III DOMENICA DI PASQUA – Anno B
(At 3,13-15.17-19; Sal.4; 1Gv 2,1-5; Lc 24,35-48)
Un monaco vissuto all’inizio del Medio Evo così scriveva: è più proficuo concepire Gesù nel proprio cuore, che vederlo con gli occhi esteriori del corpo o sentirlo parlare. Lo Spirito Santo opera sull’uomo interiore e perciò l’interiorità è più forte. Ma nel Signore Risorto questa interiorità ha come momento iniziale la conoscenza sensibile. In questi 50 giorni, che intercorrono fra Pasqua e la Pentecoste, la liturgia ci fa contemplare il Risorto nei suoi gesti e nelle sue parole, stimola la nostra attenzione, perché giungiamo alla perfezione dell’interiorità. Egli parla a noi oggi, come allora ai discepoli, formandoli alla vita. Nel passo del Vangelo di Luca, tratto dal capitolo 24, affiorano i dubbi e le incertezze dei discepoli: sono quelli di ogni generazione di credenti, sono anche i nostri. Guardiamo con attenzione il testo, per coglierne l’energia e la luce. “Gesù in persona apparve in mezzo a loro”. Egli è una realtà fisicamente identificabile: apre gli occhi e il cuore degli undici, riuniti a Gerusalemme, perché escano dalla paura, come è accaduto ai due sulla via di Emmaus, come è accaduto a Tommaso, quando Gesù è tornato a mostrarsi perché proprio lui lo riconoscesse. Gesù porta al convincimento sulla sua realtà di Risorto con gradualità e pazienza, senza giudicare la povertà umana di quanti stentano a riconoscerlo. Propone le ragioni della certezza con insistenza, mostra le sue piaghe perché i discepoli non pensino che sia altro dal Gesù che hanno conosciuto, chiede di mangiare perché non credano che sia un fantasma. Gesù Risorto viene incontro alla povertà umana, partendo dai sensi, che sono il primo, indispensabile gradino delle nostre certezze. Prima della sua morte i Vangeli ci hanno parlato di ben sette incontri conviviali, cui Gesù ha partecipato per trasmettere convivialità e fraternità. Dopo risorto ha mangiato tre volte con i suoi, perché si convincessero della sua nuova dimensione, non solo conviviale, ma anche sensibile. Luca, che era medico, conosce assai bene il valore della sensibilità: la donna peccatrice che in casa di Simone fariseo si getta ai piedi di Gesù e bagna i suoi piedi con le proprie lacrime, lo tocca con le sue mani. A Nain, quando Gesù ferma il corteo funebre, tocca la bara e il ragazzo si leva a sedere. Anche Marco ci racconta che Gesù prese la mano della figlia di Giairo dicendole: “fanciulla, io ti dico, alzati!”. Per dare tenerezza, Gesù tocca le persone, così come ora, nel passo che abbiamo letto, trasmette accoglienza, comunica fiducia nella sua realtà di Risorto dicendo ai discepoli: “Guardate le mie mani ed i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate …”. Gesù è maestro di verità, perché si presenta con la carne e le ossa e trasmette questa verità attraverso segni sensibili. Inserito totalmente nella realtà umana, vuole che l’uomo raggiunga la verità su di lui attraverso la via naturale, che è quella della sensibilità. Gesù è presente nella concretezza della storia degli uomini: ognuno di noi può leggere la propria storia personale come presenza di Dio, come abitata dal Risorto, che ci trasmette fiducia e perdono, ci fa uscire dal fatalismo, perché ci dà sempre la possibilità di ricominciare. Agostino forse pensava a questa vicinanza nel momento in cui ci sembra che non ci sia luce, quando, nel “De civitate Dei” ci dice: “Fermati e lascia che l’anima vada nei larghi pascoli della memoria”. Lì troverai il Signore, il senso del vivere. Questa sua presenza, testimoniata a ciascuno di noi dalla propria memoria, ci educa alla reciprocità. Come il Signore ci è vicino, così noi dobbiamo farci prossimo dei nostri fratelli. Egli ci invita a non far diventare la