XXV DOMENICA T.O. – Anno B
(Sap 2,12.17-20; Sal.53; Giac 3,16-4,3; Mc 9,30-37)
“O Dio, Padre di tutti gli uomini, tu vuoi che gli ultimi siano i primi e fai di un fanciullo la misura del tuo regno; donaci la sapienza che viene dall’alto, perché accogliamo la parola del tuo Figlio e comprendiamo che davanti a te il più grande è colui che serve …”. Così abbiamo pregato oggi con la Colletta, la preghiera che all’inizio della Messa esprime l’invocazione condivisa di tutta l’assemblea.
Accogliamo la parola di Gesù Maestro, mettiamoci alla sua scuola, come ci invita a fare il Vangelo di Marco, indicandoci la centralità del servizio; quel servizio all’uomo che porterà Gesù alla croce e alla morte, unica via scelta dal suo Amore per donarci la vita nuova della Resurrezione. Marco ci ha fatto ascoltare parole simili dalla bocca di Gesù per ben tre volte. La prima al capitolo 8: “E cominciò ad insegnar loro che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare”. A queste parole Pietro si era ribellato, perché non poteva accettare che il suo Maestro non percorresse la via del successo e del trionfo, ma Gesù, pur amandolo profondamente lo aveva respinto, chiamandolo Satana, perché pensava secondo la logica degli uomini, non secondo quella di Dio. Ora, al capitolo 9, Gesù ripete lo stesso insegnamento. Marco usa i verbi all’imperfetto, per indicare che si trattava di un insegnamento ripetuto: i discepoli continuano a non capire e hanno perfino timore di chiedere spiegazioni. L’annunzio viene ripetuto una terza volta al capitolo 10 (questo passo non viene letto nella liturgia domenicale) mentre Gesù camminava decisamente verso Gerusalemme, verso la sua morte, ed i discepoli lo seguivano pieni di timore. L’atteggiamento di Gesù è deciso: egli vuole realizzare sulla terra, nella storia, il cammino che il Padre gli indica: consegnarsi agli uomini con un’apertura totale e incondizionata, vuota di ogni privilegio di sé, con quell’amore senza limiti, che caratterizza il rapporto delle Tre Persone nell’unità della Vita Trinitaria. Quando i discepoli lo hanno riconosciuto Figlio di Dio, Marco ci dice che Gesù aveva loro imposto il silenzio. La sua esigenza di realizzare fino in fondo il disegno di amore del Padre era così forte che egli non voleva essere trattenuto neanche dall’affetto di quanti avrebbero potuto trattenerlo sulla via del dono totale. Ora, nel passo che abbiamo letto, vediamo che discepoli avevano timore di chiedergli spiegazioni: non volevano sentir parlare della via della croce. Essi lo seguono, ma il loro rifiuto ad accogliere questo aspetto dell’amore divino, troppo duro ed oscuro per la loro intelligenza umana, li porta a ripiegarsi su loro stessi, a rincantucciarsi sulle attese povere ed egoistiche della loro umanità: “Chi fra noi è il più grande?”. Preferiscono la gratificazione del successo personale perché temono la sofferenza, come conseguenza del dono di sé. È un timore profondamente umano che non ci deve meravigliare. Ho ascoltato una vecchia suora, che, avendo visto il Papa così sofferente ha detto: “Avrei voluto offrire la mia vita per lui, ma non lo ho fatto, perché ho avuto paura che il Signore mi prendesse sul serio e mi facesse davvero morire”…
I discepoli avevano equivocato il senso della missione del Signore. La avevano immaginata diversa, così come l’Antico Testamento aveva presentato quella di Davide: il successo mondano di un regno vittorioso sui re nemici. Ora, di fronte al Maestro, sono schiacciati dalle sue parole che contraddicono tutte le loro aspettative di gloria terrena e tacciono. Gesù, con pazienza infinita, non li rimprovera, ma li chiama a sé e, seduto, secondo la consuetudine dei maestri, toglie ogni equivoco. La logica divina del dono totale di sé, fino alla consegna della propria vita nelle mani del nemico, è totalmente altra da quella umana del privilegio, della superiorità dell’uno nei confronti dell’altro: “Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”. La lieta notizia del Vangelo è il rifiuto di ogni privilegio individualistico: l’amore di Dio è totale ed è rivolto a tutti. Gesù muore sulla croce con le braccia spalancate, che abbracciano tutta la terra. Quando si dona a noi con il pane e il vino dell’Eucarestia egli ci dice che è per tutti. Entrare nel mistero del suo amore significa aprire il proprio cuore all’umanità intera, come Maria che ai piedi della croce, diviene Madre di tutti gli uomini.
