XX DOMENICA T.O. – Anno B
(Pr 9,1-6; Sal.33; Ef 5,15-20; Gv 6,51-58)
È il culmine del capitolo 6 del vangelo di Giovanni, lo svelamento pieno del significato della moltiplicazione del pane. Gesù dice la sua intenzione: con il miracolo voleva annunciare una Parola che viene da Dio, dal Cielo, un Pane che occorre accogliere nella fede. Questo Pane è lui stesso. Credere a Lui vuol dire “mangiarlo”. Mangiarlo è vivere concretamente la fede. La proposta di Gesù, che supera ogni capacità umana di comprensione, e nel suo ambiente ripugnava particolarmente alla coscienza religiosa ebraica che vietava ogni contatto con il sangue, suscita resistenza e discussioni, e spesso turba anche chi vorrebbe essere disponibile al Signore. Ma Gesù insiste, ribadisce il suo insegnamento. Tutto quello che gli ebrei hanno sperimentato nella loro lunga storia, come la manna e tutti i prodigi che li hanno accompagnati nella epopea del deserto e dopo, sono stati solo segni profetici della realtà che ora si compie. È finito perciò il tempo delle figure, dei simboli. Ora è il tempo della verità, e questa è indicata come efficace con l’espressione “mangiare”, nonostante lo sconcertante senso di materialismo, dal sapore inaccettabile di antropofagia. Mangiare la sua carne e bere il suo sangue, per dire che il suo scopo è l’unione più intima con il suo Io, una relazione personale che diventa la fonte, la spiegazione di che cosa sia la vita nella fede e il fine di essa, “chi mangia me vivrà per me”. La fede non termina in qualcosa che si fa, per quanto sacra, come il partecipare alla messa e ricevere il sacramento dell’Eucarestia. La fede è credere a Qualcuno che ama immensamente colui che crede e si lascia amare da Chi si è fatto carne per dirlo a fatti. “Il conseguimento della vita, promesso a chi riceve l’Eucaristia, avviene attraverso l’unione durevole con il divino portatore di vita. La comunione con Gesù, ottenuta per mezzo della comunione sacramentale, ha unicamente lo scopo di immettere nel circolo vitale di Dio chi riceve i doni eucaristici. Non il mangiare e il bere in quanto tali è importante, ma la duratura comunione con Gesù da esso operata; il legame sacramentale diviene unione personale” (Schnackemburg) Perciò “comunione” nel senso “spirituale” e più pieno del termine, è l’immergersi in quella carità che spinge Cristo fino al modo particolarissimo del dono di sé nel segno del pane da mangiare, dove l’onni-potenza si rende onni-debolezza. E, per conseguenza di questa immersione, lasciare che lo Spirito trasformi chi “fa la comunione” in membro di Gesù nel suo corpo visibile che è la Chiesa, quella realtà che ne permette in qualche modo la presenza visibile nel tempo. E, dal momento che l’Eucaristia è il sacramento dell’amore del Signore “fino alla fine” (Gv.13.1), e perciò il sacramento della sua passione, del suo dare la vita, in chi “fa la comunione con consapevolezza e maturità di fede, produce la vita spirituale che conduce alla vita eterna, personalizzando nel credente l’itinerario del Signore, dalla croce alla resurrezione, il “passare dalla morte alla vita per l’amore ai fratelli” (1Gv. 3,14). L’Eucaristia è donata dal Signore, è Lui che la opera di persona, come dono per vivere e per morire con Lui per avere la vita per sempre e per essere portatori di vita. Un cammino dal “per” causale e al “per” finale. Gesù trasforma quanto noi offriamo, pane e vino come nelle nostre cene, in carne e sangue suo perché noi siamo Lui. È una trasfigurazione che ci riguarda personalmente e intimamente, un’azione dello Spirito che domandiamo, dopo la consacrazione, in ogni preghiera eucaristica, una responsabilità da custodire e da vivere. Puntare ad un’esistenza che abbia come ideale quello che sta nel cuore di Cristo, e cioè la fraternità umana come famiglia dei figli di Dio, è il dono che oggi la liturgia ci invita a domandare.