nostra sofferenza intolleranza e fuga davanti all’altro, a non sfuggire chi vuole comunicare con noi, con il pretesto che non abbiamo tempo, restando con la testa china sul computer o sui fornelli… Gesù ha sempre tempo per restare con noi, così come ha avuto il tempo di ritornare per rassicurare Tommaso. Egli ci domanda di accostarci a lui con attenzione, a lui, che ci dice le ragioni della sua verità, passando attraverso la nostra sensibilità, perché il suo amore è fatto di gesti concreti. I primi cristiani trasmettevano la loro esperienza della Resurrezione dicendo: “Abbiamo mangiato e bevuto con lui”. I gesti concreti dell’amore, passando attraverso la sensibilità, aprono gli occhi dell’interiorità alla certezza della vicinanza del Signore Risorto, presente tra noi. Questa certezza è la vera fonte della pace. La pace che viene dal Risorto non nasce dal nostro sentirci a posto, non nasce dalle situazioni politiche positive e neanche dalla serenità interiore. Essa si fonda sulla certezza che c’è Qualcuno che ci ama e ci dona la pace anche se non la meritiamo. È Cristo Risorto che ci dice: “Vieni qui, toccami”. Il mio amore vince la morte e dona la vita eterna. Ognuno di noi trova in lui, nella sua presenza tra noi, nel tessuto concreto della propria storia personale, la vita e la pace. Impariamo a leggere la sua presenza nelle nostre vite, anche se non abbiamo mai raggiunto grandi traguardi, a leggerla nella stessa morte, che non può interrompere la perennità duratura dell’amore. Capire che il Risorto è la nostra pace significa accogliere il suo invito ad un rapporto forte e interpersonale con tutti, e sperimentare così, come dice Paolo agli Efesini che “Egli è la nostra pace, che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia … per creare in se stesso , dei due, un solo uomo nuovo …” Durante i giorni di Pasqua ho pensato intensamente all’incontro che avevo avuto con un quindicenne, venuto per la confessione. Il suo atteggiamento era totalmente negativo verso tutti gli aspetti della vita. Ho tentato di avviare un discorso, fondandolo sulla via affettiva. Mi ha interrotto gridando: “Li odio tutti, perché i miei genitori si sono separati!”. Gesù, solo lui, ha assunto su di sé tutta la disunità per fare unità. Fondiamoci sulla sua persona di Crocefisso Risorto, che ha vinto l’inimicizia Su di lui si fonda la Dichiarazione dei Patriarchi e dei Vescovi di tutte le Chiese Cristiane dell’Iraq, resa nota il 29 aprile. “Nel momento in cui l’Iraq ha voltato pagina e prende inizio un nuovo capitolo della sua vita millenaria noi, Patriarchi e Vescovi delle Chiese Cristiane dell’Iraq, spinti anche dalla pressione dei fedeli, intendiamo manifestare le nostre attese relative all’avvenire del Paese, sperando che tutto il popolo iracheno, che ha conosciuto una lunga storia segnata da sconfitte e successi, possa vivere, senza distinzione di religione o di razza, nella libertà, nella giustizia e nel rispetto della coesistenza interreligiosa e multietnica. Quando Hammurabi incise il suo codice sulla pietra di questa terra, il diritto è diventato la base dello sviluppo della civiltà. Quando Abramo ammirò il cielo di Ur, quest’ultimo gli si apri, e proprio per questa rivelazione Abramo divenne il padre d’una moltitudine di popoli. Quando il cristianesimo e l’islam si incontrarono, i loro rispettivi «santi» avviarono le due religioni a una rispettosa coesistenza reciproca. In virtù della nostra originaria appartenenza ai popoli più antichi di questa terra, rivendichiamo per noi e per tutti coloro che oggi l’abitano… di vivere a pieno titolo in uno Stato di diritto nella pace, nella libertà, nella giustizia, nell’uguaglianza…”! Crediamo e speriamo nel nome del Signore Risorto che ha fatto l’unità. In lui è la pace.
