XXIII DOMENICA T.O. – Anno B
(Is 35,4-7a; Sal.145; Gc 2,1-5; Mc 7,31-37)
“O Padre, che scegli i piccoli e i poveri per farli ricchi nella fede ed eredi del tuo regno, aiutaci a dire la tua parola di coraggio a tutti gli smarriti di cuore, perché si sciolgano le loro lingue e tanta umanità malata, incapace perfino di pregarti, canti con noi le tue meraviglie…” La preghiera con cui oggi abbiamo iniziato la Messa è motivo conduttore di tutta la liturgia, della nostra preghiera comunitaria. Cerchiamo di entrare nella verità e nella luce della Parola che ci viene donata.
Cristo, Verbo, Parola di Dio incarnata è la realtà della Persona divina che viene per salvare tutto l’uomo e raggiunge la persona amata nella sua concretezza, nella sua negatività, per trasformare questa negatività in positività, in possibilità di bene. Ci chiama a vincere la nostra sensibilità che respinge la negatività, il difetto fisico e morale. Il contatto con la Parola che salva cambia le situazioni: la Parola accolta permette la nascita di una persona matura e luminosa, molto più luminosa di quanto non sarebbe stata se non fosse passata attraverso la negatività. Perciò il Figlio di Dio incarnato qui, in questa nostra situazione di negatività, ci dice di non guardare ad essa con orrore perché egli riserva per la persona debole e peccatrice il dono della salvezza, capace di creare un’umanità nuova.
Isaia, nella prima lettura si rivolge agli “smarriti di cuore” e annuncia la presenza di Dio capace di trasformare in positivo non solo l’umanità sofferente, ma la natura tutta. Nel Vangelo Marco ci mostra Gesù che percorre le terre alla periferia di Israele, terre di pagani. È come se oggi visitasse Scampìa o le favelas brasiliane, dove l’uomo è più povero. Il Messia sceglie i luoghi di una cultura povera, Tiro e Sidone, ove le persone non conoscono neanche a Scrittura, per dirci che egli viene per tutti. Gli ammalati che egli incontra non hanno le stesse attese dei credenti, con la loro esperienza di fede, ma Gesù non va incontro solo a quanti hanno il titolo di appartenenza alla famiglia di Dio.
Marco descrive in dettaglio l’operare di Gesù con il sordomuto: in piena sintonia con il Padre egli guarda il cielo. I suoi gesti somigliano a quelli dell’atto creatore di Dio nel primo libro della Genesi. Egli prende in disparte l’ammalato, con gesto risolutore, e coinvolge tutta la sua persona nell’incontro, lo tocca con le mani, con la sua saliva e sospira. Così alle origini lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque del caos primordiale e la luce fu. Così il pagano diventa testimone di Dio, il guarito diventa salvatore. Perché nel cuore del Signore non c’è solo guarigione, ma l’uomo guarito è salvato ed entra in un dinamismo di salvezza, che coinvolge tutti, perché tutti siano guariti e salvi.
Come abbiamo ascoltato nel Vangelo di domenica scorsa, la salvezza non viene dalla ripetizione di gesti di religiosità esteriore, nasce dal contatto della nostra vita umana con Gesù. Alla radice della creazione e della salvezza c’è l’amore. Pur nel rispetto della razionalità umana, il Vangelo ci annuncia che la razionalità più grande di Dio accoglie in sé tutto quello che è oscuro e irrazionale. Gesù non si rivela con un discorso logico, ma con i gesti di una vita umana concreta. Giovanni, nella sua prima lettera, dice di aver conosciuto Gesù perché ha creduto nell’amore. Chi crede all’amore è salvato in tutto il suo essere, senza distinzione tra anima e corpo. Tutto è presenza di Dio: nascita e morte, gioventù e vecchiaia, relazioni umane serene e difficili: il contatto con la persona di Gesù permette a tutti, ad iniziare dai più poveri, di “parlare correttamente”. La Parola non è per chi è più buono, ma è dono di Dio per ciascuno di noi e raggiunge i più poveri, i peccatori. Nella sua lettera Giacomo ci ha detto che la comunità non deve chiudersi: Gesù ci dona nuove possibilità di relazione che riguardano tutti i rapporti umani.
Un giovane amico, restato vedovo, mi diceva che non gli restava solo una fortissima nostalgia per la sposa amata, ma anche il rammarico per le volte che non la aveva resa felice… L’altro è per noi infinitamente prezioso, molto di più di quanto non possiamo immaginare, ed è importante condividere tutto con lui, cogliere tutte le possibilità di relazione positiva che ci vengono offerte.
