Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo – Anno B
(Dn 7,13-14; Sal.92; Ap 1,5-8; Gv 18,33-37)
Le parole di Gesù: “Il mio regno non è di questo mondo” o – usando un termine più fedele al testo greco – : “Il mio regno non appartiene a questo mondo”, esprimono sinteticamente il messaggio della festività di Cristo Re, che chiude l’anno liturgico. Molte volte, nel Vangelo di Giovanni, Gesù ha sottolineato questa non appartenenza del discepolo al mondo. Prima di congedarsi dai suoi, dopo l’Ultima Cena (Gv.17), ha pregato il Padre per i discepoli, che, pur vivendo nel mondo, non sono del mondo. Agostino ha interpretato molto bene questo concetto dicendo che il Regno di Dio è qui fino alla fine del tempo, ma non gli appartiene, perché il discepolo è nel mondo solo come pellegrino.
Non ho la pretesa di interpretare tutte le letture di questa liturgia solenne, ma di essere con voi in un servizio reciproco di comprensione.
“Se il mio regno fosse di questo mondo – dice Gesù al procuratore romano che lo interroga – i miei sudditi avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei”. Sudditi è il termine che Giovanni ha usato per indicare le guardie del Tempio in Gerusalemme. Che i sudditi combattano per il proprio signore è nella loro mentalità: Pietro, andando verso l’orto degli ulivi, aveva preso due spade. Ma, dato che il suo regno non appartiene a questo mondo, Gesù non ha sudditi. Nel corso della sua vita si è rifiutato di chiamare servi i propri discepoli. Nel capitolo 15 del Vangelo di Giovanni, Gesù ha detto loro: “Voi siete miei amici se farete ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto quello che ho udito dal Padre lo ho fatto conoscere a voi”. Ma poi quando, risorto, incontrerà Maria di Magdala vicino al sepolcro vuoto, le dirà: “… va’ dai miei fratelli…” (Gv.20,17). Il discepolo ha una relazione intima con il Signore, perciò sperimenta una sudditanza tutta particolare, fatta di unità senza riserve. Ne è immagine il rapporto matrimoniale consolidato, quando l’amore fra gli sposi è reciproco e la sudditanza non è mai potere dell’uno sull’altro, ma una crescita nella dedizione dell’uno per l’altro. Così deve essere il rapporto dei discepoli con il Maestro e fra loro: la fraternità universale è il grande sogno di Gesù.
Gesù, infatti, mostra riluttanza a riconoscersi nel termine “Re”. A Pilato che gli domanda: “Dunque tu sei re?”, risponde: “Tu lo dici, io sono re…”, ma senza convinzione e soggiunge: “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo; per rendere testimonianza alla verità”. Pronunciamo un atto di fede nei confronti di questa affermazione, che è come un filo d’oro che percorre tutto il Vangelo di Giovanni. Gesù ha piena coscienza di essere nel mondo per testimoniare la verità che è nel Padre: lo ripete, quando parla a Nicodemo (Gv.3), alle folle accorse a Gerusalemme per una festa (Gv.5), e dopo il discorso sui pani, soggiunge: “Colui che mi ha mandato è veritiero, ed io dico al mondo le cose che ho udito da lui” (Gv.8,26). Dopo l’Ultima Cena sarà particolarmente esplicito: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se conoscete me, conoscerete anche il Padre” (Gv.14,6-7). Cristo è venuto per la verità, la verità dell’amore senza limiti di Dio: il suo regno è il regno della verità, perciò la sua Parola, tutta la sua persona, sono giudizio per l’umanità.
Quando Pilato capisce la sola cosa che gli interessa, cioè che Gesù non vuole contestare il potere di Roma, si sente sollevato e chiede anche: “Che cosa è la verità?”. Egli non era in grado di capire che la vita di ciascun uomo dipende dalla sua adesione alla verità di Gesù, perché solo in lui, nel suo amore che dona tutto se stesso è la vita vera. Ma anche noi dobbiamo domandarci: questa verità che Gesù ci testimonia con la Parola e con il dono della vita, la sua volontà di renderci tutti fratelli, regna in me? Regna nella Chiesa, nel nostro mondo occidentale, nell’opulento nord? Ma se la verità regna, c’è ancora spazio per il potere dell’uomo sull’altro uomo? Giovanni fa annunciare a Pilato – con il gesto indiretto di scrivere il cartello da mettere sulla croce (Gv.19,19-22.): “Gesù Nazareno Re dei Giudei” – la grande verità: il Figlio di Dio regna sul mondo dalla croce! Nel silenzio della preghiera guardiamo a questo Re. Gesù non è potente, non ha successo né felicità: è l’uomo sconfitto, tradito, rinnegato, abbandonato, morente. Sembra il contrario di quello che consideriamo sulla terra un re. Ma è solo lui che incontriamo, quando cerchiamo il senso della vita, è il Dio che arriva dove siamo più soli, è il Dio Crocefisso, il Dio che si è fatto uguale a ciascuno di noi, e resosi uguale a noi ci fa tutti uguali.