Alla luce del Vangelo di Luca, oggi la liturgia ci fa ascoltare, per la terza domenica consecutiva, l’annuncio della Pasqua: “un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho” Due sono gli aspetti della fede che ci vengono proposti: • l’identità del Risorto con il Gesù di prima della morte; • la corporeità, che dona la certezza che non si tratta di un’immaginazione, di “un fantasma”, perché mangia e si può toccare. La sua identificazione, perciò, non è alla stregua di una commemorazione storica o di un personaggio rivissuto attraverso la storia o la letteratura. Non si tratta di un mito, come riteneva la filosofia gnostica. Con la sua competenza di medico, Luca insiste sulla realtà del corpo del Signore, che non lascia spazio ad altre forme di interpretazione della sua presenza tra noi. Egli, che prepara gli Atti degli Apostoli, vuole che la loro predicazione abbia basi solide, indiscutibili. Nelle altre manifestazioni di sé, quella del Risorto appare come una presenza inafferrabile, quasi sfuggente: Maria non lo tocca, non ha esperienza tangibile di Lui, anche i due di Emmaus di questo stesso capitolo 24, lo riconoscono solo allo spezzar del pane. Qui, invece, con gli Undici, il Risorto dà un’esperienza a parte: la sua presenza è concreta, palpabile, ribadita al massimo nella sua fisicità: “toccatemi e guardate”, “carne e ossa”, ostrò loro le mani e i piedi”, “avete qualcosa da mangiare?”, “lo prese e lo mangiò davanti a loro”. Gli Undici devono essere gli Apostoli – testimoni, come appare dai diversi discorsi riferiti dagli Atti, e perciò devono fare un’esperienza particolarmente intensa, unica, di contatto con il Risorto. Sono solo gli Apostoli, che hanno avuto quest’esperienza piena e inequivocabile e hanno ascoltato le sue parole fino alla fine, che possono essere i suoi testimoni autentici e “competenti”. Lo ribadisce Pietro, nella casa di Cornelio, con questo discorso: “volle che apparisse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con Lui, dopo la sua resurrezione dai morti” (At.10,41) Si comprende il valore di questo brano, che è la conclusione del Vangelo di Luca, perché la testimonianza degli Apostoli, dovuta al loro contatto con il Risorto, sarà l’unico fondamento su cui si poggerà lo sviluppo e la solidità della fede della Chiesa, che perciò si chiama “apostolica”. “Tutti perseveravano nella dottrina degli Apostoli” (At.2,42), dice ancora Luca negli Atti. In fondo, tutto si può riassumere in poche parole: “Il Signore è veramente risorto: io lo ho visto!” Qui è il contenuto della tradizione della Chiesa, senza interruzioni nella successione apostolica, che rende tutto presente, da Pietro a Benedetto XVI, che si dilata nei Vescovi ed è la fonte della nostra certezza nella fede. A questi Undici viene donata dal Risorto la “potenza dello Spirito Santo” nella quale potranno proseguire l’opera sua “fra tutte le genti”. La forza dall’alto è la “divisa” che distingue il loro compito, forza che è la stessa posseduta da Gesù, come testimonia Marco, alla fine del suo Vangelo: “quelli se ne andarono a predicare con la cooperazione del Signore, che confermava la loro parola con i miracoli che la accompagnavano” (Mc.16,20) Quanti continuano l’opera degli Undici possono anche non suscitare la fiducia umana, ma la fede è su un altro piano. All’inizio del tempo di Cristo c’è la certezza dello Spirito Santo, la forza della grazia. Luca, ci fa ascoltare le parole dell’Angelo a Maria: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra” (Lc.1,35) All’inizio del tempo della Chiesa la promessa riguarda la comunità intera. E, come Maria avrebbe generato il Santo, il Figlio di Dio, così la Chiesa comincia, nella potenza dello Spirito, e continua in ogni tempo a generare i santi, i figli di Dio. Nella meditazione della realtà del Risorto comprendiamo che il Santo non è solo spirito, ma corpo, umanità. Quando la lettera agli Ebrei ha contemplato questa corporeità, ha cambiato una parte del Salmo 40, ha posto l’obbedienza del Figlio non nell’ ”orecchio aperto”, come era nel testo ebraico, ma nel “corpo dato”: “Tu non hai voluto né sacrificio, né offerta, un corpo invece mi hai preparato” (Eb.10) Che cosa vuol dire? La teologia della Parola diventa teologia dell’Incarnazione. L’ubbidienza viene incarnata, diventa umanità, con tutte le sue modalità faticose, umilianti, dolorose, graduali del vivere individuale e sociale. La fede, senza questa fatica, sarebbe gnostica, astratta, non cristiana. Testimoniare la resurrezione significa entrare nel gesto del Figlio, farsi sua corporeità è diventare come Gesù uno che fa entrare Dio, il Padre, nella propria carne, e poi donarla ai fratelli: “toccate e guardate”. Il corpo è il luogo della Parola. Gesù risorto rimanda dalla Parola al corpo e dal corpo alla Parola. Questa contemplazione della corporeità dove il divino si può toccare e vedere, suscita l’attenzione a tutto quello che riguarda la dignità dell’uomo. Guardiamo alla nostra città, dalla famiglia in cui si è bambini, alla scuola dove si è formati, dal lavoro dove ci si esprime, all’ospedale dove ci si spende nella sofferenza; dai luoghi di incontro dove le diversità confluiscono a quelli delle decisioni dove si organizza il bene di tutti. Dovremmo pensare bene a questa radice della corporeità del Risorto in questi giorni di responsabilità civile e politica: che significa per noi, oggi il Risorto, come ci chiede di impegnarci? Sono le domande della Pasqua.
