simone, ma Pietro. Può lasciare che anche l’altro discepolo, venuto con lui e arrivato prima, entri nel sepolcro. L’altro si fa una certezza: “Vide e credette”.
Guardiamo anche noi alla Parola, presente nel nostro cuore, ascoltiamola. Viviamo questa vita nuova, vita eterna, “ribaltata” come la pietra che chiudeva la tomba del Signore. Rendiamoci conto che quella pietra è fiorita, fiorita come il giardino dell’Eden. L’Amore senza fine dona vita senza fine.
Ribaltare la pietra che è nel nostro cuore richiede un impegno personale, il superamento dell’ottica del presente, del benessere individuale, per vivere una vita vissuta all’insegna dell’oltre di Dio, della vita senza fine. Cerchiamo Dio che ci dona questa vita eterna già nel presente, oltre le rovine, la disunità, il peccato, i fallimenti.
Un monaco del XII secolo diceva: “Mi basta che Gesù vive. Se Gesù vive, io vivo, appeso a lui. Lui è la mia vita, questo mi basta. Nulla mi potrà mancare, se Gesù vive”. Gesù vive nella relazione. Entriamo nell’ottica dei primi cristiani, che rendevano testimonianza della Resurrezione con l’attenzione agli altri, ai poveri, alle mense, alle vedove, agli orfani, nella condivisione dei beni, ponendo fine alla preoccupazione di sé, della propria sicurezza.
Il discepolo vide e credette. Auguriamoci di avere anche noi occhi pasquali, capaci di vedere nella morte la vita, nella colpa il perdono, nella separazione l’unità, nelle ferite la gloria, per vedere nell’uomo Dio, nell’io il tu.
Chiediamo la forza della Pasqua, perché la pietra accetti di fiorire e l’affanno abbia un cuore che batte. È tempo che sia tempo…
Buona Pasqua!
Circa 20 anni dopo i fatti, S. Paolo scriveva ai Cristiani di Corinto:
“Vi ho trasmesso innanzitutto quello che anch’io ho ricevuto, che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è resuscitato il terzo giorno, secondo le Scritture … apparve a Cefa e quindi ai Dodici … a cinquecento fratelli … ultimo anche a me.” (1Cor.15,3-8)
La fede nella resurrezione è nata dall’esperienza. “Il Signore è veramente risorto ed è apparso a Pietro” (Lc.24,34). È il saluto degli Undici ai due discepoli che sulla strada di Emmaus avevano incontrato il Risorto, ed erano tornati a Gerusalemme pieni di entusiasmo e di sgomento. Questo grido, passato di bocca in bocca, fu vissuto come il saluto reciproco dei Cristiani per riconoscersi nella fede e sostenersi nella speranza. Poi i Vangeli cercheranno di arricchire l’annuncio con il racconto dei particolari, ma il nocciolo è questo. Perciò Paolo dice “innanzitutto”.
La verità della resurrezione del Signore è “secondo le Scritture”, cioè è compimento di quello che l’Antico Testamento aveva predetto del Servo sofferente “per le nostre iniquità” (Is.53,5). Non si tratta di compimento per soddisfare la giustizia, come avviene per i condannati a morte, ma di compimento di un amore, che non vuole lasciare la creatura, che si è separata, senza senso, senza speranza e senza eternità. Quella di Cristo, perchè vissuta come espressione di questo amore, è una morte che porta riconciliazione, diventa luce per l’umanità, mette fine alla morte. E proprio perchè è amore vissuto “fino alla fine” (Gv.13,1), non nel senso del tempo, ma del massimo della donazione, introduce l’uomo Gesù nel mondo di Dio.
È la Pasqua di Gesù.
Gesù comincia ad essere nel mon
do di Dio, che non è percepibile con i sensi: è in una dimensione che non appartiene alla nostra esperienza – i Dodici stentano a credere e a riconoscere. La verità della resurrezione può essere colta solo nel dono della fede, nel tempo e nel modo che Egli concede. Perciò il verbo “apparve”, per evitare ogni scontatezza, si potrebbe leggere meglio con le parole: “si fece vedere”. Il Signore sceglie coloro ai quali si fa vedere, perchè siano suoi testimoni. Questo ci aiuta a capire che non celebriamo le apparizioni, ma il fatto, l’avvenimento che riguarda la persona di Gesù, che ha il suo riflesso nelle apparizioni, con cui si rende accessibile a noi per amore fedele.
Paolo, scrivendo ai cristiani di Corinto, li aiutava a superare le incertezze della vita di fede, gli interrogativi sul mistero della morte e sulla resurrezione dai morti, che il pensiero greco non era in grado di accogliere. Perciò, per noi che spesso sperimentiamo analoghe difficoltà, è necessario riflettere.
