II DOMENICA DI PASQUA – Anno B
(At 4,32-35; Sal.117; 1Gv 5,1-6; Gv 20,19-31)
In questa seconda domenica di Pasqua la liturgia ci invita a domandarci che significa per la Chiesa vivere con il Risorto, custodire la gioia della sua presenza e trasmettere ai fratelli questa gioia e questo dono. Ci propone una riflessione quasi contemplativa della realtà del Risorto nella Chiesa, realtà che è capace di mettere insieme le esperienze più diverse, la risultante di tante storie diverse.
Giovanni, nel suo Vangelo, nel riportare le parole con cui Caifa esortava il sinedrio a far morire Gesù: “È meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera”, così commenta. “Questo però non lo disse da se stesso, ma essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv.11,50-52). Dopo la notte della paura, in cui i discepoli erano fuggiti smarriti per la cattura del Maestro, il Signore Risorto, presentandosi vivo tra loro, trasmette a tutti la sua novità di vita. Erano così diversi per sensibilità, per cultura, per psicologia, ma tutti egli rinnova all’interno della irripetibile diversità del proprio cammino, della propria personalità. È necessario un tempo prolungato per meditare sulla diversità dei personaggi che nel Cenacolo ricevono il dono del Risorto. Maria di Magdala, con la sua ricchezza di affettività, di emotività; i due di Emmaus, con il loro pessimismo di fronte al futuro; Pietro, col ricordo angoscioso del suo rinnegamento; Tommaso, incapace di fidarsi dei fratelli, in così profondo contrasto con Giovanni, che invece è pieno di fiducia, nella certezza dell’amore del Signore. Tutto questo caleidoscopio di figure è unificato dalla presenza del Risorto, dalla fedeltà del suo amore. Egli ritornerà nel Cenacolo otto giorni dopo, ogni settimana. L’Eucarestia domenicale non è un capriccio della gerarchia ecclesiastica, è un dono del Risorto, la continuità della sua presenza fedele e gratuita tra noi.
Questa presenza costante del Risorto non dipende dalla profondità della fede dei discepoli. Gesù Risorto ha lui l’iniziativa dell’amore, si avvicina alle differenze di ciascuno di noi con la premura di chi conosce ogni storia e non rifiuta nei discepoli la loro povertà, la riluttanza ad accettare la necessità della croce. Nel rendersi presente egli è la pace. Fermandosi in mezzo a loro dice: “Pace a voi!”, non “La pace sia con voi”. Non è un augurio al futuro, non è un desiderio. La pace c’è perché il Signore è presente ed egli è la pace. Le situazioni non si modificano, ma la pace nasce dal nostro guardare le sue ferite: esse ci dicono che l’amore divino non si nega a nessuno, neanche a chi lo ferisce. Guardando il suo cuore trafitto non possiamo non sentirci amati da un amore senza limiti, che si lascia trapassare dalla mancanza di amore di tutti noi, senza rifiutare nessuno.
Contemplare così il Crocefisso Risorto ci fa sperimentare la gioia, caratteristica della prima comunità dei discepoli, la beatitudine della fede di quanti credono senza aver visto. La gioia dell’amore riconosciuto ed accolto, la gioia dell’appartenenza a Gesù, che ha fatto esclamare a Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”. Si tratta di un “mio”, che non sta ad indicare il possesso, ma l’appartenenza, l’appartenenza al Signore Risorto. Come ciascuno dei discepoli viva questa appartenenza secondo la diversità del proprio temperamento, il Vangelo ce lo dice indicando la diversità delle reazioni: Maria stringe i piedi di Gesù, Pietro, quando lo incontrerà sulle rive del lago, gli dirà per tre volte: “Signore, tu lo sai che ti voglio bene!”, così come Giovanni ha poggiato il capo sul suo petto.
La Chiesa nel tempo è il mistero di questa umanità, fatta di caratteristiche apparentemente contraddittorie. Stamattina il Papa ha proclamato Beati personaggi fra loro diversissimi: una suora, Maria Cristina Brando, che ha dedicato tutta la sua vita alla cura dei malati, don Giacomo Alberione, fondatore dei Paolini, religiosi impegnati nel mondo dei mass media e fra Marco D’Aviano, frate cappuccino, che, nel 1683, durante l’assedio a Vienna da parte dei turchi, esortò gli austriaci alla lotta. Le diversità possono sembrare contraddizioni, ma Gesù le mette insieme e fonda nell’amore la famiglia umana, realizzando la pace. Le differenze si compongono nella ricerca della relazione tra gli uomini: noi apparteniamo ad un Dio vivente, capace di mettere insieme i viventi, perché la sua vita è la vita dell’amore.