“Sono proprio io!” Le parole rassicuranti e cariche di amicizia del Signore ai primi discepoli che provano insieme gioia e terrore, commozione e incredulità, vogliono dare certezza di Lui vivo. Luca ha lo stesso scopo con la descrizione dettagliata dell’apparizione, perché chi legge possa avere radici profonde nel credere e testimoniare, come nella prima lettura è detto di Pietro e del gruppetto degli apostoli. Questa certezza per noi, oggi, è l’intenzione della liturgia che ci invita alla meditazione e alla preghiera. Il Signore si mostra vivo in due aspetti concreti: • è veramente il Crocifisso: Colui che aveva sofferto ed era morto ora è il Vivente: “Guardate le mie mani ed i miei piedi: sono proprio io!” • non è un fantasma, un’immagine evanescente, un’illusione ottica, ma un essere umano palpabile che, quasi come una sfida che spazzi ogni dubbio, propone: “‘Avete qualcosa da mangiare?’ … lo prese e lo mangiò”. Attraverso l’evidenza della sua realtà di Risorto, Gesù conduce i discepoli ad una nuova comprensione della Scrittura: “Allora aprì la loro mente per comprendere le Scritture”. Esse avevano parlato del Servo sofferente e i discepoli certamente conoscevano quei testi, familiari al culto ebraico, letti al sabato nelle sinagoghe, ma non li comprendevano, restavano loro esterni, impediti da una visione umana, trionfalistica di Dio. Per custodire la coscienza di fede, Luca ci dice così che anche al credente può accadere che la Scrittura possa apparire come un libro non comprensibile, chiuso, se non è Gesù a spiegarlo. Il credente deve sapere che il Signore è l’oggetto e l’interprete della Scrittura, il tema e l’esegeta che la spiega. Perciò per la comunità cristiana la sua presenza è il grande dono, la grazia che permette alla fede di essere certa, perché c’è Lui a spiegare, a far crescere la Parola nel cuore e nella vita. Fino a non poter più ritenere che la croce sia “una catastrofe imprevista, ma il compimento della salvezza” (Errnst) la rivelazione dell’amore di Dio che raggiunge ogni uomo: il Risorto è il compimento pieno. Quando attraversiamo il buio delle difficoltà, quando la crudezza degli eventi ci ruba l’idea di armonia che in noi si accompagna alla fede in Dio, nella sua santità, nella sua bontà, e nella giustizia di Lui, l’accostarci umilmente alla Scrittura che parla della passione come “necessità”, questo incontro con la Parola appare come la medicina che il Risorto spalma sulle piaghe delle nostre vite, che sperimentiamo frammentate. Il suo gesto di buon samaritano, la sua voce nella solitudine a cui nessuno può arrivare, è proprio il frutto della sua presenza che si dice. Così Paolo parla di “La consolazione e la speranza che ci vengono dalle Scritture” (Rom.15,4). È il motivo per cui la Chiesa non finisce mai di leggerle e di meditarle. È lì che deve essere radicata la fede individuale e comunitaria. Per quella consolazione siamo noi consapevoli che il Risorto presente nella vita di ciascuno e di tutti è il dono d’amore di Dio, la sua iniziativa misericordiosa nel Figlio, “vittima di espiazione”, come abbiamo ascoltato nella prima lettera di Giovanni. La Croce è il perdono per tutto il mondo: questo ci viene confidato e deve essere annunciato : “di questo voi siete testimoni”. Nasce nella comunità cristiana la passione per l’annuncio della verità del Signore Risorto, testimoniato da una vita rinnovata e fedele. Il testo di Luca pone l’apparizione nel contesto dei discepoli e dei due di Emmaus mentre si scambiano reciprocamente la testimonianza della resurrezione di Gesù. Luca così suggerisce, invita a scoprire l’aggancio tra il parlarsi dei discepoli e l’apparizione, come per dire che il Risorto è presente veramente quando ci si da reciprocamente testimonianza di Lui nell’ascolto e nel