XXII DOMENICA T.O. – Anno B
(Dt 4,1-2.6-8; Sal.14; Giac 1,17-18.21-22.27; Mc 7,1-8.14-15.21-23)
Il sacerdote, oggi, ha pregato così con la “Colletta”, la preghiera con cui raccoglie le preghiere di tutta l’assemblea: “… Padre, fa che la lode delle nostre labbra risuoni nella profondità del cuore: la tua Parola seminata in noi santifichi e rinnovi tutta la nostra vita…”. Ognuno di noi è chiamato a custodire nella fedeltà la Parola che Dio ci ha donato: pur restando immobile essa ci fa vivere. Perciò non può degenerare diventando tradizione degli uomini, ma pulsare intimamente nel nostro cuore, come ritmo che ci dà vita.
Questa domenica segna la ripresa della nostra vita ordinaria. La liturgia di oggi – dopo le cinque domeniche consacrate al discorso sul pane di vita, nel Vangelo di Giovanni – riprende il Vangelo di Marco e, con un insieme di letture armonicamente collegate, ci aiuta ad iniziare bene il cammino. Voglio accompagnarvi in questo nuovo inizio.
La Parola, se accolta e vissuta nel concreto della nostra esistenza, permette la realizzazione visibile delle promesse di Dio. Se cerchiamo di aderirvi con tutto il cuore, la nostra vita attesterà la verità della Parola. La sua accoglienza senza riserve permette ad ogni cosa, ad ogni aspetto del nostro vivere di assumere la propria verità. Nel primo libro della Genesi è scritto che “Dio fece due luci grandi, la luce maggiore per regolare il giorno e la luce minore per regolare la notte e le stelle”. Questo linguaggio poetico dice la saggezza antica che fa comprendere così la falsità del culto del sole … oggi dell’oroscopo … Nel capitolo 32 dell’Esodo, Mosè si accende d’ira di fronte al vitello d’oro, che gli ebrei avevano costruito perché volevano un’immagine di Dio, da porre alla testa del loro esercito. Mosè non solo distrugge l’idolo, ma spiega ancora una volta che Dio non è riconducibile ad un’immagine, opera delle nostre mani, e non può camminare alla testa di un esercito … sia esso fatto di uomini a cavallo o di carri armati.
La Parola guarisce dalle patologie della fede. Credente è chi accetta la Parola che Dio ci dà, senza aggiungervi né togliervi nulla, così come abbiamo letto nel passo del Deuteronomio. Come dice Paolo nella lettera a Timoteo, anche se noi manchiamo di fedeltà nei confronti di Dio, egli resta fedele, perché non può rinnegare se stesso. La tradizione è cosa positiva se nel cuore abita la fiducia nell’amore eterno e fedele di Dio: l’intimità di amore con lui, con la sua Parola, ci permetterà allora di comprenderlo sempre meglio. Come vediamo nel passo di Marco, Gesù diffida delle tradizioni religiose, che diventano schemi ideologici, consuetudini sociali rassicuranti, come per gli ebrei le abluzioni ripetute, per noi cristiani pratiche quali i nove venerdì. Le tradizioni umane possono distogliermi dal capire quello che Dio vuole realmente per me. Anche nella malattia dobbiamo saper scorgere quale è la volontà di amore di Dio nei miei confronti.
È necessario, però, renderci conto che la Parola di Dio può raggiungerci solo attraverso le vie umane della comunicazione: essa è scritta con l’imperfezione propria di ogni scrittura umana, che necessariamente limita l’infinito di Dio. La stessa Incarnazione del Figlio nella persona storica di Gesù di Nazaret, rimpiccolisce la Parola. Spesso Gesù non fu accolto come Messia, perché era uomo concreto. Per comprendere la Parola, allora, possono essere importanti lo studio e l’intelligenza, le ricerche filologiche e storiche, ma non bastano se non sono accompagnate dall’accoglienza della Parola, nell’intimità del cuore. Non possiamo incontrare la Parola allo stato puro, perché il nostro incontro con Dio è necessariamente mediato dalle forme umane della comunicazione. Ma non dobbiamo farci condizionare dalla nostra cultura, dai nostri stati d’animo, che possono, al massimo, essere strumenti per avvicinarci alla Parola. Essa non è mai verità scontata: è impossibile presumere di averla capita. Per accoglierla sempre meglio, per viverla con fermezza, è necessario aprire sempre più il nostro cuore all’incontro con Dio, giorno dopo giorno, nella fedeltà costante. Non isolandoci, ma lasciandoci aiutare dalle comunità ecclesiale.