Essere uomini significa andare incontro alla morte, significa dover morire. Perciò sperimentiamo la contraddizione tra necessità biologica di morire e l’aspirazione profonda all’eternità, contraddizione che è tanto più forte, quanto più amiamo, perchè l’amore tende alla comunicazione senza interruzioni per non sentirsi smentito, e la morte sembra illogica. Conosciamo tutti vedove senza consolazione, donne che, come Maria, si son viste strappare un figlio dalla morte. Gesù ha vissuto questo. Si è fatto uomo ed ha incontrato la morte, vivendone la contraddizione in maniera radicale e tremenda, perchè proveniva dalla comunione eterna, e la aveva donata “fino alla fine”. La drammaticità dell’interruzione della comunione con il Padre ci è apparsa in tutta la sua profondità nel grido sulla croce, che riprende le parole del Salmo 22:
“Dio mio, Dio mio, perchè mi hai abbandonato?” (Mc.15,34)
Tuttavia, per il fatto che la sua morte è vissuta nella fede ed è accolta – pur nel buio più fitto – dall’amore del Padre, la sua umanità è innestata sulla roccia, come Dio viene chiamato nella Scrittura, e perciò non può finire, ma in Dio raggiunge la pienezza della vita umana, perchè nei fatti ha creduto ed obbedito. Egli è il Signore della vita.
Il suo fidarsi lo fa entrare come uomo nella natura stessa di Dio. Così Dio che è il totalmente Altro diviene il non – Altro. Il vicino. Il Padre con cui si può essere in relazione. E qui finisce la vittoria della morte e inizia la continuità della vita.
Si scopre che Dio Creatore rispetta nella sua creatura il desiderio e la ricerca del superamento della morte. Le dice nell’avvenimento di Cristo che la morte non è in modo irrevocabile il destino del creato, le indica nel Figlio, fatto uomo fino alla morte e risorto, che la forza della Parola accolta e dell’amore vissuto è così grande, così capace di modificazione delle situazioni, da rendere possibile il superamento della morte. In Lui facciamo esperienza dell’amore che non solo guarisce, ma fa risorgere, coinvolgendo anche il corpo,
Allora credere nella resurrezione di Gesù significa cominciare a sentire la chiamata ad interpretare l’esistenza personale e quella del mondo alla luce della Parola e dell’amore: se credo, ho la certezza nell’infinita potenza della Parola, se amo vivo nell’amore di Dio che non finisce. Significa soprattutto credere a Dio, al suo sì alla creatura, che la coinvolge fino alla realtà del corpo, fino a custodirla nella morte per il momento in cui la tomba di ciascuno di noi sarà vuota. Un sì che abbraccia tutto l’essere della creatura.
La resurrezione di Gesù è rivelazione della potenza di Dio e della grandezza della responsabilità umana. Perciò, in un mondo che sembra vedere il prevalere della morte, i cristiani possono cantare la vita e gridare: “Alleluja!”.
“Il primo giorno della settimana”, alla prima ora del giorno.
Tutto fa pensare ad un inizio, alla prima pagina del libro della Genesi, qualcosa che viene donato dall’alto, mentre in basso gli elementi che caratterizzano la terra sono il buio ed il sepolcro.
Quel giorno è destinato a diventare “il giorno”, non per la capacità umana di intravedere luminosità dove dominano l’oscurità e la morte, ma per il dono di una presenza e dell’incontro che permette. Il meriggio di questo giorno, la pienezza di luce, non sta nel pellegrinaggio al sepolcro vuoto o nell’osservazione dei segni, degli indizi, sia pure importanti, ma nell’evento che si rinnova con lo scorrere delle ore: il Signore è vivente e Maria può vederlo nei pressi della tomba, come i discepoli verso sera nell’interno “del luogo dove si trovavano per paura”. Senza questo incontro personale e intimo – che resta sempre necessario per la fede di ciascuno di noi – la stessa fede può restare prigioniera della visione parziale della realtà, e non essere pronta ad accogliere la novità di Dio, come accade a Maria, che pensa al trafugamento del corpo di Gesù e annunzia il fatto con un’emozione disperata ai discepoli che, a loro volta, “udito che era vivo ed era stato visto da lei, non credettero” (Mc.16,11) e, come scrive Luca, ”quelle parole parvero loro un vaneggiamento e non credettero ad esse” (Lc.24,11).