I cristiani assai spesso hanno paura, rifiuto per il corpo. Alla vigilia della natività di Maria, donna come noi, cerchiamo di comprendere la possibilità che ci è data di vivere, con tutta la nostra persona, rapporti umani belli, limpidi e luminosi. La bellezza di Maria è all’origine della venerazione che i cristiani hanno per lei. Ella è in un rapporto strettissimo con Gesù, quel rapporto che i napoletani chiamano “carnale”. Se guardiamo alla statua, venerata nella nostra chiesa, vediamo quanto il suo rapporto con il Bambino sia intenso, strettissimo, tanto che quasi non riusciamo a capire se il piccolo Gesù sia dentro o fuori il suo corpo.
Il rapporto fra i corpi umani è espressione di massima dolcezza, di massima armonia. Gesù si relaziona all’umanità con tutto il suo corpo, col sordomuto come con la mamma sua. Qui è lo spessore e il contenuto della speranza cristiana. Tutti abbiamo la carne di Adamo e di Eva, Gesù, Maria, i poveri, gli affamati, gli emarginati di ogni continente, gli ammalati che ogni giorno, nell’Africa nera muoiono per l’AIDS che non possono curare. Tutti quelli che incontro sono miei fratelli, nella carne e nel sangue. Ognuno può incontrare il proprio vicino, prendersi cura di lui, al di là dei torti e delle inimicizie. E non c’è rapporto senza il coinvolgimento di tutta la nostra persona, nel corpo come nello spirito.
Guardiamo all’amore tutto umano che Maria dona al suo Bambino, così come scriveva, nel VI secolo una comunità siro-egiziana: tu, Maria chinavi la testa verso il tuo Bambino, i tuoi capelli lo coprivano. Egli stendeva la mano verso il tuo seno e succhiava il tuo latte. E a colui che gli angeli non osavano guardare, la Vergine diceva “Figlio mio” ed egli la chiamava “mamma mia”.
È importante per ognuno di noi lasciare che Maria ci nasca dentro.
Anche oggi leggiamo un passo del settimo capitolo del Vangelo di Marco. Domenica scorsa abbiamo ascoltato come Gesù, polemizzando con i Farisei, indicasse con autorità la necessità di curare la purezza del cuore, al di sopra dell’osservanza di tradizioni, sia pur religiose. Nei versetti successivi – non riportati dalla liturgia domenicale – Marco narra la guarigione di una ragazza. Oggi racconta un fatto di miseria umana, portato a Gesù da gente ebrea (lo capiamo perché conosce le parole di Isaia, al capitolo 35) nella terra pagana della Decapoli, territorio che non appartiene né politicamente né geograficamente alla Palestina. È il sud del Libano, che in questi giorni abbiamo conosciuto per eventi tanto dolorosi. Marco vuol dirci così la compassione del Signore per la sofferenza umana, al di là di ogni appartenenza etnica o religiosa. Anche la lettera di Giacomo, che abbiamo ora ascoltato, insegna che l’amore non deve avere preferenze: ebrei o palestinesi, asiatici o africani vanno amati allo stesso modo. Gesù si presenta come colui che vuole guarire e lo fa capire compiendo gesti rituali che erano dei numerosi “guaritori” in epoca e cultura ellenistica.
Compie questi gesti nel suo stile sobrio, “in disparte dalla folla”, senza freddezza professionale, ma coinvolgendosi intimamente con l’emozione e pregando, “guardando verso il cielo emise un sospiro”. All’uomo che gli viene presentato dice con termini dialettali, amichevoli: “Effatà”, “Apriti”, invitandolo ad aprirsi a quello che il segno miracoloso vuole dire: a Dio sta a cuore la bellezza e l’integrità della creazione e della singola creatura. Il commento della gente non è solo il ricordo di quello che Isaia aveva previsto, come abbiamo ascoltato nella prima lettura: “si apriranno gli occhi ai ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi” (Is.35,5), ma di quello che il Creatore aveva operato nel gesto della creazione “Dio vide che era cosa buona” (Gen.1,25) e opererà nel giorno del compimento finale: “Io faccio nuove tutte le cose” (Ap.21,5). C’è corrispondenza fra il primo libro della Genesi e le parole di Isaia. Nel cuore di Dio non c’è pentimento: egli vuole che ogni cosa sia ricondotta all’integrità.