Perciò essere dalla parte della verità del Crocefisso significa rinnegare il potere, rinnegare il culto della forza. Gesù ha detto a Pietro che le spade non servono, perciò non servono le armi, non serve la guerra preventiva, non serve oggi nessuna forma di potere. Gesù ha in cuore la dignità dell’uomo e rende uguale a sé l’ultimo degli uomini. Nella rivoluzione francese c’è una radice cristiana: “Libertà, uguaglianza, fraternità”. Gesù ci chiama alla fraternità. Noi parliamo di democrazia, di volontà popolare, di diritto. La verità del Signore che regna dalla croce ci annuncia che tutto è inutile se non è finalizzato alla fraternità fra i singoli e fra i popoli, la fraternità realizzata da Dio nel Figlio incarnato. Come abbiamo letto oggi nel libro dell’Apocalisse, egli è “l’Alfa e l’Omega”, il principio e la fine, “è il Signore Dio, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!”.
Qui siamo chiamati a riflettere sulla nostra responsabilità personale: se la mia vocazione è la verità del Crocefisso, non posso affidarmi che alla conoscenza perfetta della sua verità. La Chiesa, divenuta matura, non avrà allora più bisogno di teologia né di catechesi, ma solo di Eucarestia, di cuori donati gli uni agli altri. Qui è il Regno di Dio, non nella spettacolarità né nei successi terreni.
Che il Signore conceda alla Chiesa del nostro tempo di essere lievito per l’umanità tutta.
In questa ultima domenica dell’anno liturgico, chiediamo al Signore di aiutarci nella riflessione, nella preghiera, perché la nostra vita di fede venga arricchita.
Nella celebrazione della regalità di Cristo, Gesù non annuncia se stesso, né la Chiesa, ma il Regno di Dio. Quello che è di Dio è di Gesù e viceversa, dice Giovanni nel Quarto Vangelo (17,10). Egli vede la regalità di Gesù nell’evento della crocifissione: sulla croce Gesù regna.
Gesù non nega che il suo regno e la sua regalità coinvolgano il mondo, ma nega che appartengano al mondo. La sua regalità non è politica, perché non si serve della potenza e non fa uso della forza per difenderla; non è di origine mondana perché gli è data per salvare il mondo e portarlo a Dio: appartiene alla sfera dello Spirito, non a quella della carne. Essa è stata data al Figlio dall’eternità, nel gesto stesso della creazione, come testimonia il Prologo del Quarto Vangelo. Perciò Gesù afferma la sua regalità non nel potere, ma nella testimonianza della verità. È re universale, perché è l’unico che può dire la verità di Dio e mostrarla in sé. E perciò non potrà essere compreso se non da coloro che lo seguono come verità e gli si sottomettono nell’appartenenza fiduciosa. Così, infatti, aveva detto alla donna di Samaria: “Dio è spirito e quelli che lo adorano, devono adorarlo in spirito e verità” (Gv.4,24).
Il collegamento fra regno e verità è strettissimo.
La verità che Egli porta è il fine del regno che annuncia. E questa verità è l’amore di Dio per l’umanità tutta intera e contemporaneamente per il singolo uomo. Per questo la possibilità di essere cittadino del regno comporta “l’essere nella verità”, che significa fare spazio concreto nella vita alla verità di Gesù, adeguarsi alla sua verità, che è l’amore che serve il fratello.
Così Gesù sta davanti alla vicenda umana, che lo sottopone a processo come Colui che indica ad ogni persona che si interroga sul senso della propria esistenza e ad ogni potere creato i limiti che possono impedire la pienezza della esistenza stessa e le prospettive che si aprono quando si persegue a fatti il primato sommo della verità.
Paradossalmente, come accade più volte nel Vangelo, da destinatario del processo, Gesù ne diventa protagonista: colui che fa luce. Pilato può essere tranquillizzato sulla dimensione politica che lo angustiava. Il suo problema non dovrà essere: innocente o colpevole di sedizione?
Ora è lui che deve rispondere se segue la verità o non.