Il Vangelo ci mostra il Risorto che nel Cenacolo trasmette ai discepoli lo Spirito della Nuova Creazione. È lo stesso Spirito che, nella prima pagina della Scrittura, abbiamo visto alitare sulle acque, quello che il Signore alitò su Adamo. Lo Spirito che il Risorto ci trasmette dà la possibilità di relazioni nuove, da vivere nella semplicità. Siamo figli amati da Dio e dobbiamo amare tutti i figli di Dio così come ci dice Giovanni nella seconda lettura: “Chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato”.
Non si tratta di ideologia astratta, di una fraternità fatta di parole, di proclami politici. Chi crede nel Risorto presente tra noi, è immesso nella concretezza della storia a sporcarsi le mani con i poveri. Nella prima comunità cristiana, nessuno era bisognoso, perché i beni erano messi in comune. Così oggi abbiamo ascoltato nella lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli. La presenza dei poveri nella società, nel mondo è offesa della fraternità universale ed è quindi offesa del Risorto: deve essere perciò intollerabile per il credente. Si tratta di un’esigenza che oggi il Risorto ci continua a trasmettere, cui oggi dobbiamo rispondere. I fiori in questa chiesa ci ricordano la festa di ieri. Due giovani di questa parrocchia, ancora non inseriti completamente nell’attività lavorativa, hanno avuto il coraggio di chiedere a parenti ed amici di sposarsi con i poveri, davanti ai poveri, non senza i poveri. Hanno chiesto di non avere regali per loro, ma per una comunità del Terzo Mondo. Portare pace e riconciliazione nella Chiesa vuol dire condivisione dei beni nella vita. “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio”.
Ascoltiamo le parole di Dietrich Bonhoeffer. Che Dio faccia di noi uomini della sua incomparabile pace, uomini che riposano in lui, anche nel trambusto della vita. Che qualcosa della pienezza della pace, che è in noi irradi in chi non la ha. Diveniamo tutti portatori della pace che viene da Dio, donandola l’uno all’altro, lo sposo alla sposa, i genitori ai figli, il maestro ai discepoli …
Il capitolo 20 del Vangelo di Giovanni è particolarmente emozionante almeno per due motivi: innanzitutto c’è la premura del Risorto di “mostrarsi vivo” al gruppo dei discepoli perché possano custodire la certezza del suo essere restato e testimoniarlo all’umanità; e c’è contemporaneamente, come una cornice, la vicenda personale di una donna, Maria di Magdala, e di un uomo, Tommaso, vicenda di difficoltà, che è a conoscenza del Signore ed è oggetto della sua premura affettuosa in un farsi vicino personale. Ci affascina che Gesù rimanga vivo nella sua Chiesa e ci commuove che non si scandalizzi delle nostre difficoltà e non ci respinga quando siamo bloccati dal dolore come Maria o chiusi per la difficoltà di raggiungere la certezza, come Tommaso.
Tutti, più o meno frequentemente, siamo identificati in questa vicenda.
Come possiamo conoscere Gesù in modo da essere certi di Lui?
A questa domanda siamo portati a dare risposte secondo razionalità, secondo metodi scientifici. Forse la nostra è una delle epoche che più ha visto crescere l’interesse per la figura di Gesù Cristo. Ma questi tentativi sovente rivelano un’incapacità di renderlo presente e vicino, lasciando un senso di amarezza, come se appartenesse solo al passato.
Noi sappiamo che ci viene dato di conoscere veramente una persona quando raggiungiamo con essa una comunione di vita, una simpatia (nel senso più letterale), quando la persona ci interessa seriamente e cerchiamo di penetrarla per leggerla dentro, che è proprio l’intelligenza della sua realtà:
“stendi la tua mano e mettila nel mio costato”.
È così, dunque, e non solo con l’abitudine o con la devozione, che dobbiamo accostarci alla conoscenza di Gesù, guardandolo dentro.
