VI DOMENICA DI PASQUA – Anno B
(At 10,25-27.34-35.44-48; Sal.97; 1Gv 4,7-10; Gv 15,9-17)
“Portare frutto” significa “rimanere inseriti nella vite”, in modo tale da poterle consentire la fecondità, sia nel singolo tralcio sia nell’insieme della pianta per la relazione reciproca tra i tralci.
La seconda parte del brano di Giovanni (15,1-17) che abbiamo iniziato a leggere domenica scorsa, sottolinea che il “diventare discepoli” dipende da un cammino di vita spirituale di relazione, di amore personale al Signore, tale che ci faccia avere “gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù”, come dice Paolo nella lettera ai Filippesi (Fil.2,5). Per sua stessa natura questo cammino implica l’amore al prossimo fino alla misura del “dare la vita”. La comunione nella fede, di adesione personale al Signore, che si esprime nel dono di sè, è il segno della maturità cristiana. È significativa la testimonianza di Ignazio di Antiochia, che mentre andava al martirio, all’inizio del secondo secolo, diceva “ora comincio ad essere discepolo”. È il segno di come la prima comunità aveva compreso il messaggio.
I versetti 9-17 sono un’interpretazione dell’invito a “portare frutto”. Quello che Giovanni, nel sesto capitolo del suo Vangelo – riferendo il discorso di Gesù sul pane di vita – aveva detto della vita che passa incessantemente dal Padre al Figlio per essere comunicata ad altri (Gv.6,57), appare come realtà presente perchè è “l’ora” dell’amore vissuto fino alla fine, l’amore che, la sera del Giovedì Santo, Gesù trasmise ai suoi discepoli, dicendo: “Vi ho dato … l’esempio, perchè, come ho fatto io, facciate anche voi” (Gv.13,15). Esso è consegnato ai discepoli nel brano che meditiamo:
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo; dare la vita per i propri amici”
Non si tratta di qualcosa di emotivo, di solo affettivo, pur se l’amore cristiano è accompagnato anche dalla ricchezza dell’affettività, ma è conseguenza del “rimanere” in Cristo, che si espande nella relazione reciproca dei credenti. In Gesù, e per conseguenza in chi è unito a Lui,l’amore nasce dall’obbedienza, l’obbedienza dall’amore: quanto più faccio quello che Gesù mi domanda, tanto più sono con lui. E questo genera nel credente la gioia, come se il Signore assicurasse, garantisse, con la propria gioia quella dei discepoli. Se vivrete il dimorare in me nella reciprocità, come io e il Padre dimoriamo l’uno nell’altro per l’obbedienza di amore, se passerete la vita ad uscire dalle chiusure dell’egoismo per amare, tanto più avrete la mia gioia. Come scrive l’Abbé Pierre:
“Questa gioia è Dio stesso. Attraverso questa giornata che con fatica hai vissuto per gli altri, per rendere un servizio ai più poveri, Dio si manifesta e ti fa gustare la sua gioia. Anche se, magari, non sai nulla di Lui, attraverso un gesto di carità e di amore, tu incontri, tu conosci Dio”.
Quando un malato, un povero, un bambino, ci chiama andiamo e riandiamo da lui senza stancarci: alla sera, anche se ci sembra di non aver costruito nulla, abbiamo ugualmente la gioia perchè abbiamo amato. Fin dai primi tempi cristiani questo brano è chiamato il “testamento” di Gesù: sono le sue ultime parole, che non possiamo dimenticare, come non dimentichiamo le ultime parole che ci dicono un padre, una madre …
La nuova condizione dei credenti è quella di “amici” di Gesù, al di là della parola “servi”, che pure nella Scrittura, dell’Antico e del Nuovo Testamento, è usata con altissima considerazione: anche Maria si dice “serva” del Signore (Lc.1,38). Il cristiano, nel Nuovo Testamento, resta sempre un “servo” nel senso del compito da vivere, del Vangelo da annunciare. Ma, dal punto di vista dell’intimità con Dio, è molto più di un servo. Nell’intenzione di chi lo chiama al discepolato non c’è tanto il servizio, ma l’amicizia. E questa va condivisa nella relazione che caratterizza l’umanità ad immagine del Dio trinitario, in ogni relazione interumana, nella famiglia, tra colleghi, nella Chiesa.