Oggi, nella domenica che conclude l’anno liturgico, il Vangelo mostra il rischio vero della vita, quello di sottrarsi alla verità. Pilato ha la sua piccola verità da portare avanti, la sua carriera, le sue aspettative… Capisce la inconsistenza delle accuse dei Giudei a Gesù, ma non riesce ad ascoltarLo e si sottrae alla verità.
La liturgia ci conduce a riflettere sulla necessità di passare, nel nostro tempo, dalle verità alla Verità.
Il cristianesimo si presenta come un’esistenza pensata, un pensiero che determina un modo di vivere. Un pensiero, però, che si lascia penetrare intimamente dalla verità rivelata, in modo che la conoscenza ne resti illuminata e incoraggiata a progredire, pure nel “rischio” di un mistero che non si spiega completamente e domanda l’adesione della fede. È- come direbbero certi autori del nostro tempo – un’intelligenza “in penombra”, che tuttavia percepisce la realtà immensa che sta dentro alla verità rivelata, alla Parola di Gesù, che perciò è capace di comprendere l’uomo, di far progredire la conoscenza. La fede non pensata non è fede adulta: l’accoglienza della verità e la ricerca fiduciosa dell’intelligenza non si possono separare. Oggi ne facciamo esperienza drammatica nei fondamentalismi, che abbandonano la fatica del conoscere, e nel soggettivismo, che identifica la coscienza con le verità piccole, quelle generate dalle emozioni, che non interpellano la verità che ci precede e rischiano di bloccarci. È proprio il nostro tempo a chiederci la ricerca e l’accoglienza della verità, che è alla base della vita sociale e morale. La separazione tra ricerca della verità e accoglienza di essa è sempre all’origine di discordia sociale e di decadenza etica.
Senza banalizzare voglio dirvi l’impressione provata proprio ieri: l’autobus aveva fatto un grande ritardo, perché le molte macchine parcheggiate lungo la strada, gli avevano impedito di procedere. Quanti avevano parcheggiato impropriamente erano certamente persone di cultura media e presumibilmente credenti: avevano avuto le loro buone ragioni per comportarsi così, ostacolando gli altri. Ma avevano tenuto conto solo delle loro piccole verità soggettive, senza curarsi della Verità più grande, che ci invita invece a ricercare il bene della comunità. Anche nella apparente piccolezza del quotidiano possiamo incontrare la riflessione che oggi ci propone la liturgia.
Si possono citare due altissimi esempi di sottomissione a Cristo verità. Agostino che, come Mosè che contempla da lontano la terra promessa, senza potervi mettere piede, sente il fascino del mistero di Dio e scrive: “dopo aver esercitato la nostra intelligenza nelle cose inferiori… vogliamo elevarci alla contemplazione della suprema Trinità che è Dio, ma non ne siamo capaci” (De Trinitate XV,6.10). È il vivere la fede nella beatitudine della povertà di spirito, che è anche umiltà della mente. È subordinare le nostre piccole verità alla Verità.
Tommaso di Aquino che, dopo aver insegnato e scritto, in un momento di straordinaria contemplazione durante la messa nella chiesa di S. Domenico Maggiore, qui, a Napoli, il 6 dicembre 1273, “non scrisse più né dettò alcunché e appese gli strumenti della scrittura” senza terminare la “Somma Teologica”. A Reginaldo, segretario e confessore, che lo esortava a proseguire, diceva: “Reginaldo, non posso… non posso, perché tutto ciò che ho scritto mi sembra paglia, rispetto a ciò che ho visto e che mi è stato rivelato” (atti del processo)
Vivere la regalità di Cristo, passando dalle verità alla Verità.
Il racconto dell’incontro storico con Pilato durante il processo a Gesù permette a Giovanni di spiegare teologicamente la regalità del Signore con una profondità che non aveva curato nel corso del quarto vangelo tanto quanto avevano fatto ripetutamente Matteo, Marco e Luca.
C’è l’affermazione che il “regno di Gesù” si identifica con il “regno di Dio”- espressione usata sia dall’Antico Testamento che dai sinottici – perché, nel pensiero di Giovanni, quello che appartiene a Dio appartiene a Gesù e viceversa. E c’è l’affermazione che il regno, che pur interessa questo mondo in esso coinvolto, non appartiene a questo mondo perché – come Gesù stesso – viene dall’alto, appartiene piuttosto al regno dello Spirito.