La vera grandezza è nella disponibilità a servire tutti, gratuitamente. Gesù lo insegna ponendo in mezzo ai discepoli un bambino, persona che nell’antichità non aveva diritti né privilegi, come i servi, dicendo: “Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”. Accoglie il dono della vita di amore della Trinità divina. Non solo accogliere i bambini, dirà Gesù dopo poco, ma divenire umili e semplici come bambini, privi di pretese, umili, vuoti, accoglienti. Facciamo nostro questo ammaestramento del Signore con fede, con riconoscenza, con disponibilità. Essere come Gesù significa essere uomo nel senso pieno della parola, esserlo secondo il disegno di Dio che lo ha creato perché fosse a sua immagine. Il cristianesimo ci dice che è veramente uomo chi si dona all’altro. All’inizio dell’era cristiana S. Ireneo scriveva: ” Dio si è fatto uomo, perché l’uomo potesse diventare Dio”. La vita di Dio è relazione infinita di amore, è dono totale e scambievole tra le Tre Persone: qui è anche la verità dell’uomo. Il cristianesimo è necessariamente critico nei confronti di tanti atteggiamenti della mondanità perché non può accettare mai il protagonismo. Non si tratta di moralismo. La scuola divina della Trinità mi invita ad essere sempre più dono per gli altri, perché anche gli altri sono dono per me. La diversità delle persone, delle culture, delle stesse confessioni cristiane, se accolta è una grande ricchezza. Ci apriamo così all’ecumenismo che è il grande desiderio di Gesù. Nella lettera enciclica sul nuovo millennio, Giovanni Paolo II ha scritto: la Chiesa è scuola di comunione. È questo il disegno di Dio, che risponde alle vere attese del mondo.
Da quanto siamo andati meditando segue una conclusione pratica: Dio non si rivela in un discorso astratto, ma nel volto dell’uomo. Esso solo ha importanza. Fermiamoci a contemplare i volti degli uomini, così come ce li presentano le icone dell’arte orientale, o le tante pitture dell’arte occidentale. Guardiamo accanto a noi tanti volti, visi di anziani, di giovani, di bambini … e pensiamo che in ognuno di loro c’è il volto di Dio. Viviamo le nostre attività quotidiane con un riconoscimento grato: mettiamoci al servizio di tutti, riconoscendo in ciascuno il volto di Dio. Il viso è importante, perché in ciascuno volto è l’unico viso del Figlio di Dio. Quando a Pentecoste il fuoco dello Spirito Santo discese sugli Apostoli nel Cenacolo, esso si divise in tante fiammelle: l’Amore di Dio è presente, ma in maniera diversa, unica e irripetibile in ciascun uomo. È lì che dobbiamo cercarlo per trovare Dio.
Per la seconda domenica consecutiva, oggi la liturgia ci fa ascoltare Gesù che predice la sua passione. Nel Vangelo di Marco Egli rinnova per tre volte questo annuncio, sottolineando la necessità della croce: ma è una necessità che allora come ora, i discepoli non riescono a cogliere con facilità.