Nel testo di Giovanni si profila il pensiero del Signore come un presagio, che diventerà palese nelle parole del Risorto a Maria di Magdala:
“Và dai miei fratelli…” (Gv.20,17)
I discepoli di Gesù, figli di Dio alla sua maniera, e perciò fratelli suoi, sono chiamati ad essere fratelli tra di loro e di ogni uomo, non chiusi nel piccolo recinto della Chiesa, ma aperti al mondo. Dunque, il frutto pieno della vite è la fraternità!
È il frutto di redenzione che l’umanità attende nel silenzio sofferto di tanti, di tanti secoli e culture, e che a volte è proclamata a voce alta. È come uno sperimentare che libertà e uguaglianza contano, ma senza fraternità non c’è vita umana nella pienezza e nella gioia.
In una lettera, Seneca scriveva:
“Ho appreso con piacere che tratti familiarmente i tuoi schiavi… sono schiavi, sì, ma anche uomini; sono schiavi, sì, ma coinquilini; sono schiavi, sì, ma umili amici; sono schiavi, sì, ma anche nostri compagni di schiavitù” (Ep.47,1).
È il pensiero laico che ha sete di incontrarsi con il Vangelo. La novità del cristianesimo appaga questa attesa dell’umanità. Perciò si esprime non tanto nel piano politico-sociale, come una delega, ma a livello dei mutui rapporti interpersonali, riscoperti e rinnovati alla luce del comandamento nuovo che fonda la fraternità nella famiglia come nella chiesa, nella città come nel mondo.
Domandiamo al Signore che sia il nuovo Vescovo che il nuovo Sindaco lavorino per la fraternità. Chiediamo di essere operatori di fraternità.
“Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi”
Il vangelo si apre oggi con questa parola: “come”. “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi…” Sarebbe una profondità inaccessibile, se non fosse rivelata: c’è nel cuore di Cristo nei riguardi dell’uomo la stessa forte corrente di amore che c’è nel cuore del Padre nei riguardi del Figlio. Accogliere in sé questa corrente è inevitabilmente diventare sorgente di una espansione costante e penetrante tra fratelli, fin quando tutta la realtà creata non sia penetrata da essa e Dio non sarà tutto in tutti.
Questa è la sostanza del mistero di Cristo che la Parola annuncia e l’avvenimento morte-resurezione spiega e fa sperimentare. Per questo amore senza discontinuità tra il Padre e il Figlio, tra il Figlio e l’umanità, l’uomo è figlio di Dio, assunto all’interno di un’unica corrente di amore che circola, “all’interno di un’unica affezione”, come disse Tommaso di Aquino. Una “affezione” provata concretamente da quel “dare la vita” di cui la croce è l’evidenza. L’amore di Dio in Gesù Cristo sta al principio di ogni cosa, viene prima di ogni iniziativa umana, come scrive Giovanni nella sua prima lettera ed Agostino commenta: “non lo abbiamo amato per primi, ma ci ha amati perché lo potessimo amare”. Da questa certezza dell’amore che è “prima” nasce l’etica come urgenza di reciprocità, come possibilità personale e gioiosa di riconoscenza concreta. La concretezza si manifesta nel vivere avvenimenti e comportamenti rimanendo nell’amore. Il Signore ha amato per primo ed attende la risposta del nostro amore libero.