Giovanni, per evitare ogni possibile fraintendimento ed ambiguità, pone perciò l’accento non tanto sulla parola “regno”, che può indurre a pensare ad una situazione giuridica e politica, ma sulla parola “verità”. La regalità di Gesù si esprime in termini di testimonianza della verità. A Giovanni sta a cuore dire che la regalità di Cristo è là dove egli può annunciare la verità di Dio e mostrarla nella vita concreta. Perciò i suoi discepoli non sono ”sudditi” nel senso di un regno del mondo, ma “seguaci” che ascoltano la sua voce e accolgono la sua parola come verità e vi si adeguano mettendola in pratica. Per conseguenza, per capire che cosa significhi “regalità di Cristo”, bisogna appartenere alla verità.
La domanda, profonda e seria, che nasce dalla liturgia della regalità di Cristo, è sul nostro rapporto intimo, personale, con la verità, così come si pone nella coscienza, nelle relazioni che costituiscono il tessuto della nostra vita, nella responsabilità che deriva dall’avere avuto in dono la fede nel Dio cristiano, nei doveri che accompagnano la nostra presenza nella società. Facciamoci accompagnare dalla pedagogia di Giovanni che sposta con maestria l’attenzione dall’interrogatorio a Gesù alla domanda che viene rigirata dal Signore a chi lo sta processando. Pilato si accorge dell’innocenza giuridica di Gesù, ma non sa decidersi sul piano personale ad assumere il coraggio di proclamarla, non riesce a riconoscere la verità, e questo è il suo dramma. Ed è il dramma dell’uomo in og
ni tempo.
Il nostro tempo conosce la difficoltà dell’essere “dalla verità”, quella verità che germoglia come luce e libertà in chi si sottopone alla ricerca paziente ed umile, senza scrollarsi il peso della fatica, che porta a dire con superficialità: “La verità, che cos’è?”. Gesù che mostra la verità di Dio nell’essere processato, flagellato e crocifisso, sta davanti a ciascuno di noi come grazia di fede e misura di autenticità. Perciò non basta che la voce di Cristo sia udita dall’esterno, occorre che venga creduta interiormente, che sia amata e compiuta nelle opere. Come fanno comprendere le parole di Tommaso di Aquino:
“Siamo dalla parte della verità in quanto abbiamo ricevuto la grazia di Dio per la quale crediamo e amiamo la verità”.
L’amore per l’umanità del nostro tempo ci rende impossibile restare di fronte a Cristo in una specie di neutralità indifferente; si rischia di perderlo, di non vederlo più. Quando si è nell’amore sincero della verità e nella disposizione a viverla e a pagarla di persona, con naturalezza si avverte la bellezza della partecipazione alla sua regalità, la gioia di condividerla nella libertà. Si avverte la sua fiducia, come di chi a ciascuno affida una porzione di storia, un lembo di terra, perché vi fioriscano la dignità umana e la tenerezza dei figli di Dio.
Regno è là dove si disarma il proprio cuore, dove gli inganni sono smascherati, dove l’arroganza è valutata come negatività. Regno di Dio e nostro è là dove si sceglie di amare a fatti. Nella situazione attuale, in cui i diversi poteri, dai politici ai mediatici, da quelli dell’imbonimento consumistico a quelli delle liberazioni illusorie si impongono, ci è domandato di essere sottomessi alle esigenze della verità, portandola nelle piaghe, quelle palesi e quelle intime dell’esistenza, che allora diventa autentica, quando si esprime secondo il vangelo del Signore, e così fermenta e aiuta il cammino della storia. È un impegno che ci riguarda tutti e non può essere disatteso.
“Pertanto, fratelli, noi che abbiamo fede in Cristo, manteniamoci stabilmente nella sua parola.
Se infatti ci manteniamo saldi, aderendo alla sua parola siamo davvero suoi discepoli.
Non certo quei soli dodici, ma tutti noi che ci atteniamo alla parola di Lui, siamo davvero suoi discepoli.
E conosceremo la Verità, e la Verità ci farà liberi; ed è il Cristo Figlio di Dio, che ha detto: “Io sono la Verità” ”.
(Agostino, “Discorsi 124,5,6).
Amen!
Raccontando il processo a Gesù, Giovanni usa verbi di movimento, l’entrare e l’uscire ripetutamente di Pilato dal pretorio, come per indicare due livelli di quanto sta avvenendo, uno nel dialogo tra l’autorità romana e la folla che si accalcava all’esterno, l’altro tra il governatore e Gesù, all’interno.
Al centro di questo dialogo drammatico a tre c’è la scena con la domanda: “Sei tu il re dei giudei?” e subito dopo quella di Gesù coronato di spine, avvolto in uno straccio-mantello e deriso sarcasticamente: “Salve, re dei giudei”.