Con questa seconda predizione Marco vuole orientare in modo ancora più risoluto il cammino del discepolo dietro e con Gesù verso Gerusalemme. Il Maestro appare così deciso, quasi ansioso di camminare, quasi la Galilea non fosse più capace di trattenerlo; come se il compimento fosse già in atto, già cominciato. Egli aveva un desiderio forte e appassionato di portare a compimento la missione che il Padre gli aveva dato dall’eternità: manifestare nel mondo l’amore eterno di dono, che è la vita stessa della Trinità. È uno stato d’animo ben evidenziato da Luca, che gli fa dire: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! C’è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato finché non sia compiuto!” (Lc.12,49-50). Nel vedere Gesù animato da questa decisione, i discepoli, affascinati e sgomenti nello stesso tempo, lo seguono. Hanno come il sentore che chi chiude le orecchie e cede all’angoscia rischia di restare fuori dal mistero che si andrà compiendo e, perciò, pur non comprendendo, si stringono al Signore e lo seguono.
È sempre così nella vita di fede e dovremmo ricordarlo: essere presi dalla paura della via di Dio, mettersi da parte, stare a guardare significa rischiare di essere “schizzati fuori”, estranei. La vita di fede non si fonda sulla certezza di esiti rassicuranti, ma nel restare stretti a Gesù: fidarsi e seguirlo. È una questione di amore e di unità. Il discepolo deve sapere che Gesù è maestro nell’accettazione di un disegno oscuro anche per sé. Gesù va verso un futuro che non garantisce luce né sicurezze, neanche la percezione della vicinanza del Padre: Egli è fedele alla missione affidatagli al di là di ogni rassicurazione! Perciò tutto quello che Egli dice in questo andare verso Gerusalemme, ogni sua parola, si riveste di gravità, un po’ come nel Vangelo di Giovanni le parole dopo l’ultima cena, che vennero presto definite “testamento”.
Proprio sulla strada che porta a Gerusalemme, i discepoli litigano sulla precedenza, su chi di loro fosse “il più grande”. Forse il pensiero di un’eventuale gerarchia nell’al di là, ma forse qualche tensione nei rapporti reciproci al presente, che Marco avrà registrati nella sua stessa comunità. Anche Giacomo, nel passo che abbiamo ascoltato, parla di tensioni e di liti nella comunità.
Gesù li porta “in casa”, forse quella di Pietro e di Andrea, li mette a proprio agio, perché si sentano amati e superino il mutismo del disagio, l’umiliazione di essere stati scoperti in preda alla preoccupazione di sé, mentre erano con Lui, che andava alla morte per loro. “Chiamò a sé i Dodici”: è il segno di un amore che non si blocca a motivo della paura della sofferenza, il segno di una fiducia che non viene meno perché radicata nel disegno di Dio su ciascuno, del Dio che non ritira i propri doni. Come intorno ad una cattedra amorevole ed affettuosa, i Dodici imparano quello che Marco ci trasmette: la condizione per crescere e maturare nel discepolato cristiano sta nella regola: il primo deve essere l’ultimo e il servo di tutti. Impariamo, per la nostra vita interiore, che i momenti umilianti dei nostri insuccessi di cristiani intermittenti e contraddittori sono occasione di scuola paziente del Signore che si fa “maestro interiore”, come insegna Agostino. Così è la vita interiore!
I discepoli dovranno ricordare che “servire” è una parola chiave del Vangelo (torna cinque volte nei Sinottici) e dell’esistenza cristiana. Gesù lo conferma con la scena del bambino, icona della debolezza. È un gesto concreto che tira fuori la parola “servire” dall’astrattezza generica. Siamo seguaci di Gesù quando ci interessiamo dei deboli, dei senza sicurezza, degli indifesi, dei soli …Quante persone sono sole nelle nostre città, e i danni che derivano dalla solitudine si ripetono. Ce ne accorgiamo soltanto il giorno dopo. Gesù ci dice che invece di andare alla ricerca di situazioni gratificanti, il cristiano è chiamato a dimenticarsi – anche del progresso della propria vita spirituale – ad interessarsi di chi non ha privilegi, non da lontano, ma abbracciandolo con amore, come fa il Signore con il bambino. L’episodio che Marco racconta ammonisce che anche il credente può essere preso dalla presunzione, dal “desiderio di gloria”, di prestigio, e che il dramma della croce si può ridurre ad una “devozioncella”, ad un sentimento devoto “come una poetica acqua zuccherata”, secondo le parole di Calvino.