La Parola è sempre oltre la cultura, le categorie umane di ogni epoca storica: esse non possono contenerla mai totalmente. Gesù colloca la Parola nell’interiorità del nostro cuore ed è lì che dobbiamo cercarla, ascoltarla, perché lavori in noi e ci insegni che cosa nella vita è solo idolo umano e che cosa è invece aspirazione al bene, al divino. La fede nasce dalla fatica di questo ascolto, da una lunga lotta interiore. Le facili scorciatoie dell’emotività e dell’entusiasmo possono solo ingannarci.
Ringraziamo il Signore per tanti uomini e per tante donne che hanno accolto, accolgono la Parola e ne fanno centro propulsore della propria vita. Oggi accompagniamo alla sepoltura il Cardinale Ursi, che nella morte possiamo non chiamare più Cardinale, ma fratello. Egli ci ha guidati negli anni difficili della prima realizzazione del Concilio, proprio con la fedeltà alla Parola, tanto da proporci, una volta alla settimana, di non celebrare l’Eucarestia, ma di concentrarci sulla lettura della Parola. Egli era fermamente convinto della necessità di un suo ascolto al di là dei nostri condizionamenti umani e culturali, per divenire compagni, amici della Parola ed ospitarla nel nostro cuore per avere la vita.
Che il Signore lo accolga nella sua luce.
Per comprendere il passo del Vangelo di Marco, che oggi abbiamo letto, sarebbe utile rileggere tutto il capitolo 7. Il punto centrale del brano sta nel rimprovero che Gesù rivolge ai discepoli, che stentavano a comprendere il suo insegnamento e lo interrogavano “in una casa, lontano dalla folla”. Gesù si esprime quasi con un lamento: “così, siete anche voi senza intelletto?”, senza intelligenza verso la Parola del Signore?
La difficoltà dei discepoli permette a Marco di evidenziare il pericolo per la comunità cristiana di ricadere in una religiosità esteriore, nel nome della tradizione e dello stesso culto. Il rischio di cadere nell’attivismo religioso è come un agguato subdolo che tende a nascondere il rifiuto di convertirsi veramente: per seguire un atteggiamento esteriore, io rischio di non accogliere interiormente la Parola, di non incarnarla nella mia esistenza. L’ansia dell’osservanza delle norme esteriori può oscurare il culto vero di Dio, fino a creare danno al prossimo, come mostra l’esempio del “korban”, l’offerta sacra. Dichiarare “offerta sacra” quanto dovremmo ai nostri genitori – è detto nei versetti immediatamente successivi a quelli che abbiamo letto – può annullare il quarto comandamento. L’intenzione di Dio è che curiamo i genitori bisognosi di aiuto, non anteponendo loro la tradizione del culto o della devozione.
Marco richiama espressamente l’attenzione sulla fonte di ogni impurità: essa è nell’uomo stesso, è “dal di dentro, cioè dal cuore”. È nel cuore che, prima di tutto, bisogna convertirsi. Marco vuole aiutarci nel cammino per il culto vero di Dio: non mette in discussione espressioni dell’Antico Testamento, che sono anche del Signore, ma le vede subordinate al rinnovamento spirituale che Gesù ha portato: “Non sono venuto ad abolire la Legge e i Profeti, … ma a dare compimento” (Mt.5,17). Così leggiamo anche nel Vangelo di Matteo. Nel tempo della Riforma Calvino scriveva:
“La Legge di Dio esige severamente la purità esteriore, non perché Dio vuole che i suoi servi siano totalmente posseduti dalla Legge, ma perché essi si guardino con tanta maggiore cautela da ogni impurità spirituale”.
La tradizione è necessaria e inevitabile, è sempre più chiaramente riconosciuto anche nella chiesa della Riforma, ma deve essere sempre attenta a radicarsi nella Parola di Dio, e ad alimentarsi di essa.
