IV DOMENICA DI PASQUA – Anno B
(At 4,8-12; Sal.117; 1Gv 3,1-2; Gv 10,11-18)
Lo sfondo con l’immagine del Buon Pastore è tanto inusuale per noi quanto familiare per la gente della Palestina ai tempi di Gesù. La sera, i pastori conducevano i gruppi ad un recinto comune ad altri greggi; al mattino ogni pastore gridava il suo richiamo e le pecore – riconoscendo la voce – lo seguivano. Con questa allegoria Giovanni ci dona una descrizione della sequela di Gesù. È Lui che chiama e il discepolo gli appartiene e non riconosce altri pastori, altre guide per la propria vita. C’è un forte senso di appartenenza nell’essere pecore dietro Gesù, nella Chiesa. Il discepolo sente che Gesù è pastore “vero” perché dona la vita per le sue pecore (v.11), le conosce ad una ad una ed è conosciuto da loro (v.14). Anche oltre la soglia della morte ha compreso il travaglio interiore di Maria di Magdala e di Tommaso.
Vorrei sottolineare due cose importanti, che coinvolgono il nostro cammino spirituale.
Il dare la vita di Gesù è un atto di obbedienza al Padre, nell’amore che li vincola nell’eternità del rapporto trinitario. C’è motivo di riflessione per la nostra vita, che, nella fede, ci viene proposta come “ad immagine e somiglianza” sua. Noi, infatti, siamo portati a pensare che quanto è vissuto per obbedienza non sia compatibile con la libertà. Siamo giustamente gelosi della libertà, perché siamo legati ai diritti fondamentali dell’uomo, cosa molto importante. Ma quasi paradossalmente Gesù dice che la sua libertà – e la libertà di ciascun uomo perciò – si raggiunge nell’obbedienza alla volontà di Dio, non nel voler fare da sé. Così Gesù traccia la via per quanti lo ascoltano e lo seguono, perché imparino il suo esempio, perché, come dice Pietro nella prima lettera, “ne seguiate le orme” (1Pt.2,21), invitando a porre i passi del nostro cammino personale e di gruppo nelle orme di Gesù.
Ma Giovanni ci propone un’altra riflessione.
Il pastore che guida il suo gregge, cammina pensando alle altre pecore, che non sono nel suo ovile: “anche queste io devo condurre”. I suoi pensieri non sono chiusi, circoscritti nel cerchio di quanti già lo seguono. La sua preoccupazione va oltre, il suo sguardo è universale. È bello che abbiamo chiamato “Andare Oltre” il gruppo di animazione missionaria. Chi condivide la strada di Gesù Cristo deve sapere che il proprio cammino non può mai essere assorbito solo dal pensiero dei vicini di fede e di affetto, ma – nello stesso tempo e allo stesso titolo – dal pensiero di quanti sono altrove e non conoscono il Vangelo. La Torretta e Safà sono uguali nel suo sguardo di fede.
Ad ogni credente appartiene la responsabilità dei quattro dialoghi che Paolo VI ha fortemente indicato al nostro tempo: con i fratelli di fede cattolica; con i cristiani di altre denominazioni; con i fedeli di altre religioni; con le donne e gli uomini che non si riconoscono nella fede religiosa. Tutti appartengono al discepolo come al cuore del Buon Pastore.
Meditando la pagina del capitolo 10 di Giovanni, la Chiesa associa alla figura di Gesù, “Buon Pastore”, e all’aspirazione all’unità che lo distingue, la contemporaneità della ricerca di Lui, perchè vi siano discepoli disposti a condividere la sua esistenza e il suo stile, senza riserve. Oggi la Chiesa invita a pregare per le donne e gli uomini, religiosi e laici, disponibili a questa condivisione.
Giovanni è molto attento, fin dal primo apparire pubblico del Signore, a svelare questa sua ricerca interiore. Quando i primi due – Andrea e un altro di cui non è riferito il nome – su indicazione del Battista, gli domandarono: “dove abiti?” egli rispose: “venite e vedete”. Meglio sarebbe leggere: “venite e diventerete veggenti”, più starete con me in modo stabile e radicale, più sarete capaci di vedere, più capirete.