L’esistenza che Gesù propone va contro la bramosia di onore e di potere, che è profondamente radicata in ciascuno di noi. E i suoi discepoli dovranno puntare ad essere segno di una socialità dove Dio regna nella fraternità. È una legge nuova, che cozza contro la logica umana e va assunta con responsabilità, secondo l’esortazione di Paolo: “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo” (Rom.12,2). Ogni abuso di ufficio ecclesiastico – lo affermano già le lettere del Nuovo Testamento ai primi vescovi – ogni volontà di dominio su altri gruppi culturali e religiosi, la pretesa di aver sempre ragione, l’arroganza di chi ha autorità sui più umili della comunità, porta la Chiesa ad una situazione di peccato, la singola persona al tradimento del Vangelo.
Custodiamo l’immagine del bambino.
Il bambino significa piccolo, come più volte è detto nei Vangeli: possono essere i discepoli, i missionari, i membri umili della comunità, soprattutto quelli con cui – nel capitolo 25 del Vangelo di Matteo – il Signore del giudizio finale si identifica, i bisognosi, i tribolati.
Ma forse Marco, che pure è scrittore asciutto e scarno, ha voluto mostrare nell’immagine tenera di Gesù che ama il bambino e lo stringe a sé, un atteggiamento di fiducia e di richiesta ad ogni discepolo che lo lasci parlare al cuore, a ciascuno di noi: “voi aspirate ai primi posti, ma se mi vuoi appartenere devi apprezzare quello che è piccolo, di poco conto. Io, in prima persona, incontro l’uomo nel bambino. Impara da me e seguimi!”
È una regola di vita cui si può rispondere solo nel “cuore a cuore”!
Oggi la liturgia, leggendo il vangelo di Marco, torna a mostrarci Gesù che va verso Gerusalemme e continua a parlare con profondità e confidenza ai suoi discepoli, coloro che “aveva scelto, perché stessero con lui”, perché comprendessero e condividessero la sua strada.
Lungo questa strada ancora una profezia della passione, la seconda, ancora l’incomprensione dei dodici: “essi non capivano queste parole ed avevano timore di interrogarlo”, forse per non sentirsi ripetere che non poteva essere altrimenti. A tutti capita di non voler parlare di qualcosa che incombe e si teme. C’è come una distanza che solo la purificazione della mente e la ri-creazione che lo Spirito opererà a Pentecoste potrà colmare. Il Maestro ha in mente il suo mistero di passione e di morte ed essi – nel barlume di speranza che germoglia in loro per l’annuncio della resurrezione – pensano ai posti di prestigio nel regno che il Signore promette e che immaginano come realtà socio-politica. Continua la pedagogia di Gesù, la sua pazienza nell’insegnamento della sua strada, senza innervosirsi per l’incomprensione che lo condanna alla solitudine prima che cominci il dramma: i primi a lasciarlo solo sono i suoi.
Approfondiamo nella preghiera il mistero della nostra incomprensione.
“Non capivano… avevano timore…”
L’imperfetto indica uno stato d’animo prolungato, perdurante, Marco lo rivelerà ancora al capitolo 16, dopo la resurrezione (Mc.16.11).