L’indicazione del discepolo “amato”, che precede Pietro non solo nel senso di velocità, ma di prontezza alla comprensione, è ancora una volta l’affermazione che l’amore è la via diretta e breve verso la verità di cui si avverte il fascino, ma che non è ancora posseduta. Ma anche la sua fede dovrà crescere: essa si manifesterà più pienamente quando, tornando a riva dalla pesca, assieme ai compagni vedrà Gesù ad attenderli sulla riva e dirà per primo: “È il Signore!”, anche qui precedendo Pietro, aiutandolo ad essere pienamente certo (Gv.21,7).
Così nella Chiesa ed in ogni tempo, chi ama vede prima e aiuta l’istituzione a vedere il Signore vivo e presente e ad ascoltarne la voce. L’amore conduce a superare ostacoli apparentemente invalicabili e confini che sembrano non superabili. L’amore che punta all’unità con l’amato non si contenta del linguaggio dei segni e dei riti, ma va in profondità nella direzione che quei segni indicano: amare, desiderare, aspettare Gesù ed essere appagati da Lui solo. I teli ed il sudario ripiegati con accuratezza e deposti da parte, come un’armonia che si ricompone e dice luce, rimandano a quanto le Scritture dicono di Gesù, perché si possa essere certi che Lui è il Signore e la morte non può vincerlo.
In questa Pasqua, per quanti lo seguono, per tutti noi che ci ritroviamo nella fede in Lui, nasce, come conseguenza della certezza della resurrezione, l’esigenza di cercare ed amare Gesù, il “Vivente”, non solo attraverso la via apparentemete più breve della devozione, ma nel modo in cui Egli ha inteso la sua vita e la ha donata “sino alla fine” (Gv.13,1). Così sembra indicare Pietro nella testimonianza in casa del centurione Cornelio definendolo “il Signore di tutti … il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui” (Atti 10,38). Così sembrano indicare gli stessi evangelisti Matteo e Marco invitando i discepoli ad andare in Galilea dove Gesù “li precede” e da loro un appuntamento: “Lì lo vedrete” (Mc.16,3). Per vedere Gesù bisogna entrare nella sua vita di attenzione e di donazione premurosa. Galilea, terra delle proprie case, del proprio lavoro, dei rapporti ordinari, della gente amica e credente che vive gomito a gomito con quella ostile e pagana… Il vangelo della resurrezione, manifestato da “testimoni prescelti” che hanno “mangiato e bevuto con lui dopo a resurrezione dai morti” rimanda ai luoghi e ai tempi della vita ordinaria
dei discepoli del Signore; rimanda alla terra di ogni donna e di ogni uomo, chiamati alla fede, prescelti per testimoniare la vita nuova, rinnovata dalla morte e resurrezione del Signore.
La celebrazione della Pasqua non si esaurisce nella festa, sia pure religiosamente e sinceramente vissuta, ma si esprime e si prolunga drammaticamente “beneficando e risanando” l’umanità ferita dalle mille forme di sofferenza e di disumanità. ”Drammaticamente”, perché, se così non fosse, l’annuncio della Pasqua sarebbe negato dai fatti e rifiutato dal pensiero. Il tempo non concede di sfuggire al rapporto stretto che lega la fede al compiere bene il proprio ruolo, là dove siamo chiamati a vivere, assumendo come regola e stile quello del Signore. Di questo bisogna convincerci, nel nome del Dio della vita. Disattendere l’impegno responsabile nella costruzione e nella custodia amorosa della città dell’uomo è “ateismo di fatto”, negazione del Dio incarnato, crocefisso e risorto per rimanere accanto all’uomo nei prati, nei campi, nelle case, nei luoghi di lavoro, perché esca dalla paura vivendo ogni realtà nell’amore.
È la sapienza che s. Paolo insegna:
“Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio” (Col.3,3)
“Egli doveva risorgere dai morti”
Nessun evangelista descrive l’evento della resurrezione, tutti raccontano l’incontro con il Risorto dopo la constatazione dell’assenza del corpo dalla tomba aperta e vuota. Questa l’esperienza degli Apostoli: non hanno visto il Signore risorgere, ma la tomba vuota e il Risorto. Il racconto di questa esperienza, spirituale fisica, mistica e reale, costituisce la tradizione più antica e il fondamento della comunità di fede che è generata da essa.