È qui la ragione per cui Chi è all’inizio della corrente di amore dona la libertà, ama la libertà ed attende da essa la reciprocità: “non schiavi, ma figli” sarà il nuovo dover essere di quanti sono raggiunti dalla corrente di amore. Perciò l’uscita dalla paura dello schiavo, dal fiscalismo moralistico del dovere compiuto per avere il premio e il favore, la condizione invece di quelli che il principio annunciano nel prendere l’iniziativa dell’amore: “voi siete miei amici se fate quello che io vi comando”. La Rivelazione è perciò segno di amicizia di Dio per l’uomo, essa raggiunge il suo culmine quando l’amico può rivelare all’amico i segreti del proprio cuore. S. Teresa d’Avila invita a non sopravvalutare le pratiche religiose e a godere di questo amore, dell’amicizia con Dio: nel rivelarla Gesù dice a noi la Parola che Dio ha detto nell’eternità del dialogo trinitario. I cuori diventano un cuore solo e nell’unità Cristo – discepolo, non c’è più separazione tra Dio e la creatura umana. Perciò la gioia che caratterizza il brano di Giovanni, la gioia “mia” che Gesù manifesta è dei discepoli. Questa è la radice della gioia cristiana che nulla può toglierci: come un fiore, germoglia da essa. In questi giorni un mio amico, che stava per andare verso la casa del Padre, ripeteva, pur nella sofferenza: “Grazie, grazie, grazie”. La ragione e la possibilità reale della gioia nei cuori sta prima della nostra storia e della riuscita, più o meno felice, della nostra vita.
Chi rimane nel sapersi amato immensamente dal Padre e sperimenta di essere raggiunto attraverso il Figlio presente, prova – tante volte anche in modo sensibilmente forte – la gioia di vivere abbandonati a Lui.
Dalla gioia nasce la fraternità. È il passo che chiude il cerchio della relazione perfetta tra il Padre, il Figlio e l’uomo che accoglie e diffonde la corrente d’amore.
Nel libro degli Atti – che la liturgia legge nel tempo pasquale – c’è uno spazio grande, molto denso di significato, i capitoli 10, 11 e 18, per il manifestarsi dell’universalità dell’annuncio nell’incontro tra Pietro e il centurione Cornelio. In questa domenica il racconto è stato tagliato più volte, a motivo di brevità, e ne perde in armonia… Sarebbe meglio leggerlo per intero.
L’apertura a persone provenienti dal paganesimo non appare facile. Pietro non è pronto, Cornelio, che proviene da altra cultura, romana e militare, non sente di dovere passare per la tradizione ebraica. Sono i cammini distinti di due persone, rappresentative di diverse condizioni dell’umanità, che si incontrano senza porre condizioni allo svelarsi dell’azione dello Spirito che li spinge. Scoprono la possibilità di incontrarsi fraternamente nel dialogo fino al culmine della scoperta teologale: “sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga”. È la fine, per la comunità che si prepara alla missione, di ogni preclusione etnica e culturale. A Dio preme solo il cuore dell’uomo e la sua intima apertura alla ricerca di Lui.
L’azione, inattesa per la mentalità precedente, del Signore che entra nel cuore prima che il missionario possa annunciargli il vangelo, stupisce e modifica qualsiasi atteggiamento di chiusura pregiudiziale. La pari dignità umana scoperta nel rispetto e nell’ascolto reciproco, conduce all’esperienza di una nuova fraternità, che si compone attorno all’iniziativa di Dio, che precede tutti, senza che la diversità etnica, culturale e di sensibilità religiosa possa costituire un ostacolo serio. Il rapporto con persone che vengono da nazionalità culture e fedi diverse non è opportunità politica, ma verità teologica. Nel cuore cristiano non possono esserci separazioni, preclusioni al dialogo: bisogna riconoscere di non possedere tutta la verità e mettersi in ascolto. Questa è la dinamica che ha permesso allo Spirito di entrare in Cornelio ed a Pietro di acquisire la coscienza di una nuova fraternità: di qui nasce per noi la conseguenza che il dialogo è la via cristiana ieri come oggi.
Nell’Eucarestia domandiamo al Signore il dono di comprendere la natura profonda, si direbbe divina, di questa via per riversare sul mondo di oggi l’immensa potenzialità del vangelo
Siamo amati secondo una misura divina che non è conosciuta da noi se non nei barlumi di luce che ci vengono donati, ma che Gesù ci svela, la misura del Padre nel suo rapporto eterno con il Figlio nella Trinità di Dio.