Erano discepoli, avevano lasciato tutto per seguire Gesù, perché non capivano? Erano ebrei, perché non ricordavano le tante espressioni dei salmi e dei profeti sul servo di Dio che deve pagare di persona e non badare a se stesso, ma dedicarsi al servizio? Perché la fede credente e celebrata non diventava cultura ed essi continuavano a sognare e a programmarsi come gente che conta? Perché questo imperfetto dura nell’oggi dei credenti con una sorta di remissività, frutto di assuefazione e di omologazione che ci rende figli della mondanità piuttosto che del vangelo?
Gli interrogativi si pongono e coinvolgono il nostro presente.
Ha detto il Papa il 12 settembre, durante l’ordinazione di cinque vescovi:
“La fedeltà è altruismo e proprio così è liberatrice per il ministro stesso e per quanti gli sono stati affidati. Sappiamo come le cose nella società civile e, non di rado, nella chiesa, soffrono per il fatto che molti di coloro, ai quali è stata affidata una responsabilità, lavorano per se stessi e non per la comunità, per il bene comune”
La riflessione ci riguarda.
I discepoli, dice Gesù con mitezza e pazienza, ma senza attenuazione della sua logica, non devono pensare in funzione di sé, ma devono prevenire e servire reciprocamente, e insieme devono dedicarsi a quanti, come bambini incolpevoli e indifesi, portano in se stessi i segni della debolezza umana.
Bisognerebbe meditare con attenzione i particolari del racconto di Marco nella scena del bambino, così dettagliati pur nella concisione del suo linguaggio, : “preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: ‘chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato’”. Verità e tenerezza si fondono nel cuore e nei gesti di Gesù ed egli è il vangelo in persona.
Nello sforzo di purificazione da ogni strumentalizzazione, di servirsi dei doni ricevuti, a cominciare dalla fede, nella ricerca di primati su chi è più debole ed appare meno ricco di doti, nell’impegno di dedizione tenera verso chi è portatore di debolezza, qui sta il dover essere dei discepoli che ascoltano Gesù direttamente, e di quelli che verranno nel tempo della Chiesa.
Questa, infatti, non dovrà e non potrà vivere per il proprio prestigio, non dovrà avere particolari riguardi per chi nel mondo ha particolare riguardo a motivo di un’altra logica, non quella di Gesù.
Marco sembra dirci che, se non fiorisce nel cuore dei credenti la premura per la debolezza umana, non si capirà mai l’invito di Gesù a donare la vita. Perciò ripete per ben quattro volte, come un ritmo il verbo “accogliere”.
La Chiesa, nascendo e rinascendo nel contatto con il Signore per la preziosità dell’Eucarestia, dovrà sempre invitare i suoi figli a guardarsi intorno, a riconoscere, a gioire e ringraziare per tutta la premura che viene spesa ogni giorno sui fronti più diversi da donne e uomini che accolgono e, in qualche modo, comprendono il mistero di Gesù e lo testimoniano concretamente nella premura tenera verso la debolezza umana, pur non appartenendo esplicitamente al suo ambito. In loro opera la vera “sapienza”, il loro atteggiamento, evangelico a fatti, è segno di progresso del Regno di Dio.
È esigenza che viene dall’alto e induce a fare opere di pace.
Chiediamo il dono di capire la via di Gesù.
Ringraziamo per quanti ne scoprono la bellezza e la vivono.
Preghiamo per una vita fraterna che sia la casa di tutti.
Marco vuole ribadire la necessità di riflettere bene su quello che Gesù dice di sé e del futuro che lo attende. L’idea di un salvatore che patisce e che muore fa fatica ad essere accettata, perciò il Signore ne parla ripetutamente e in maniera sempre più mirata al gruppo dei più intimi che vuole formare secondo la “Sapienza che viene dall’alto”.