Giovanni aveva assistito alla sepoltura, ne ricordava bene i particolari, la collocazione del corpo avvolto da teli, il volto tenuto composto dal panno arrotolato chiamato “sudario”, ora giacenti e svuotati come se il corpo fosse sgusciato da essi. Una situazione umanamente incredibile, che non permetteva di pensare al trafugamento, perché un ladro avrebbe portato via i teli. Di lui, il discepolo amato, è detto che “vide e credette”, non è detto che credette con sicurezza: anche per lui “era ancora buio” e tuttavia non era solo l’alba in senso astronomico, era l’alba della fede, la luce che permette di cominciare a credere. I dodici e tutto il gruppo dei seguaci vivevano giorni di delusione, di fallimento di un sogno che svanisce nel nulla, di tentazione amara di “tutti a casa”, come Luca dice dei due di Emmaus: “Noi avevamo creduto, ma …” (Lc.24,21). Sperimentavano quanto sia grande la difficoltà di credere in tempo di scoramento. Solo con l’esperienza dell’incontro con il Risorto la certezza sarebbe venuta, ma era necessario mettere da parte tutte le proprie sicurezze e i propri rimpianti. Maria di Betania avrebbe dovuto lasciare la dolcezza delle sue parole, Maria di Magdala il suo guardare l’accaduto con logica umana, Maria di Nazaret il suo dolore per essere madre di tutti. Le tre Marie del vangelo di Giovanni sono il simbolo della Chiesa credente e amante che deve riconoscere il Signore entrato in una dimensione nuova che egli inaugura nella umanità glorificata a motivo della croce subita, una dimensione che, insieme a Lui, diventa il poter essere di tuta l’umanità, di tutti noi.
La certezza di fede si raggiunge, con umiltà e fiducia paziente, sgombrando il proprio io dalle prevenzioni e dalle resistenze che ostacolano l’incontro. Perciò i vangeli non raccontano la resurrezione, ma gli incontri con Gesù. Il Cristianesimo non è una sapienza, una cultura, un’etica, valori che sono soltanto derivati, ma è la certezza della resurrezione.
“Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati” (1Cor,15.17), scriverà san Paolo qualche decennio dopo gli avvenimenti. E Pietro annuncerà: “Il Padre lo ha accreditato presso di voi” (Atti 2,22), perché venga testimoniata all’umanità l’infinita preziosità e fecondità della morte-resurrezione da cui ha origine e contenuto la dignità dell’uomo e la sua speranza.
La vita, gli insegnamenti, i gesti di Gesù sono confermati da Dio che considera le parole dette da Lui come uscite dal suo cuore di Padre. La resurrezione è la garanzia divina sull’autenticità di quelle parole e di quei gesti. Nella fede della Chiesa in questo modo Gesù è costituito centro della storia, modello e giudizio dei valori per ogni donna e ogni uomo. Gesù è risorto perché l’umanità possa risorgere. Perciò seguirlo sulla sua strada è “passare” dalla morte alla vita, a quella che Egli abita, già fin dal presente. Paolo lo dice: “Cercate le cose di lassù”, non nel senso di disinteresse delle gioie e delle sofferenze del mondo presente, ma nel senso di avere nel Risorto l’orientamento e lo stile dell’esistenza. Paolo invita i cristiani a vivere tutti gli aspetti della vita, tutta la realtà, come persone che appartengono all’eternità, perciò a vivere secondo gli insegnamenti di Gesù. Per conseguenza invita ad assumere con responsabilità, intima e sociale, familiare e politica, la diversificazione fra stile di vita mondano e stile di vita cristiano. Testimoniare l’incontro con il Risorto non è soltanto dei momenti celebrativi e liturgici, ma è per la continuità dell’esistenza ordinaria. Qui è la chiamata a testimoniare, nella luce della fede, a porsi come un invito, una provocazione che induce a pensare e ad accogliere l’incontro con il Risorto. La luce della resurrezione sarà piena per i discepoli al momento dell’Ascensione, quando gli angeli che hanno annunciato le resurrezione inviteranno a non fermarsi a guardare i cielo con malinconia, ma a tornare dai fratelli.
La Pasqua è invito a passare dal presente all’oltre, dall’incertezza al definitivo. I segni dell’auto-manifestazione non sono insufficienti per il nostro cammino ed il Risorto li può donare, e lo fa in continuazione, con la sua sovrana libertà. Lo dobbiamo ripetere a noi stessi nei momenti in cui siamo assaliti dal dubbio. Ed essere riconoscenti per il fatto che Egli ha una libertà tanto forte e fedele da volere che l’uomo partecipi di essa, di questa sua libertà, vivendola nella propria libertà personale di ricerca, di riflessione, di umiltà e cammino presente in vista dell’incontro.
La relazione che Egli desidera per quanti ama sfocia così nell’appellativo che Egli stesso da ai suoi quando li definisce “fratelli” (Gv.20,17).