Se lo facciamo, ci rendiamo conto che la sua identità si rivela nella sua relazione con Dio, così costante da permettergli di chiamarlo “Padre” con certezza. Allora la conoscenza di Gesù è possibile solo se si entra in questa relazione, condividendola; di fatti lui aveva detto:
“Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre mio” (Gv.6,46)
Comprendiamo che per riconoscere Gesù non basta fermarsi al pensare, allo studiare, al discutere. Occorre entrare nella sua relazione con Dio, con fiducia e amore. Uno che coltiva l’interiorità della mente e del cuore comincia ad essere uno che vede e perciò ama. E più ama, più vede.
Al punto di far dire ad un teologo dell’XI secolo a Parigi, Canonico Regolare, Ziccardo di San Vittore, che “l’amore è occhio”: è un’esperienza verificabile anche in una relazione umana. L’amore è occhio! Chi ama capisce la persona amata dal di dentro.
Perciò nella spiritualità i mistici arrivano all’inconoscibile prima degli accademici.
E amando, si assume come proprio il mondo interiore di chi si ama, quello che gli sta a cuore. Perciò non solo Cristo, ma i suoi.
Può stupire, qualche volta può anche infastidire la sensibilità individualistica, ma l’esperienza di Tommaso sta qui a dirci quanto il conoscere Gesù sia legato al fiducioso lasciarsi sostenere dalla fede dei fratelli.
Nessuno può costruire con le proprie forze il ponte sull’infinito. Nessuna voce umana è sicura al punto di poter chiamare Dio da sola. Nessuno può dire da solo chi è Dio e che cosa significa credere in Lui, come comportarsi con Lui in maniera adeguata.
Appena si tenta di farlo si diventa saccenti, e in chi cerca è come se la certezza di Lui si perdesse di nuovo nell’oceano dell’inconoscibilità. Forse qui nasce in tutti il pericolo dell’avvilimento e l’arroccamento nelle proprie attese di appagamento razionale.
Ma c’è anche la beatitudine dell’approdo, nell’accoglienza della richiesta di affidamento. Per Tommaso e per noi.
Conoscere Gesù significa condividere il suo consapevole inserimento nell’opera che Dio ha iniziata con Israele e lui compie con la Chiesa. Perché figlio di Israele, Gesù aiuta a capire la necessità del superamento della legge per fare spazio alla libertà dello Spirito, che ogni uomo potrà sperimentare in cuore.
L’errore di Tommaso, la riluttanza ad entrare veramente nel noi della comunità, può essere il nostro errore quando, per esempio, ci allontaniamo dalla Chiesa perché sembra non in grado di darci la bellezza e la santità di Dio.
Conoscere Gesù per riconoscerlo presente nei momenti sereni o drammatici dell’esistenza significa fare spazio alla sua infinita compassione per le tante piaghe dell’umanità, e diventare testimoni come egli steso domanda ai discepoli, quale impegno primario,
È la luce che ci viene donata in questa domenica pasquale.
“Mio Signore e mio Dio!”
L’espressione convinta e commossa di Tommaso sospinge la meditazione prolungata della liturgia. Nel XIII secolo, il grande teologo francescano Bonaventura diceva che ogni credente deve sostare nella trafittura del fianco del Signore per evitare che quello che è avvenuto in Gesù resti all’esterno, su di un piano e in un orizzonte diversi da quelli della vita reale, oggetto di cultura, di studio, o anche di attività nella Chiesa, ma non fonte in cui maturino le decisioni e le scelte della vita.
La liturgia ci aiuta a divenire consapevoli che i “misteri” del Signore, della sua vita, non sono raggiungibili se – per grazia – Egli stesso non viene a noi, come singoli e come collettività. Il testo dice: “venne Gesù, stette in mezzo” . Un venire ricco di doni, che porta con sé lo Spirito e il perdono, quei doni che, con parola alta e semplice, chiamiamo “pace”. Pace, la pace del Risorto, è molto più che un semplice augurio di bene, come a volte posiamo avvertire nel gesto sincero ma effimero dello stringersi la mano; è un bene spirituale, un dono interiore, la manifestazione della prontezza a fare qualcosa per colui o coloro con cui la riceviamo e la viviamo. Da essa dipende la determinazione concreta di vivere come in una reciprocità tra doni di Dio e risposta umana, altrimenti improponibile, ponendosi in continuità con il Signore, passato tra noi “sanando e beneficando”.