Se la loro formazione graduale urta contro la persistente difficoltà a comprendere la croce come un bene, nei tempi e nei modi in cui “dall’alto” viene chiesto di prenderla e portarla con fiducia, chi accoglie lo scritto di Marco come “vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio” (Mc.1,1), deve imparare pazientemente a non innervosirsi per le incomprensioni e le resistenze personali, imparare a domandare, nella preghiera intima, a Gesù di prenderlo nella sua scuola con pazienza e misericordia, per renderlo partecipe della sua Sapienza. E lasciare che egli, da Maestro, insegni a far tacere le voci delle tante parole che si fanno “per la strada” e a sostare “in casa” perché egli pronunci la sua parola. La provocazione di Marco nella contrapposizione tra le parole che si dicono “lungo la via” e quella che il Signore pronuncia “in casa”, nell’ascolto silenzioso e grato del discepolo che va “dietro” a lui, ci riguarda tutti: tutti abbiamo bisogno di questa casa per comprendere il senso della nostra esistenza.
Due conseguenze. Marco le fa emergere per offrirle alla riflessione della sua comunità. Le trae dalla nuova profezia della morte imminente.
La prima riguarda la qualità della convivenza all’interno della Chiesa. I discepoli devono essere consapevoli di non esistere per se stessi. Devono servirsi l’un l’altro. Il modo in cui la Chiesa deve pensarsi e comprendere deve nascere dalla Croce di Gesù che Chiara di Assisi proponeva alle sue monache come uno specchio in cui guardare per imparare Cristo. La Chiesa di Marco, la nostra Chiesa, deve servire i poveri e stare sulle frontiere dei bisogni dell’umanità senza ripiegarsi nei propri diritti, ma aperta a quanti condividono la stessa premura, pur inconsapevoli del Vangelo e non appartenenti alla sua visibilità, come Marco ci dirà chiaramente nella liturgia di domenica prossima a proposito della gelosia dei Dodici verso chi scacciava i demoni nel nome di Gesù, pur non appartenendo al suo gruppo: “Chi non è contro di noi, è con noi”. Per Marco, Gesù desidera che la Chiesa porti nel mondo la tolleranza e la pace, confidando che altri uomini comprendano il mistero di Gesù e lo testimonino nel modo che ritengono più idoneo. La croce rompe la ristrettezza della meschinità di parte e apre il cuore all’amore di Dio che è per tutti.
La seconda conseguenza nasce dall’immagine del bambino che Gesù abbraccia con tenerezza. Dobbiamo imparare a non strumentalizzare opere e persone per accrescere la nostra grandezza, a scegliere chi è più povero sul piano del tornaconto, come il bambino che non può dir nulla: si può solo abbracciare. Il vangelo ci domanda un amore tenero, come quello del bambino, per amare l’altro come un bambino. Perciò, per incontrare Gesù, ci vuole un cuore capace di commuoversi davanti ai poveri. Occorre guardare a questo Gesù che percorre le strade del fallimento e del rifiuto di chi conta sul prevalere.
Il simbolo del bambino resta, e ci viene donato dal Signore in questa liturgia. Significa chiamata alla limpidezza e docilità dei bambini. E significa ancora chiamata ad essere testimoni di quello che il Signore fa identificandosi con tutte le espressioni della povertà umana. In particolare dei bambini. Occuparsi di loro è segno, sacramento vivo e credibile dell’amore universale di Dio per tutti. Il dissesto familiare, l’evasione dall’obbligo scolastico, gli interessi abietti della malavita, il degrado ambientale sono lo scenario su cui Gesù domanda di portare visibilmente la sua tenerezza per i bambini. E questo ci interpella direttamente.
Oggi il Signore ci ha detto che accogliere un bambino è accogliere Lui, e chi avrà accolto un bambino nel suo nome sarà il più grande nel regno dei cieli. Più pienamente discepolo, più vicino al Maestro.
Ce lo ha ricordato in questi giorni il Vescovo con la sua lettera pastorale: “Per amore del mio popolo non tacerò”, chiedendo alla comunità cristiana di scuotersi dal letargo di una fede prigioniera delle sacrestie e proponendo l’equazione tra l’essere credenti e l’essere cittadini.
Che il Signore ci doni la passione per il bene del suo popolo.