servizio fraterno. Se non fosse così, la vita della Chiesa si ridurrebbe ad autoreferenzialità, non avrebbe più nulla di vitale da comunicare, non sarebbe “la consolazione”, “il conforto” dell’umanità, che ha necessità dell’annuncio del perdono, del “posso sempre ricominciare”, della resurrezione dai morti. La missione perciò non fu, dai primi tempi e per sempre, chiasso di parole, ma presenza nel mondo di umanità rinnovata, trasformata dal Risorto. Perciò nella seconda lettura Giovanni dice: “”Da questo sappiamo di aver conosciuto Gesù Cristo, se osserviamo i suoi comandamenti”. Allora la conoscenza diventa concreta e si testimonia un Cristo che è diventato esperienza, vita, che apre al suo segreto che è Dio. Oggi il Papa ha proclamato santa Caterina Volpicelli, nata il secolo scorso nel centro storico di Napoli, animata da amore e passione grande per i poveri: voleva essere popolo con il popolo, perciò le sorelle della sua congregazione vestirono con l’abito delle donne del proprio tempo e si chiamarono “signorine”. Combatté e vinse la sua battaglia, non senza fatica, come s. Giovanni Bosco, suo contemporaneo. La presenza del Signore non è nell’ambito ristretto del sacro, ma nella testimonianza quotidiana, che opera nelle strade, nei vicoli, nelle case dei poveri, dove le strutture della società non sono sufficienti ad alleviare le difficoltà. È una testimonianza quotidiana, silenziosa ed efficace, della morte e della resurrezione del Signore che si compiono in ogni credente. Dal profondo Medio Evo, un monaco, Guerrico di Igny, dice: “È più proficuo concepire Gesù nel proprio cuore che vederlo con gli occhi del corpo o sentirlo parlare, e l’opera dello Spirito Santo è molto più poderosa dei sensi dell’uomo interiore di quanto non sia l’impressione degli oggetti corporei, su quelli dell’uomo esteriore”. Chiediamo al Signore risorto la grazia di essere suoi testimoni in ogni tempo.
“Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti” Il brano del vangelo che la liturgia proclama e propone oggi è il racconto che Luca fa, al capitolo 24, dell’apparizione del Risorto agli undici e agli altri “che erano con loro” la sera stessa di Pasqua. Si stavano dicendo dell’apparizione a Pietro quando arrivarono, correndo per la gioia, i due a cui il Signore si era manifestato sulla strada di Emmaus qualche ora prima. L’intento di Gesù, nel tempo in cui si rende misteriosamente presente a loro – quando ormai la sua vita non era più una vita terrena – è quello di donare due certezze. La prima: egli è veramente il Crocifisso: “Guardate le mie mani e i miei piedi; sono proprio io!”. La seconda: egli è un vero essere umano, non un fantasma: “Toccatemi e guardate: un fantasma non ha carne ed ossa!”, confermando la concretezza delle sue parole con il mangiare davanti a loro. Parole e gesti semplici, che dicono familiarità. L’evangelista insiste sulla realtà anche fisica del corpo di Gesù per dissipare ogni incertezza nel cuore dei discepoli “sconvolti e pieni di paura” per l’istintiva sensazione di trovarsi davanti ad uno spirito, nel senso di fantasma. Questa paura è attribuita da Gesù stesso all’avere “dubbi nel cuore”. Il tanto parlare di quello che era avvenuto, il tanto parlare e discutere, non è servito ad avere certezze: il dubbio impedisce la possibilità di accettare la nuova realtà di Lui. Perciò, con amore paziente, il Signore li rende certi mostrando con dolcezza e invitando a toccare le membra del corpo trapassate dai chiodi, cicatrizzate per restare segni eloquenti della vittoria sulla morte. Ed insiste con la richiesta di qualcosa da mangiare, che “prese e mangiò”, quando ormai la gioia era piena. Luca, riferendo questa insistenza, avrà pensato ai lettori che, nel tempo, mediteranno e lotteranno per superare i momenti