“Come il Padre ha amato me, così io ho amato voi”
Questo “come” non indica una semplice similitudine, ma un modo di essere, una continuità di atteggiamento reale, contemporaneo a ciascuno. L’evento Gesù è tutto in questo mistero d’amore, è il Vangelo, la “bella notizia”. I discepoli di Gesù hanno potuto sperimentare personalmente la sua capacità di relazione autentica, di legame in cui l’affettuosità e la disponibilità all’altro da accogliere e sostenere, così com’è, si coniugano. Quando il Maestro li invita ad amare come lui ama, sanno quello che intende dire e per farlo devono custodire la ricchezza dell’esperienza fatta.
È un affetto che si rivela nel dono della vita. Perciò la croce è il libro completamente spiegato della carità di Dio che si spende non perché forzato da una potenza esteriore, ma espressione del suo essere l’Amore che si dona. È questa rivelazione che induce Paolo a gridare: “Io vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato ed ha consegnato se stesso per me” (Gal.2,20).
Noi ci troviamo amati. “Non lo abbiamo amato per primi – scrive sant’Agostino – ma ci ha amati perché potessimo amare”.
C’è una conseguenza che riguarda la vita di ciascuno di noi, a volte preoccupati per le contraddizioni che ci umiliano e ci rendono dubbiosi. La morale cristiana nasce dall’evento dell’Amore che si rivela pienamente nella vita donata di Cristo. Questo dono all’umanità è trasparenza dell’Amore che lo ha amato dandogli tutto il suo, la sua paternità, con una radicalità che genera in lui Figlio, l’esigenza della comunione come reciprocità, come urgenza di riamare l’Amore. Nella Trinità l’Amato diventa l’Amante. Non c’è nulla di obbligato, la comunione non è il frutto dell’osservanza esteriore di una legge, di una norma, ma è l’esigenza di farsi Figlio ed esserlo in continuità perché la relazione sia pienamente reciproca.
Per i cristiani che accolgono la rivelazione del rapporto trinitario, come luce ed ideale della propria vita, l’etica è una deduzione, non una costrizione, i comandamenti non sono oppressivi, ma proposta di qualcosa che ci precede e che si comincia ad avverare nell’obbedienza libera del’amore. Perciò per prima cosa non si annuncia l’etica, ma la carità, l’Amore che è Dio. È questa che rende plausibile e praticabile l’etica, e le da il valore alto di un dono personale motivato nel riamare l’amore avuto in dono. È questa l’esperienza dei discepoli di Gesù di ogni tempo, non costretti, ma consapevoli della propria dignità e libertà, un grido di vita che, come una fonte di gioia, spinge a cogliere la diversità che dice quanto siano lontani il servile “io debbo” e il filiale “io posso”.
Scrive Ambrogio di Milano:
“Ama la libertà della fede Colui che ha donato la libertà.
Come un amico, l’uomo compie tutto quanto gli ha comandato il Signore. Sta scritto infatti: ‘voi siete miei amici, se farete quello che io comando”
Potrebbe sembrare limitativo ”dare la vita per i propri amici”. Quello che fa maggiore problema sono i nemici. Ma il Vangelo dice che “nemico” è parola che non appartiene al vocabolario di Gesù: nel suo cuore colmo di carità i nemici sono amici da amare, come dicono con chiarezza i suoi insegnamenti e i suoi esempi. I discepoli sono invitati ad entrare e a rimanere in questa diposizione. Il linguaggio del Signore non è quello del padrone con il servo; Gesù non ordina, ma “propone”. “Se vuoi” è la parola rispettosa della libertà, che sa cogliere la sensibilità e attendere la risposta.
I discepoli che sono alla scuola di Gesù, sanno che l’amore sa intuire e comprende per inclusione, per connaturalità. Perciò genera gioia profonda. Gesù ne parla e dice che la sua gioia, quella che deriva dall’essere generato dal Padre, verrà condivisa dai discepoli che fondano la propria vita nella certezza di essere stati amati. Per conseguenza sentiranno la pienezza del comandamento nuovo:
“Questo è il mio comandamento, che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi”
Questo amore deve restare!