“In disparte dalla folla”. È un aspetto che appartiene alla figura di Gesù, particolarmente in Marco, questo cercare il silenzio, appartandosi dalla folla, per manifestarsi, prediligendo la discrezione della parola e dei gesti, cercando il tu per tu della relazione personale e rifuggendo da ogni spettacolarità e ricerca di applausi. Marco sottolinea questo atteggiamento, mostrando Gesù quasi timoroso di rivelare il segreto della sua potenza. Quanto avveniva attraverso la sua opera era già segno di un’era di grazia, ma erano gli uomini e le donne coinvolti negli avvenimenti che dovevano trarre la conseguenza di fede in Dio, attraverso la riflessione e la libertà. Nel Vangelo non c’è mai prevaricazione della libertà umana: Gesù dice “Se qualcuno mi apre entrerò”. (Ap.3,20)
L’Evangelista vuole che la sua comunità prenda coscienza bene di chi è Gesù: il Vero e Unico, attraverso cui giungono il dono della salvezza e il compimento di quanto era stato promesso. Però Gesù può essere compreso solo nella fede, e perciò si mantiene lontano dal chiasso, rifiuta le manifestazioni oceaniche di consenso, desidera che chi lo segue guardi fino in fondo alla via della croce (8,31), e alla sua vita data per molti (10,45). Quando la Chiesa organizzò il rito del Battesimo, vi inserì il gesto della saliva che – fino alla riforma liturgica del Vaticano II – il sacerdote compiva, come per dire : “Apriti alla fede in Cristo e nel Vangelo, allo stile del suo insegnamento”.
A Roma, dove abitavano i cristiani destinatari del Vangelo di Marco, l’opposizione alla nuova religione fu rapida e cruenta. Dovettero imparare a vivere il Vangelo con una fedeltà interiore non sostenuta dal consenso esteriore, né appoggiata alla forza delle istituzioni, ma radicata nella certezza della Parola, che il Signore aveva consegnato ai primi discepoli, e alla sua presenza nella comunità, che, nell’amore scambievole, trovava la forza della mitezza e della perseveranza.
Scriveva S. Pietro:
“E se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non vi sgomentate per paura di loro, né vi turbate, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto” (1Pt.3,14-15).
Quanta attualità, oggi, nella società che si definisce “secolarizzata”. I cristiani sono sempre chiamati all’annuncio del Vangelo, ma questo annuncio non deve avvenire ad ogni costo, con ostentazione di successi o con il rimpianto dei tempi passati, che danno alla professione di fede l’aspetto del trionfalismo mediatico o quello della nostalgia di tempi che non tornano e sono irreali. Vivere quell’atteggiamento che la riflessione teologica recente chiama “l’evangelizzazione per contagio”, in questo contesto, significa, con Paolo VI “guardare con immensa simpatia al mondo perché, se anche il mondo sembra estraneo al cristianesimo, la Chiesa non può sentirsi estranea al mondo, qualunque sia l’atteggiamento del mondo verso la Chiesa”.
Ecco perché Marco vuole che i discepoli capiscano lo stile del Signore e che, custodendo gelosamente la Parola di Dio, siano testimoni di Gesù in una vita quotidiana nella “differenza cristiana”
Nell’azione di Gesù Cristo c’è la passione perla bellezza del vivere. Nella esistenza quotidiana di tutti noi vi dovrebbe essere spazio di riflessione e di impegno per una vita umanamente bella, che opera “per eventi di bellezza”, come scrive Enzo Bianchi.
Vorrei concludere con una nota mariana. Nella tradizione russa in un angolo della casa si custodiscono le icone, è “l’angolo della bellezza”. Lì c’è Maria che ha vissuto “la vita ordinaria in maniera straordinaria”. A lei chiediamo di vivere la verità del Vangelo.
Marco racconta la guarigione di un sordomuto, in terra pagana. Gesù gli dona la possibilità di udire e parlare. Così si mostra come colui che, per la potenza dell’amore che lo spinge, restituisce l’uomo alla relazione reciproca. Il suo “sospiro” dice compassione e commozione intensa davanti all’uomo infelice ed è l’espressione viva dell’umanità di Dio, nel senso della vicinanza che spinge a fare qualcosa per chi soffre.