Il discepolato sta nell’essere visti da Lui e nel vedere con Lui. Solo chi va vicino a Lui, nella sua dimora, rimanendovi, può vedere di persona, e solo chi vede di persona può chiamare altri. Così farà Andrea con Pietro (Gv.1,41).
È la legge fondamentale della testimonianza.
Questo venire e questo vedere sarà la scuola, in ogni tempo, in cui si apprende a dare alla Parola del Signore il primato che la rende più reale di quanto non sia reale tutto quello che siamo abituati a considerare come parole reali: la statistica, la tecnica, l’opinione pubblica. Tutto diventa secondario di fronte alla Parola. Ma non è facile, perché, di fronte a questa radicalità, abbiamo paura che il Signore ci chieda più di quanto non ci sentiamo capaci di dare. Ma le difficoltà non annullano lo stile e l’iniziativa del Signore.
Le radici profetiche del considerare “a parte” la tribù di Levi, che non potrà avere in proprietà la terra, perché “Jahvè è la sua eredità” (Dt.10,9), e di Geremia, a cui è domandato il celibato (Ger.16,1) introducono da lontano l’esigenza di Gesù che propone a coloro che sceglie un itinerario altissimo e arduo, che va dall’essere “discepoli” (Gv.2.2), all’essere chiamati “amici” (Gv.15,14), fino a diventare “fratelli” (Gv.20,17), come un crescendo di amore-fiducia. Senza abbandono delle proprie cose non c’è sacerdozio vero e pieno nel cammino di conformazione al Buon Pastore. E senza donare le esigenze della propria vita fisica e affettiva, senza celibato, la disponibilità si riduce.
Questi segni di libertà e di rinuncia, nell’abbandono concreto di una terra- casa stabile, e di un proprio ambito affettivo, permettono al discepolato di raggiungere e testimoniare il suo significato primo, la verità del Vangelo. Disattendendoli, per l’esigenza di seguire le regole della vita comunemente intesa, può essere indice di parzialità nell’abitare stabilmente con il Buon Pastore.
Chi è chiamato e – al di là della propria debolezza – risponde senza riserve, conosce la verità del Salmo 16,6:
“Per me la sorte è caduta in luoghi deliziosi,
la mia eredità è magnifica
perché sei Tu; Signore, l’unico mio bene”.
Preghiamo per le vocazioni e per i chiamati, come chiedeva Agostino:
“alla carità vostra di pregare il Signore per me perché, affinché possa morire per il gregge affidatomi, morire realmente o con il desiderio”.
Ogni anno la liturgia della quarta domenica di Pasqua propone la lettura e la meditazione del capitolo 10 del vangelo di Giovanni, suddividendolo in tre brani per il ciclo triennale. L’anno scorso abbiamo letto i primi dieci versetti, nei quali Gesù si presenta come la “porta”, l’unico “pastore” vero perché inviato da Dio Padre e accreditato da Lui, come più volte raccontato dall’evangelista. L’anno prossimo i versetti 22-30 insisteranno sulla proposta di conoscere e seguire il “pastore” nella ricerca sincera della comunione profonda, di pensiero e di vita, con lui, una comunione che permetta ai discepoli di vivere alla maniera della Trinità.
La seconda parte, che leggiamo in questa domenica nei versetti 11-18, dice l’identità caratteristica del “pastore”. Gesù si autodefinisce: “Io sono il buon pastore”. Nel testo greco l’aggettivo è “kalòs”, che significa “bello”. Lo teniamo presente perché il vocabolo “buono” potrebbe indurre a fermarsi alla affettività che tanto alimenta la devozione cristiana, ma non dice tutto. “Bellezza” sta come a dire pienezza di autenticità, giustizia, bene concreto e compiuto. Forse si deve a questo se il parlare antico e popolare, in particolare a Napoli, si esprime, davanti a chi opera il bene, fa bene il suo compito, si fa vicino con premura, con l’espressione: “Quant’è bello”!