In questa settimana seguiremo tante tradizioni popolari mariane, ma sapendo bene che la Chiesa non può mai identificarsi con il tradizionalismo, che tende a rendere la tradizione più importante della Parola di Dio. Se la tradizione non dovesse educare alla conoscenza di Dio, se non dovesse far nascere rapporti umani secondo il suo pensiero e il suo cuore, se non dovesse portare le persone all’unità della vita e alla trasparenza, diventerebbe un ostacolo al cammino del Signore nella storia, “introdurrebbe l’empietà sotto il nome della pietà”, come disse nel II secolo il venerabile Beda, monaco e scrittore inglese dell’VIII secolo.
Marco sembra voler sottolineare libertà e responsabilità dell’uomo: è dal cuore che nasce l’uomo vero, l’uomo maturo, l’io superiore più profondo dell’io etico, che perciò non può essere mitizzato. Nel cuore l’uomo maturo dice il suo sì al bene e si sforza di agire di conseguenza, sapendo che nel cuore possono insorgere pensieri in contrasto con quel sì: essi non vanno subiti passivamente. Ricordiamo che ognuno di noi non appartiene ancora completamente al Signore, al quale è totalmente debitore di se steso. Poco tempo fa, nel giorno del mio compleanno – ormai i miei anni sono tanti! – ho avuto coscienza che in me c’è qualcosa che non appartiene ancora completamente a Dio. Ognuno è chiamato a lasciarsi liberare dal Signore, a formarsi una coscienza di bene non da solo, ma con Lui: perché si potrebbe essere religiosi “nella illusione di se stessi”, come dice la lettera di Giacomo.
Tutti siamo chiamati al discernimento nel duplice aspetto:
- l’attenzione a non ingannarsi e a non farsi ingannare, con l’educazione a distinguere il bene dal male e a decidere per il bene, sforzandosi di resistere alla spinta sociale, che tende ad omologare sul basso, a scoraggiare ogni contraddizione;
- l’attenzione a porre nella società segni di fedeltà al Signore, puntando al suo volere, al suo parlare, allo stile del suo agire. La coscienza morale cristiana richiede attenzione alla Parola di Dio, attenzione ai fratelli, spazio, tempo, gradualità: quella che chiamiamo “vita interiore”.
“Il nostro ascoltare rappresenta la semina – diceva Agostino – mentre nell’opera abbiamo il frutto del seme” (Agostino, discorsi 23).
Per questo occorre uno sforzo di confidenza con Gesù che parla al cuore e l’impegno a legare le sue parole alle virtù morali, non in senso intimistico, ma come bene da mettere in circolazione per tutti, per la Chiesa, per la città, per il mondo.
Ora è tempo che il bene della vita, rinnovata dal Vangelo, diventi bene comune della città. Depositiamo la nostra preghiera nelle mani di Maria, di cui fra qualche giorno ricordiamo la nascita, perché il nostro sia l’impegno di una vita per la resurrezione.
Il vangelo di Marco è il più antico, un Vangelo essenziale, che racconta la vita di Gesù dal battesimo alla Ascensione in 16 capitoli: il settimo è al centro ed è posto intenzionalmente da Marco prima del viaggio di Gesù in terra pagana.