di dubbio che li turberanno. Lo farà anche con le parole di Pietro: “Noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua resurrezione dai morti” (Atti, 10,41). I cristiani, poi, impareranno che l’Eucarestia sarà l’incontro con il Risorto per mangiare con lui, come quel giorno della prima Pasqua che continua nella Chiesa. Mangiare è il segno della vita, della buona salute, mangiare insieme il segno della familiarità. Il Risorto, in piedi e in mezzo ai suoi, chiede questa comunione semplice, mangiare con lui che mangia con noi. Non sarà più possibile pensare o dire: “Non è qui con me, con noi”, non affidarci a Lui, dopo averlo incontrato personalmente. Al vertice dell’incontro sta l’invito a ricordare le parole dette prima della passione, che i discepoli non avevano accolte e comprese pienamente: “Bisogna – ripete – che si compiano tutte le cose scritte su di me”. E aggiunge con espressione solenne: “Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno”. “Sta scritto”: è un richiamo esplicito alla Scrittura, quell’Antico Testamento che parla di Gesù Cristo e permette di riconoscerlo nelle parole, nei gesti, nella passione e morte. Ci viene detto che il Risorto, per la potenza del suo amore e lo Spirito che dona, può aprire la mente umana e condurla alla comprensione di quanto la Scrittura ha accolto in sé, ha custodito e trasmesso. Il Signore che ha compiuto in sé quanto di Lui era stato intuito e scritto, è per conseguenza il contenuto e il pedagogo che dice al lettore la propria identità e lo rende capace di testimonianza al mondo. Se non è Lui ad illuminare le parole delle Scritture, queste appaiono disarmoniche, frammentate, rimangono esterne all’interiorità di chi cerca l’incontro con Dio. Se nella Scrittura non si incontra il Crocifisso-Risorto, essa non serve, è muta. Tutti dovremmo domandare con umiltà lo Spirito per l’intelligenza di quanto è stato scritto e accoglierlo là dove il Risorto lo ha dato, nella comunità di quelli che sono “uniti nel suo nome” (Mt,18,20). Perciò la spinta materna della Chiesa a dare uno spazio più ampio e attento alla Parola della Scrittura, a leggerla e metterla in pratica per essere autentici e testimoniarla. Quando siamo turbati dal dubbio, quando la reazione emotiva alle eventualità aspre ci condiziona fino all’abbandono delle scelte fatte in precedenza, quanto è importante specchiarsi nelle parole del Risorto: “è necessario”, “bisogna”. Le parole che Egli ha “compiuto” danno significato, più profondo di quanto l’emotività non permetta, alle eventualità che siamo chiamati a vivere. Perciò san Paolo parlerà della “perseveranza e della consolazione che vengono dalle Scritture” (Rm.15,4). È questa intelligenza che permette alla conoscenza di diventare concreta e si può testimoniare un Cristo che è diventato esperienza. È la testimonianza in cui parla la vita, che diventa fascino del Signore e attrattiva di Lui, che si spiega. Questa è la testimonianza che il vangelo ci propone, l’eventualità non subita, ma fatta avvenimento. Che si possa cogliere dalla vita che crediamo che Gesù è vivo, attuale, in mezzo ai suoi; che le sue parole sono vere, che il Vangelo è vero, e che è possibile viverlo anche nelle sue espressioni più esigenti e radicali. Il Risorto, come aveva mostrato prima della passione, chiama a testimoniare con pace e rispetto, ma con la franchezza che viene dallo Spirito, che il Vangelo è la resurrezione dell’umanità, delle tante espressioni di morte nella miseria morale, nella sfiducia verso il prossimo, nella rassegnazione alla violenza, nell’inerzia dell’impegno per il bene comune. Non chiede grandi cose il Risorto, non cose grandiose, ma l’essere portatori di verità e di pace, nella gioia e nell’ottimismo che vengono dalla certezza di Lui, di Lui con noi.