Portare in mezzo all’umanità il volto umano di Dio appartiene all’essere della Chiesa, al suo cuore, al punto che l’indifferenza per il povero si identifica con l’indifferenza per Cristo, come ci ricorda oggi s.Giacomo, dicendoci con il suo linguaggio schietto che la fede cristiana trova la sua manifestazione concreta là dove il povero viene onorato.
Il racconto è del solo Marco, che lo colloca in terra pagana, fuori della Palestina. Guardiamo brevemente i protagonisti.
Gesù. Porta il malato in disparte e compie con gradualità gesti particolari, confidenziali, che dicono il suo amore e coinvolgono la corporeità e il linguaggio, come testimonia la parola aramaica “effatà”. Agisce in intima unione con Dio Padre, in clima di preghiera, come si intuisce dall’espressione “guardando verso il cielo” e dall’immediata attuazione della parola di guarigione. Con l’ingiunzione di non parlare di quanto è avvenuto, il Signore induce a quella che dovrà essere la logica cristiana nell’annuncio del vangelo: l’incontro con Lui dovrà avvenire per esperienza personale, non per omologazione alla massa e ai suoi umori, né per criteri anagrafici o sociologici: esistono i cristiani, non la cristianità. Così l’esperienza degli amici pagani del malato li trasforma in testimoni. Il loro stupore che si fa lode vuole attestare che Gesù riporta la creazione allo splendore descritto nei primi due capitoli del libro della Genesi, in cui Dio Creatore appare come Colui che “vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen.1,21) e lo fa realmente portando a realizzazione la profezia di Isaia: “si schiuderanno gli orecchi dei sordi … griderà di gioia la lingua del muto” (Is.35,5-6).
Il sordomuto. Una persona che non ha la relazione vera con gli altri. Chi non può ascoltare l’altro, non conosce la sua voce e la sua interiorità. E chi non può parlare non può comunicare idee e sentimenti. Questo limite terribile tante volte è superato dalla ricerca medica e tecnica, soprattutto dalla dedizione di amore di chi vive vicino a quanti lo portano in prima persona, aiutandoli ad esprimere se stessi pur nell’incapacità di farlo con l’udito e con la voce. Ma la condizione del sordomuto fa pensare alle situazioni di natura psicologica e sociale, lì dove le donne e gli uomini sono ridotti al silenzio, dove non li si lascia parlare, dove manca la stima per colui che parla fino a privarlo del coraggio di parlare per paura di venire ferito.
Gesù compie la guarigione con gradualità, nel rispetto della persona e dei suoi tempi, lontano dalla gente, dedicandosi senza fretta, per far crescere la fiducia sempre difficile in chi non può sentire quello che gli altri dicono di sé. Usa anche il contatto fisico per riconciliare il pensiero di sé con il proprio corpo, per guardare gli altri come disposti alla relazione, anche se sovente urlano sgradevolmente. L’atteggiamento affettuoso di Gesù placa la tempesta nel cuore, come sul lago: “e il vento cessò” (Mc.6,51), ed è come resurrezione della comunione tra i presenti. Forse gli avrà dato un bacio (la saliva) per togliergli la paura di parlare, che prende tanti per non essere fraintesi.
“Guardando verso il cielo”. Forse un’invocazione a Dio perché il malato guarisse, ma anche un’immagine per imparare che cosa significa per un cristiano “ascoltare” e “parlare”, che cosa dovrebbe essere un vero dialogo tra uomini credenti nel Dio Trinità, il Dio della comunicazione. Su di essi il cielo si apre, si produce un varco. Se ascolto l’altro e nella sua voce ascolto non solo le parole che dice, ma lui stesso; e se gli comunico che cosa c’è in me, allora nasce una comunione e si avverte la presenza di qualcosa che supera l’umano; sorge nella relazione umana qualcosa di divino, una presenza che dà pace e guarisce. Quello che sperimentò Agostino con la madre Monica pochi giorni dopo il battesimo di lui, e pochi giorni prima che lei morisse: ad Ostia, prima di tornare in Africa, il cielo si apriva su di loro ed era percepibile la presenza di Dio (Agostino: “Confessioni” libro IX).
“Effatà”. Ora, apriti! Dì quello che prima non hai potuto o saputo dire. È la nuova creazione possibile nello spazio di fiducia donato da Gesù. Dal malato vengono le parole che ricordano la bellezza della prima creazione, parole che raccontano e uniscono, fanno relazione. È una lezione attualissima, che ci spinge a domandare al Signore la guarigione dell’ascoltare e del parlare, feriti dalla sordità e dal mutismo, come un po’ tutti siamo.