Il Signore invita a fare attenzione al rischio di contraddizione tra culto di Dio e tradizione umana; quando questa dovesse diventare precetto, dovesse essere pensata come culto a Dio, potrebbe trasformarsi in una pratica abolizione di quanto è contenuto nella parola di Lui. Gesù fa l’esempio del “korban”, la liceità accordata dalla tradizione di un voto di dedicare a Dio quello che un ebreo doveva dedicare all’assistenza dei genitori anziani. Il voto, generico, di dedicare a Dio esentava dal dovere, spesso urgente, di provvedere ai genitori. Per Gesù il servizio di Dio non è scindibile da quello degli uomini, e l’atteggiamento giusto non va individuato in scorciatoie liberatrici, perché il comandamento non è dato per il proprio tornaconto, ma per la bontà e l’amore. Chi interpreta diversamente la Scrittura abolisce la Parola di Lui
Per ribadire il suo pensiero, Gesù convoca la folla e dona – con autorevolezza di educatore: “ascoltatemi tutti e comprendere bene!” – il suo insegnamento sull’impurità. Questa non può essere determinata da influenze esterne, la sua origine va cercata dentro l’uomo. Perciò è molto più importante rivolgere l’attenzione al proprio cuore, là dove può trovare radici e salire al livello delle azioni quello che insudicia l’uomo, piuttosto che enfatizzare la purità legale. Il cuore, secondo l’antropologia biblica, è la sede del volere, dell’impegno, degli affetti. Gesù si preoccupa perciò del cuore e invita, con un elenco lungo, a considerare i possibili atteggiamenti negativi da cui i suoi discepoli dovranno guardarsi, per non essere “ipocriti”, termine che, in greco antico, indica un attore, uno che fa una commedia
I discepoli del vangelo dovranno puntare ad avere un cuore capace di far trasparire la novità della dottrina di Gesù. Questa dottrina non è nuova soltanto in senso astratto, ma porta ad atteggiamenti nuovi, che a volte non si conciliano con tradizioni e usanze. Per Gesù dire la negatività sull’adulterio è essere fedeli alla verità di Dio, ma il rapporto con l’adultera deve accantonare la paura dell’impurità legale: la novità è che la persona, agli occhi di Dio, vale più dei propri comportamenti negativi. Il discepolo deve guardare come Dio guarda. Perciò, nel secondo capitolo del vangelo di Marco, il Signore aveva parlato di vino nuovo che va in otri nuovi (Mc.2.22). Novità significa interrogarsi su ciò che è obbedienza a Dio, a Lui gradito, nel presente che ci è dato, ed agire di conseguenza, nella libertà e responsabilità dei figli. Una spiritualità centrata sulla sola osservanza materiale dei precetti è come orientata “all’indietro”, al passato. Marco presenta Gesù che, fedele alla tradizione, non guarda pauroso al dettato della legge, ma agisce confidando in Dio che è sempre nuovo e fa nuove tutte le cose con la sovrabbondanza dell’amore. Per questo lo troviamo molte volte a ribadire che il Signore ha donato la legge del sabato per amore, perché l’uomo in questo giorno riposi per il suo bene primo e partecipi al riposo suo (Eb.2): vuole un tempo per sé per renderci sempre più simili a Lui. Dice: “Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato” (Mc.2,27). È l’amore che domanda all’uomo di riposare! L’amore, che è la novità, chiede alla giustizia di essere sempre più giusta, vissuta con responsabilità individuale e con sguardo universale, per evitare i particolarismi che fanno ripiegare su di sé e rendono ciechi alla realtà. All’inizio, dice Gesù, c’è il dono di Dio Creatore, che pone l’uomo a sua immagine, accanto all’altro uomo come espressione di amicizia, capace di testimoniare fiducia, di rallegrarsi per il bene che abita in lui, al di là di ogni diversità di culture e di tradizioni, in una libertà da sé che tanto è stata fonte di angoscia per le religioni fondate sulla legge. Questa coscienza di essere dono apre il cuore dell’uomo alla parola che è nascosta nel dono, prepara il cuore alla scoperta di Colui che ha fatto offerta di sé sulla croce, pagando ogni debito (Fil.2), perché la sua novità entrasse nel cuore umano per una relazione più vera con Dio.
Guardiamo con riconoscenza l’attualità di Marco, che domanda questo atteggiamento di purificazione delle convinzioni interiori prima di incontrare l’uomo di oggi, con le sue diffidenze e i suoi rifiuti.
Domandiamo il dono della libertà e della gioia di donarsi, la grazia di vivere come figli, non oppressi dal peso di quello che “si deve” fare, ma resi leggeri e riconoscenti per quanto ci è reso “possibile”.
La vita di fede di quel raggruppamento del popolo ebraico che veniva detto dei “farisei” era contrassegnato dalla meditazione e dalla preoccupazione di praticare la Parola di Dio con esattezza nelle sempre nuove situazioni particolari perché potessero venire vissute nella fedeltà alla Legge scritta che non le aveva potute prevedere e alla tradizione dell’insegnamento orale. Perciò la casistica assorbiva i farisei come un dovere costante e li rendeva tesi a vigilare su ogni rischio di violazione delle due fonti. Da questo atteggiamento, ritenuto doveroso ed essenziale, derivava un continuo discutere e puntualizzare che da un lato era segno di vivacità culturale, ma dall’altro era fonte di moltiplicazione di prescrizioni e divieti rituali che opprimevano la gente e la rendevano sempre più separata dagli “impuri pagani”. Fariseo, dicono gli studiosi, equivaleva a dire “separato”.