Due sono le proposte che Gesù fa a quanti lo circondano dopo la moltiplicazione del pane, nel grande insegnamento che il vangelo di Giovanni riporta al capitolo 6: ascoltare la sua parola per credere nel suo mistero di Figlio di Dio, mangiare la sua “carne” (Giovanni preferisce questo termine a quello di corpo”, forse perché dice meglio la fragilità umana) per avere in dono la vita che abita in lui. Come in un “crescendo”, Gesù parla descrivendo la relazione di Dio con gli uomini come una mensa sulla quale viene spezzato il pane della Parola, come ha detto il libro dei Proverbi. Ma va oltre, rompendo ogni indugio, e annuncia che l’uomo può trovare la radice e il senso della propria esistenza mangiando il suo corpo e bevendo il suo sangue. Questo nutrimento gli permetterà di “vivere per me”, come conseguenza del suo donarsi, “a causa mia” e “per me” come senso e stile di vita. Così l’uomo potrà vivere dimorando in Cristo, in una vita assimilata a quella di Lui. È una dimensione di amicizia piena che è intimità e comunione, che sarebbero impensabili senza il dono del corpo “dato”. Perciò la comunità cristiana custodisce gelosamente, come il bene più prezioso ricevuto da Dio, la mensa della Parola e quella del Corpo e del Sangue del Signore nella celebrazione dell’Eucarestia. Agostino, come sotto ispirazione, da voce a quello che Gesù gli suggerisce nell’intimo: Sono il cibo dei grandi. Cresci e mangerai di me. E non tu cambierai me in te, come il cibo della tua carne, ma sarai trasformato in me” (Conf.VII,10.16). Il brano che leggiamo e meditiamo oggi, quasi alla conclusione dell’insegnamento di Gesù, conduce a riflettere sul nostro rapporto personale con Lui vivente e presente nell’Eucarestia, sul valore misterioso e indicibile di quel momento semplice del nostro vivere cristiano che siamo abituati ad indicare con “fare la comunione”. Quale è questo valore profondo? Tutta la Scrittura parla della relazione tra Dio Creatore e l’uomo come un’incessante offerta di amicizia, a cominciare da quel suo passeggiare nel giardino alla brezza del giorno, cercando l’uomo: “Dove sei?” (Gen.3,9). È l’inizio di una catena interminabile di iniziative, di proposte a vivere una comunione profonda, nel sentire insieme che solo l’amicizia più vera e costante può permettere: Abramo è amico di Dio, Mosè è colui al quale parla “come un uomo parla al suo amico”, tutti i giusti e i pii sono “gli amici di Dio”, così pensati e desiderati da Lui. Quando la Parola si fa carne in Gesù, l’amicizia tra Dio e l’uomo si fa richiesta esplicita e diretta ad ogni interlocutore. Gesù è presentato in un costante atteggiamento di dialogo, di stima, di rinuncia ad ogni pregiudizio, di tenerezza che gioisce nel mangiare con i peccatori, nel passare una serata con una famiglia amica, nel guardare con amore il giovane desideroso di seguirlo, nel lasciarsi profumare i piedi da una prostituta, in casa di Simone il fariseo. Si direbbe che gli uomini, per il solo fatto di essere uomini, sono guardati con amicizia da Dio con gli occhi e il cuore umano di Gesù. Ma è soprattutto nei primi discepoli che si scopre l’intenzione di Gesù nel farsi mangiare e bere nell’Eucarestia. Quei primi che lo accolgono in sé sono la sua famiglia spirituale, a loro dice dopo l’ultima cena “Voi siete i miei amici” e “Non vi chiamo più servi, ma vi ho chiamato amici”. Il suo amore personale è intriso di umanità, sembra essere costantemente in attesa di reciprocità, come appare nella mitezza dell’accogliere il bacio di Giuda chiamandolo “amico” e nello sguardo di tenera vicinanza a Pietro che lo ha rinnegato ripetutamente. Un bene più grande dei peccati che ci portiamo nel cuore e nei comportamenti, che domanda solo reciprocità. Teresa d’Avila, maestra di vita interiore, insegna che la vita spirituale, la relazione con Dio, passa necessariamente attraverso la ricerca premurosa dell’amicizia con Cristo, che è Dio e uomo insieme. Perciò è molto importante non solo averlo presente come Dio, ma anche ripensarlo e sforzarsi di riviverlo nella sua esistenza e nei suoi comportamenti umani. Così non è comprensibile una vita dedicata all’amicizia con Dio che non si radichi bene nel solco dell’amore per le persone concrete. Mangiare il pane di Cristo perciò è convivialità, celebrare l’Eucarestia è fare comunità.