A Pilato Gesù dona la verità della propria regalità. Essa consiste nel suo impegno a far conoscere Dio al mondo, nel suo dare testimonianza di Dio come Padre che ama l’umanità, nell’attirare a sé nell’essere e nell’agire tutti quelli che sono dalla parte della verità. È un’offerta gratuita, segno essa stessa dell’amore per sempre, a chi voglia liberamente ascoltare e rendersi disponibile alla rinascita dall’alto, come Gesù stesso aveva chiesto a Nicodemo (Gv.3,5). Facciamo nostre, perciò, le parole della riconoscenza eterna: “A colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen” (Ap.1,5-6). Facciamoci desiderio di essere luogo dove Dio regna, una comunità di quelli che, aperti alla verità, rispondono alla voce di Gesù: ”vedono” ed “entrano” nel suo regno.
Pilato manifesta la sua incapacità di entrare nel pensiero del regno della verità, ma, tornando all’esterno, proclama l’innocenza di Gesù e così manifesta in se stesso la verità di Dio che lo ha raggiunto nonostante la sua incapacità di credere e di scegliere di conseguenza. Gesù infatti aveva detto: “Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli” (Mt.10,32). E questo conforta molto per tutte le nostre contraddizioni nel cammino di fede. È come aver toccato il “lembo del mantello” del Signore ed è motivo di fiducia che, per la potenza dell’amore di Dio misericordioso, la verità intera si sia fatta strada fino alla profezia inconsapevole. Pilato diventa l’annunciatore di un modo nuovo di pensare la realizzazione di ogni uomo nella verità di Cristo: annuncia che quell’uomo vilipeso e sofferente è l’uomo re, perché ama: “Ecco l’uomo”. Gesù infatti si autodefinisce come colui che viene dall’alto, che può testimoniare la realtà che Dio prepara per tutti e propone a tutti in ogni tempo. Questa è la verità da accogliere. Il sì a questa verità è il Regno.
Se Gesù dichiara che il suo regno non è di questo mondo, non è per negare il suo esistere nel mondo. Il regno è presente in modo sorprendente e strano, in una regalità “paziente”, nel senso di seguire il Re vilipeso e respinto dal rifiuto umano, in ciascuno di noi, nella Chiesa, nella società, nella cultura prevalente. La regalità avviene nell’umiliazione e nella donazione di sé. La voglia sarebbe quella del trionfo del bene, ma Gesù propone la sua via. Una persona che accetti seriamente di seguirla, nella sua obbedienza al Padre, è nel Regno, anche se nessuno se ne accorge. Perciò l’impegno per la giustizia e per la pace.
C’è in ogni tempo, tra gli stessi primi discepoli, la tendenza a pensare il regno in senso di potere politico. Ma Gesù lo rifiuta categoricamente, fino a sottrarsi all’abbraccio della folla (Gv.6,15). E c’è un’interpretazione spiritualista che ne rifiuta la presenza nel mondo, da fuggire e non da amare. E anche questo è rifiutato da Gesù, che annuncia l’amore di Dio per il mondo (Gv.3,16). Il regno di Dio non è del mondo, ma è nel mondo (Gv.17). Gesù lo ribadisce a Pilato. Si costruisce seguendo la via cristiana, e la Chiesa è al suo servizio con lo strumento prezioso della trasmissione del Vangelo e dei sacramenti. Il suo crescere è nel progresso condiviso per la giustizia e la pace, perché questa è la verità di Dio sull’uomo. Perciò “qui e ora” anche se “non ancora” attuato pienamente. Non è una dottrina, un programma da elaborare, ma è innanzitutto una persona che ha il volto di Gesù di Nazaret, da amare e seguire.
All’inizio del millennio Giovanni Paolo II ha scritto:
“Siano valorizzati e approfonditi i segni di speranza, nonostante le ombre che spesso la nascondono ai nostri occhi, i progressi realizzati dalla scienza, dalla tecnica e soprattutto dalla medicina al servizio della vita umana, il più vivo senso di responsabilità nei confronti dell’ambiente, gli sforzi per ristabilire la pace e la giustizia ovunque siano violate, la volontà di riconciliazione e di solidarietà tra i vari popoli, in particolare nei complessi rapporti tra il Nord e il Sud del mondo”
(Tertio millennio adveniente,46)
Ecco perché le parole di Gesù sul Regno non sono invito al disimpegno, ma la radice di una spiritualità di trasfigurazione del mondo e di speranza.
È quello che domandiamo nella preghiera.