Dirà san Paolo raccontando la sua storia durante il processo a Cesarea, nell’anno 60: “Come fariseo sono vissuto secondo la setta più rigida della nostra religione” (At.26,5).
Il capitolo 7 del Vangelo di Marco propone il confronto di Gesù con la tradizione di obblighi e divieti perché non si infrangesse la “purità legale” ritenuta necessaria per l’incontro con Dio. L’occasione data dal mangiare qualcosa senza aver lavato le mani, permette a Gesù di dire il suo pensiero. Così, con grande autorevolezza, concentra tutto il comportamento dei “suoi”, di quanti vogliono seguirlo in ogni tempo, nei due comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo. Le norme particolari – dice – hanno valore dal loro riferimento ai due comandamenti, perché il volere di Dio è il bene vero e concreto. Le pratiche rituali sono inutile estetismo religioso, se non favoriscono il bene della persona e i rapporti tra gli uomini. Marco già lo aveva detto: “Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato” (Mc. 2,27). Perciò Gesù contesta duramente la esteriorità religiosa, le pratiche penitenziali compiute per essere a posto e per farsi ammirare, la distinzione fra cibi e altro in “puro” e “impuro”. Niente è profano se non le azioni cattive che provengono dal cuore malvagio. “Ciò che esce dall’uomo, questo sì, contamina l’uomo”.
È una ventata di aria pura, che tira fuori dalle sacrestie e rende amici della vita. Torna il profumo buono del primo giorno della creazione: “Dio vide quanto aveva fatto ed ecco, era cosa molto buona” (Gen.1,31). Torna la libertà dell’uomo, la sua dignità di interprete di Dio, nello stupore della bellezza e bontà di ogni cosa, nel gioirne con cuore puro. Gesù ridimensiona lo stesso culto incentrato sul tempio. Dichiara che è più importante riconciliarsi con il fratello che portare offerte sacrificali all’altare (Mt.5,23), rispettare i genitori piuttosto che preoccuparsi di offrire doni votivi (Mc.7,8.13). Giunge a fare il gesto forte e drammatico della cacciata dei venditori, segno del superamento del culto emotivo e festaiolo, ne prevede e ne annuncia la distruzione come Marco riferisce: “Non rimarrà qui pietra su pietra” (Mc.13.2). È un novità profonda che si pone in continuità con quanto avevano gridato ed auspicato i profeti: non si possono imputare di permissivismo che oscuri la radicalità del primo posto di Dio, di complicità con il male, quanti sentono di dover trasferire quel posto dal luogo sacro al cuore reso puro dal desiderio di una relazione vera con Dio e dalla responsabile vigilanza sulla sempre necessaria purificazione.
Una novità che Gesù insegna quasi implorando la folla che lo circonda: “Ascoltate tutti e comprendete bene”.
Riconduce al cuore, alla dimensione dell’interiorità che il vangelo indica con l’espressione “dal di dentro”, perché è lì che sono le radici del bene. Quelle radici domandano di fiorire non tanto e non soprattutto nella fedeltà materiale alle consuetudini che non hanno un valore essenziale per la relazione con Dio, ma domandano di crescere nella reciprocità verso chi ci ha donato la vita perché le viviamo nella libertà, nella certezza di essere amati da Lui personalmente e immensamente. L’annuncio del Vangelo non va nel segno dell’oppressione della libertà, ma in quello della purezza di cuore di cui è detta la beatitudine: “Vedranno Dio” (Mt.5,9).
Oggi ci viene comunicata una certezza, che è sempre una novità: per Gesù tutto dipende dal cuore, è tutto una questione di cuore. E sua è quella aspirazione a portare ogni uomo alla trasformazione dell’intimo: “Metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne” (Ez.36,25).
Gesù ci dice, con l’affettuosità con cui si rivolge alla folla che lo attornia, che se avessimo un cuore migliore, più buono, più puro, più umile, più mite, più giusto, più disinteressato tutto sarebbe più bello.
Non lasciamo cadere il suo invito.