La tradizione biblica conosceva l’immagine del pastore dai tempi dei re, pensati come segni del Dio “pastore” del suo popolo e, quando i re e i responsabili delle varie forme di potere, delle istituzioni religiose e civili, tradivano il servizio del popolo, i profeti avevano reagito con espressioni durissime contro di loro. Non si trattava solo di male etico, ma il loro comportamento contraddiceva la bellezza del Dio pastore di cui il Salmo 23 aveva cantato: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla”. Dio da il potere per il servizio, non per la sopraffazione: perciò la loro ingiustizia li rendeva “brutti” agli occhi del Pastore bello! E lo costringevano ad assicurare: “Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura” (Ez.34,11).
Gesù dice: “Io sono il pastore bello”. Non è un’espressione estetica, ma la conferma della tradizione ebraica di identificare il pastore con Dio stesso: essa si “compie” nella sua persona, perciò dice: “Io sono” che è il nome di Dio. Io sono la presenza, la potenza, la premura di Dio, la sua bellezza. Questa bellezza divina è l’identità di Gesù. Ed egli la propone in due verbi, “conoscere” e “dare la vita”. La sua tensione sarà la conoscenza, nel senso di intima comunione con ogni uomo – “e ho altre pecore” dice – e il farsi conoscere come l’amico, il fratello disponibile ad offrire la propria vita per colui al quale si da a conoscere. Conoscere e dare la vita, per essere tutti insieme con lui specchio della relazione divina nel mistero della Trinità.
Gesù sta davanti ai discepoli, alla folla del suo tempo, a noi, alle donne e agli uomini del nostro tempo con questa identità che ci consegna come il punto più alto della pagina di oggi: “Per questo il Padre mi ama: io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo”. Il dono della vita coincide con la ragione per cui il Padre lo ama. In lui c’è quindi un’unità perfetta con quello che Dio gli propone, ed egli intende viverlo senza alcun interesse personale come non è, di solito, per i salariati. Perciò da la vita, cioè ama una ad una le persone che gli sono affidate, si immedesima con ciascuno, fa sue le debolezze di ciascuno. È un amore ricco di misericordia che vuole e sa aiutare tutti, anche i più deboli, con quello stile di fiducia e di interiorità che sa rendere lievi le esigenze forti del disegno di Dio su ciascuno. È un amore che contesta le categorie dei pastori “brutti”, che sono mossi dall’interesse personale, dalla ricerca di se stessi, della propria gloria, più che del bene del prossimo. Un amore che parla al cuore, che agisce nel silenzio, che punta alla comunione reciproca nell’intimo della coscienza, “il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria” (Concilio Vaticano II: Costituzione apostolica “Gaudium et spes” 16). Un amore che convince anche chi gli si sentisse estraneo, realizzando, nella gradualità del cammino di ricerca e nel rispetto dei tempi, l’anelito più nel cuore del “bel pastore”: “Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore”.
Due pilastri dell’identità di Gesù: la conoscenza reciproca e il dare la vita. Oggi riflettiamo su di essi perché siano i pilastri della nostra vita di credenti nella complessità del tempo presente.
Conoscere Gesù vuol dire ascoltare in umiltà della mente e docilità del cuore. Fa impressione la risposta del popolo all’assemblea del Sinai: “Ciò che il Signore ha detto, noi lo faremo e lo ascolteremo” (Es.24,7). Significa che la Parola di Dio non è destinata ad un ascolto esteriore, ma domanda di essere “fatta”. Oggi non è facile. Il clima culturale in cui siamo immersi non facilita la lettura, la meditazione, impedisce di fermarsi, di pensare, spinge al culto dell’efficienza.
Camminare con Gesù che dona la vita vuol dire non rifiutarsi al dialogo con la complessità e la sofferenza umana. Questo fa Gesù quando condivide la sua santità con la nostra miseria.
Tutto quello che ci avvolge, la crisi del pensiero, la crisi economica, le tensioni della politica, le difficoltà delle famiglie a restare unite nell’amore, ci dicono che o condividiamo o scompariamo.
Come credenti è il “Pastore bello” a dircelo: o condividerete la vita nella fiducia reciproca, o scomparirete.