Così va letto quanto dice – nella prima lettura – la pagina degli Atti, in uno dei famosi sommari che sono tipici di Luca: “un cuore solo e un’anima sola” era il vivere concreto “nello Spirito” della folla di Gerusalemme che aderiva al Vangelo. – È questo il testo fondamentale ed ispiratore dei Canonici Regolari di s. Agostino. – Una tale fusione di interiorità non ammetteva diversità di esistenza che oscurasse la dignità umana redenta da Gesù Cristo, la presenza di bisognosi nella comunità di fede. Questa, rinascendo a vita nuova dal perdono, ha dentro di sé la vocazione alla fraternità concreta e visibile che vince la mentalità e l’andamento ordinario del mondo, guidato dall’individualismo economico, che produce ricchezza per alcuni e povertà per molti.
Non si tratta di una conclusione innanzitutto di ordine sociologico, ma del frutto della contemplazione della ferita nel fianco trafitto del Risorto. In essa molti Padri hanno visto l’immagine della nascita della realtà nuova, resa possibile dal sacrificio di Cristo, quella Chiesa che non sarebbe la sposa di Cristo se non puntasse alla fraternità universale. La lotta alla povertà e lo stare dalla parte dei poveri, per i cristiani, sono espressione teologica del seguire il vangelo. La fede di primi discepoli è comunione di vita con la scelta e il dono del Maestro. Così i cristiani di ogni generazione possono far proprie le parole di Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”.
Questo va colto bene nella liturgia del tempo pasquale. La verità di Cristo diventa della Chiesa e si manifesta nella dilatazione del cuore e nell’amore concreto, non tanto per il compimento e la perfezione dell’azione sociale, ma per l’espressione sacramentale della verità di Gesù che risana e benefica l’umanità intera, verità da cui prendono origine sempre nuove iniziative di fraternità.
Quello Spirito – di cui diceva Ambrogio di Milano, commentando il vangelo di Luca che presenta la premura di Maria verso Elisabetta bisognosa di assistenza: “Non tollera lentezza” – quello stesso Spirito continua ad agire in mille modi nel cuore della comunità perché il “sanando e beneficando” del Signore sia il suo atteggiamento costante. Per questo motivo profondo oggi facciamo tutto quello che possiamo per i fratelli colpiti dal terremoto. Ma custodiamo in cuore quel “nessuno tra loro era bisognoso”, domandandoci come si può attualizzare il frutto pasquale dei primi cristiani, pensare ad una vera esperienza di comunione dei beni oggi e tra noi. Gli studiosi dicono che i sistemi economici cambiano quando la cultura diventa più ampia e profonda della logica di mercato, quando l’umano vale più dell’economico.
Oggi viviamo una svolta che molti indicano come drammatica ed epocale, che però nella luce del Risorto può diventare una sfida, un’occasione. Cominciamo ad accorgerci che un’economia fondata sugli interessi individuali e sul sommarsi dei profitti “consuma” la collettività, la relazione interpersonale, il creato, e fa vivere male, sempre più male.
Nessuno sa, umanamente, come andrà a finire.
Però la comunità cristiana sa che, seguendo il Risorto, non uscendo dalla contemplazione del fianco trafitto, restando nella professione sincera della fede: “Mio Signore e mio Dio”, ci saranno vie di uscita ed opere di cuori che ogni giorno non si rassegnano di fronte agli ostacoli e si fanno protagoniste di fraternità.
Nei racconti delle apparizioni, il Risorto si mostra come il Signore assoluto, a cui “è stato dato ogni potere” (Mt,28,18). Egli vive contemporaneamente la libertà sovrana di “entrare a porte chiuse” e quella umanissima e affettuosa di considerare i discepoli come “i miei fratelli” (v.20,17), di “sedere a tavola con loro” (Lc.24,30). C’è come una tensione tra divino e umano, lontananza e vicinanza piena di calore tenero (Gv.21), che può spiegare la presenza contemporanea nei discepoli del timore che genera turbamento e della certezza che dona gioia grande.
Gesù si manifesta Figlio di Dio partecipando alla sua trascendenza irraggiungibile – “Dove vado io, voi non potete venire” (Gv.13,33) – aveva detto – entrando nel mistero del nascondimento di Dio. Egli affida la manifestazione della propria identità misteriosa “non a tutto il popolo, ma solo a testimoni da lui prescelti” (At.10,41); sceglie così di poggiare la fede dei popoli, e di quanti saranno chiamati a credere in lui, sul fondamento povero e precario della predicazione debole per l’umanità di chi annuncia, perciò considerata “scandalo e pazzia” da chi pensa Dio come il Re della potenza, e motivo di sgomento da chi deve compierla: ”Signore, chi crede alla nostra predicazione?” (Is.53,1) .
Entrando nel nascondimento di Dio trascendente, non si estranea dalla storia, ma promette “l’altro Paraclito”, lo Spirito che spiega e convince. Lo Spirito che, proprio perché del Padre e suo, confermerà il suo essere segno di contraddizione e non si affermerà in forma di autoritarismo e di polemica. Ritorna il riferimento alla libertà dell’uomo chiamato a riconoscere Dio nel mistero della sua presenza-assenza, a dialogare con Lui pur senza riconoscerlo, come dialogarono Maria di Magdala e i due di Emmaus “lungo la strada”, a cercarlo senza rassegnarsi nella fatica del combattimento spirituale, come Tommaso, che questa pagina del vangelo propone al lettore come cercatore della certezza di Dio fino al traguardo del “Signore mio e Dio mio!”: Tommaso detto Didimo, gemello: gemello, sembra dire Giovanni, di ogni uomo!
Il dono del Crocifisso-Risorto è lo Spirito Santo. Nell’apparizione ai suoi, alla sera di Pasqua, Gesù è il mediatore dell’acqua viva capace di dissetare ogni uomo, l’acqua che è in lui per la presenza dello Spirito di Dio. È lo Spirito che, nell’abisso della croce, identificato con la maledizione e il peccato, aveva sentito lontano ed aveva gridato: “Ho sete”. Nel vangelo di Giovanni la sete di Gesù in croce è simbolo della sete dello Spirito che sta nel cuore dell’uomo. Ora, nella pienezza della vita in Dio, dona lo Spirito a quanti hanno sete, nei doni della pace e del perdono. Perciò lo alita sugli apostoli. È un nuovo atto di creazione, che ricalca e porta a compimento quello della Genesi. Gesù augura “pace”, “shalom”, mostrando ai discepoli le mani e il costato trafitto, e soffia dentro di loro il Soffio della propria vita, di cui ormai la sua carne crocifissa è impregnata e grondante. Così compie il gesto dell’invio in missione, come il Padre ha inviato Lui, perché essi siano testimoni e trasmettitori della vita nello Spirito che è “vita eterna”.
Questa missione ha due pilastri: la pace e il perdono.
Il saluto di pace, ripetuto due volte, non deve essere banalizzato. Non è un “ciao” abitudinario, un “buona sera”. È la pace che il mondo non può dare, è la “sua”, quella che Gesù opera con la sua morte: Giovanni ricorda che Gesù aveva detto questo nell’Ultima Cena (Gv.14,27) e ora lega strettamente la pace e le cicatrici. L’aver conservato i segni delle piaghe, ormai gloriose nel corpo glorificato, ricorderà ai discepoli in ogni tempo che lo “shalom”, la pienezza di vita, nasce da esse. La Liturgia, oggi, invita a guardare la prima comunità a Gerusalemme, luogo da cui si irradia la straordinarietà della vita generata dallo Spirito. Ogni donna e uomo che vogliano avere pace nel cuore e pace con i fratelli, devono guardare le piaghe del Signore ed essere disposti a farle proprie.
Con la pace, il Risorto dona il perdono.
Fin dall’inizio, negli scritti del Nuovo Testamento, appare necessario che i membri della comunità cristiana, per restare fedeli all’impegno di fede, sentano l’esigenza di confrontarsi con chi è stato incaricato di custodire l’unità e confermare nella verità, di verificare l’autenticità del cammino e rafforzarsi nell’impegno di superarne ostacoli e incertezze. E necessario si rivela ancora comunicare ai fratelli il perdono ricevuto per vivere la libertà di perdonare. Gesù infatti ha pensato la Chiesa come un camminare insieme, come una comunità di fratelli che vogliano aiutarsi reciprocamente per vivere sempre meglio la Parola del Vangelo ed esserne segno, come i fratelli e le sorelle della comunità di Gerusalemme.
Il perdono ricevuto con umiltà e donato con generosità genera la pace. La pace sovente si rivela fragile e condizionata da situazioni individuali, da sofferenze familiari, da problemi non risolti armoniosamente sul piano sociale, economico e politico. Le conseguenze evidenti sono il permanere e l‘aggravarsi dell’emarginazione e l’allargamento della povertà. La pace può essere sperata e raggiunta solo se il perdono e la riconciliazione diventano regola di vita nei rapporti che siamo chiamati a vivere.